Pratiche imperiali nell'epoca del terrorismo spettacolare
di Pasko Simone

Ultime da Baghdad: nonostante le smentite ufficiali dei portavoce dell'autorità civile Usa in Iraq, Baghdad è divenuta la prima città al mondo per numero di omicidi superando New York e Washington messe insieme. Nel 90 per cento dei casi si tratta di omicidi perpetrati con armi da fuoco. Lo scrive il quindicinale in lingua inglese “Baghdad Bullettin” che si stampa nella capitale irachena. Il giornale riporta anche la poco convincente smentita del generale Usa, Sanchez, mentre molto credibile risulta la dichiarazione di Faikh Amin Baker, direttore dell'Istituto di Medicina legale di Baghdad: “Prima della guerra ricevevamo circa 300 cadaveri al mese, cioè una media di 10 al giorno, mentre adesso le cifre sono più che triplicate”. (Dai quotidiani del 7 agosto 2003).
Ciò indica che la cultura del Far West si sta facendo strada in Iraq senza bisogno di campagne educative che illustrino agli ignoranti iracheni i valori che fanno grande la democrazia Usa. E comunque, in questo dopoguerra di guerra non più tanto spettacolare, si sta pensando anche a questo: convincere gli arabi ad abbandonare le loro secolari “cattive” abitudini di vita e darsi anima e corpo ai riti del paradiso yankee. Ci sta pensando a livello globale il consigliere per la sicurezza nazionale, Condoleeza Rice, già dirigente della Chevron-Texaco, oggi a capo di questo importante settore strategico: il lavoro di propaganda. Si tratta di convincere, attraverso le più varie campagne comunicative (volantini, trasmissioni radio-tv, fascicoli, libri, video ed altri supporti mediatici) della superiorità della fede consumistica su quella religiosa, dell'importanza del libero mercato per le sorti progressive del mondo e della validità del cinema americano (fumetti ed effetti speciali) nei confronti di quello di altri paesi ancora fermi su stantie questioni politiche e superati drammi esistenziali. Si parte in grande e con i soldi del Dipartimento di Stato (quattro milioni di dollari) si fonda e si stampa una rivista bilingue, americano e arabo, dal titolo volutamente amichevole: “Hi” (Ciao), da diffondere in 12 paesi arabi medio-orientali per esportare le culture dell'american way of life.
Ma diamo uno sguardo a questo superiore modello di vita e tentiamo di radiografarlo alla luce della “vecchia” cultura europea. Non è difficile mettere allo scoperto i congegni che reggono un sistema di potere mercantil-spettacolare che utilizza tutti i mezzi di comunicazione per la decomposizione di massa del pensiero critico e per il recupero delle sopravvivenze esistenziali bombardate da una informazione colonizzata e asservita ai potenti di turno. Basti sapere che nel mondo realmente rovesciato del capitalismo maturo, il vero non è che un momento del falso. C'è chi opera per noi, allora ci lasciamo portare docilmente per mano verso la catastrofe finale lasciando impacchettare le nostre illusioni di libertà e di autonomia da una macchina di sfruttamento totalitaria e assolutistica che viene contrabbandata come la migliore di tutte le possibili altre. L'alienazione marxiana si è fatta concreta e si chiama oggi “spettacolo” come ha mostrato Guy Debord, filosofo della “vecchia” Europa, ricercato da tutte le polizie del Capitale mondiale, nume tutelare di quel '68 che fa ancora rabbrividire i finti moralisti reazionari alla Vittorio Feltri. Lo spettacolo odierno è tutto in questo “equilibrio precario” tra vero e falso che coinvolge prima le menti poi la vita stessa degli ignari spettatori. Quando all'equilibrio del terrore della sacrosanta “guerra fredda” si sostituisce l'equilibrio del “terrorismo” (come sacrosanta paura quotidiana), allora si può ben dire che l'umanità ha fatto un notevole passo avanti nella storia della propria “rappresentazione spettacolare” del mondo.
L'attuale storia umana si trova a fronteggiare due esigenze fondamentali: una reale esigenza di pace proveniente da tutto il mondo civile ben consapevole di una prossima non improbabile catastrofe ecologica, e una pressante esigenza di guerra che assilla da tempo gli Stati Uniti d'America, paese in cui l'alleanza del capitalismo finanziario e industriale con l'apparato militare rivela sempre più la presunzione egemonica di una falsa ideologia “democratica” che innalza il proprio modello di vita a modello universale di civiltà. Il carattere distruttivo di tale pseudo-ideologia riporta direttamente alla pseudo-ideologia nazista della superiorità della “razza ariana” destinata a dominare il mondo per “civilizzarlo”. Una “missione”, quella nazista, che pretendeva di purificare il mondo con la forza organizzata degli eserciti, una “democrazia”, quella americana, che pretende di imporsi sul “male” del mondo con la potenza tecnologica delle armi. Ambedue parallelamente distruttive sulla base di un identico assioma: l'egemonia di un popolo su tutti gli altri – considerati alla stregua di “barbari” inferiori - con gli strumenti diretti o indiretti della violenza non legalizzata. Con una sola differenza in ulteriore negativo e su scala maggiore: l'esaltazione ideologica nazista viene qui integrata con l'esaltazione economica a “stelle e strisce” che tende a dominare ed asservire i corpi e le menti unendo alla forza delle armi il determinismo economico del dollaro rapace, ossia di una visione totalmente mercificata dell'esistenza basata sulla pratica diretta del consumismo e quella indiretta della pubblicità.
Gli Stati Uniti d'America sono, per quanto riguarda cultura e storia, un paese essenzialmente e vocazionalmente militarista. Le armi sono oggetto del desiderio, sogni nel cassetto, protagoniste onnipresenti dell'immaginario collettivo. I miti più prensili restano quello della colt, del winchester, dei marines e delle loro imprese; lo sport più praticato quello del tiro a segno in privato come nel pubblico (vedi i serial killer appostati nell'ombra che si divertono a uccidere i passanti); mentre l'ambizione maggiore e più inseguita in tutte le classi sociali è quella di riuscire vincitore assoluto sull'avversario, con ogni mezzo pur di prevalere. Cultura della violenza e della competizione feroce. Prevalere, prevaricare, dominare: è la cultura del militarismo più becero, quella che pervade la vita quotidiana al punto da assurgere a modello di comportamento sociale generalizzato. Così, nel 1966, due autorevoli analisti della struttura sociale ed economica degli Stati Uniti, mettevano in evidenza i fondamenti “spirituali” del militarismo americano:
“Gli interessi privati dell'oligarchia, lungi dal creare opposizione alla spesa militare, ne incoraggiano la continua espansione. […] Mentre la massiccia spesa pubblica per l'istruzione e il benessere tende a minare la posizione di privilegio dell'oligarchia, la spesa militare fa il contrario. Questo perché la militarizzazione favorisce tutte le forze reazionarie e irrazionali presenti nella società, mentre ostacola o soffoca tutto ciò che è progressivo e umano. Si determina un rispetto cieco per l'autorità; si insegna e si impone una condotta di conformismo e di sottomissione; e l'opinione contraria si considera come un fatto antipatriottico o addirittura un tradimento” (1).
Ancora più incisive, a questo proposito, le acute osservazioni dell'economista e sociologo americano Thorstein Veblen, che nel lontano 1904 così ben descriveva questo carattere del suo paese:
“Gli interessi economici impongono una politica nazionale aggressiva e gli uomini d'affari la dirigono. Si tratta di una politica bellicista e patriottica il cui valore culturale diretto è indiscutibile poiché contribuisce a creare una mentalità conservatrice nel volgo. In tempo di guerra, e sempre nell'ambito dell'apparato militare, i diritti civili sono sospesi, tanto più quanto più s'intensificano la guerra e la produzione bellica. L'addestramento militare è addestramento alle precedenze formali, al comando arbitrario e all'obbedienza indiscussa…[…] Ciò naturalmente vale soprattutto per i militari, ma vale anche, seppure in misura minore, per il resto della popolazione che impara a pensare in termini militari di grado, autorità e subordinazione e tollera sempre di più gli abusi a danno dei propri diritti civili… L'abitudine a un modo di vita di prepotenza e di aggressione è il fattore di disciplina più forte che può servire a contrastare l'appiattimento della vita moderna determinato dall'industria di pace e dal processo di meccanizzazione, nonché a ripristinare il senso ormai decaduto di status e di dignità sociale. La guerra, esaltando la subordinazione e il comando e insistendo sulle gradazioni di dignità e di onore proprie di un'organizzazione militare, si è sempre dimostrata una efficace scuola di barbari modi di pensare”.(2)
Ma quello che il presidente Eisenhower chiamò il “complesso militare-industriale” non è un fenomeno del presente ma un fattore di base iscritto nel codice genetico della pseudocultura politica americana sin dagli albori dell'Ottocento.
Tanto il militarismo risulta funzionale agli obiettivi egemonici dell'imperialismo, che sin dal 1823 la “dottrina Monroe” postula, come “pericolo per la pace e per la sicurezza” e in termini di “atteggiamento ostile” verso gli Stati Uniti, ogni tentativo da parte di qualsiasi potenza europea di imporre al continente americano “il loro sistema”. Nata con premesse anticoloniali, la “dottrina Monroe” diviene ben presto la bandiera ideologica dell'espansionismo americano, la cui prova del fuoco avviene nel 1845 con l'annessione del Texas e l'anno successivo con l'invasione del Messico per portare il confine americano fino al Rio Grande annettendo il Nuovo Messico e la California. Alla fine del secolo la controversia tra Gran Bretagna e Venezuela circa i confini della Guiana per il controllo politico ed economico del sistema fluviale dell'Orinoco, spinge il senatore Henry Cabot Lodge a dichiarare senza mezzi termini che “la supremazia della dottrina Monroe deve essere confermata e subito, pacificamente se possibile, con la forza se necessario”. In questo quadro trovano una giustificazione l'annessione di Guam, Portorico e delle Filippine e il protettorato di Cuba. Alle soglie del Novecento il presidente Roosevelt estende il concetto di “nuova frontiera” agli interessi americani verso l'Asia e la rinnovata controversia tra Argentina ed Europa porta allo scoperto i caratteri imperialistici di questo “giovane” paese. Nel messaggio al Congresso del 6 dicembre 1904 il presidente Roosevelt integra la “dottrina Monroe” con quello che passerà alla storia come “corollario Roosevelt”. Il messaggio, dando per scontata l'identità tra interessi statunitensi e interessi dei “loro vicini”, riconosce agli USA un potere di polizia in tutto il continente americano, giustificando così l'intervento militare e il controllo politico “se diventa evidente che la loro inabilità o mancanza di volontà nel fare giustizia in casa e all'estero ha violato i diritti degli Usa o ha provocato aggressioni straniere a danno dell'intero corpo delle nazioni americane”. L'estensione della dottrina Monroe con il corollario Roosevelt sarà il presupposto dell'allargamento dell'imperialismo americano sui Caraibi e della prima penetrazione, tramite il canale di Panama, del capitale monopolistico nel mercato asiatico. I Caraibi si configurano sempre più come un “mare americano” e gli interventi militari e le occupazioni seguono ad ogni crisi che minacci gli interessi americani: nel 1906 e nel 1912 a Cuba; dal 1907 al 1924 è la volta di Santo Domingo; nel 1909 e dal 1913 al 1933 tocca al Nicaragua; nel 1910 in Messico; nel 1915 ad Haiti. Intanto una peculiare applicazione della dottrina Monroe integrata col corollario Roosevelt è la “diplomazia del dollaro” di Taft e Knox. La “diplomazia del dollaro” si presenta come “una moderna concezione di interscambio commerciale” finalizzata a realizzare un incremento del commercio USA “sul presupposto che il governo degli Stati Uniti offrirà ogni giusto sostegno a qualsiasi legittima e vantaggiosa impresa americana all'estero”. Anche in questo caso l'oligarchia politica al potere si preoccupa di proteggere il capitale monopolistico americano anche con le armi ove necessario. In quanto alle conseguenze per quei paesi che usufruiscono o hanno usufruito di tale “diplomazia”, il caso recente dell'Argentina è ancora quanto mai vivo nel ricordo di tutti. Alla fine della prima guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno mostrato la propria forza militare, produttiva ed economica; la dottrina Monroe esce dall'ormai “normalizzato” emisfero occidentale per proporsi come modello adattabile a tutto il globo. È ancora un presidente americano, Woodrow Wilson, ad affermare che “accordandosi tra loro, le nazioni dovrebbero adottare la dottrina del presidente Monroe come la dottrina del mondo”. È chiaro che il suo riferimento è alle grandi potenze occidentali e che il messaggio tradotto in termini più espliciti vuol far intendere che i “principi americani” sono e devono diventare i “principi dell'umanità” tutta. Nel secondo dopoguerra, senza sostanziali novità, gli Stati Uniti riesumano il teorema Monroe-Roosevelt in funzione di strumento di contenimento del pericolo comunista in America latina, in occasione delle operazioni militari in Guatemala, Cuba e Santo Domingo; mentre in Europa mettono in pratica la “diplomazia del dollaro” col Piano “di aiuti” Marshall al fine di condizionare economicamente e quindi politicamente le libere scelte dei paesi europei in funzione antisovietica.
Quella che si definisce oggi come “dottrina Bush”, di cui la guerra all'Irak costituisce la prima applicazione e che è illustrata nel documento “La strategia per la sicurezza nazionale degli USA” diffuso dalla Casa Bianca nel settembre 2002, si presenta come una versione “aggiornata” della “dottrina Monroe”: con la consapevolezza dichiarata di rappresentare “una forza militare non paragonabile”, in essa si espone un programma di espansione imperialistica degli USA su scala mondiale, imperniato sulla teorizzazione della “guerra preventiva” e di “durata indefinita”.
In questa ultima e più radicale versione della “dottrina Monroe”, è il globo tutto e non più solo il continente americano a diventare “il cortile di casa” degli USA, in cui intervenire, quando vogliono e come vogliono, per risistemare il mondo in funzione degli interessi nazionali americani e delle imprese multinazionali. Va da sé che l'affermazione dell'unilateralismo e della missione civilizzatrice degli USA su scala globale non è, come alcuni pensano, un deficit di strategia dell'amministrazione Bush, ma è proprio la specificità della nuova dottrina Monroe planetaria che designa gli Stati Uniti come unico arbitro legittimato ad agire nelle zone strategiche del pianeta.
Quali i perché di questa svolta epocale? Quali le vere ragioni al di là dei proclami nel nome della “Zivilisation” e/o di missione umanitaria al grido di “Dio lo vuole”? Non certo per il solo motivo dell'attacco alle “torri gemelle”. Questo semmai è stato un ottimo pretesto per accelerare la svolta imperialistica. Ancora una volta, come sempre nel passato, è invece lo spettro della crisi che turba i sonni del capitale. La paura di perdere risorse, di abbassare il proprio tenore di vita, di rinunciare al consumismo sfrenato e alla possibilità di arricchirsi sulla pelle degli altri popoli incrementando a dismisura il proprio capitale finanziario: ecco la paura che la spuria democrazia del potere oligarchico texano deve spacciare sotto le mentite spoglie del “terrorismo” mondiale, ecco il vero terrore che la videocrazia deve inculcare tramite il telefascismo di massa: lo spettro del terrore quotidiano non è che il risvolto immaginifico clonato dallo spettro ricorrente e sempre imminente della crisi. È per fuoriuscire dalla crisi, che era già in atto prima dell'11 settembre 2001 e che tuttora perdura minacciosa ad ogni apertura di borsa, che il capitalismo americano, come già nel passato, deve ricorrere alla guerra e all'economia di guerra. Come unico progetto di scampo dal naufragio non resta che la barbarie della guerra, visto che non esiste “guerra umanitaria”, in quanto “la guerra viene dall'economia, e la cultura non ha proprio nulla a che fare con l'economia” (Brecht), così come l'umano non ha nulla a che fare con la guerra.
Gli Stati Uniti d'America sono l'unica nazione industrializzata sulla Terra a non avere l'assistenza sanitaria pubblica. Eppure la spesa sanitaria pro capite è la più alta di ogni altro paese. La scuola americana, un tempo vicina ai pregi che aveva in genere la scuola di stampo anglosassone, è oggi, a tutti i livelli, la più scadente del mondo occidentale, di gran lunga inferiore agli standard di formazione europei. La cultura vera è appannaggio di una piccola élite, mentre la formazione delle masse è delegata alla cultura-spazzatura televisiva. Un bambino americano è “formato” più dalla pubblicità che dalla scuola. Nonostante il boom economico degli anni Novanta, il lavoratore medio americano lavora con orari più lunghi e per salari minori che trent'anni fa. Gli Stati Uniti hanno la più ineguale distribuzione della ricchezza di tutto il mondo industrializzato: l'un per cento più ricco del paese possiede più ricchezza del 95 per cento più povero; mentre hanno la più alta percentuale di povertà infantile, l'amministratore delegato di una Corporation guadagna 500 volte di più di un normale impiegato della stessa, con un deficit commerciale di 360 milioni di dollari, più che a impiegare le risorse nel miglioramento generale della vita umana, si bada a finanziare profumatamente il complesso apparato dell'industria militare.
Mentre nel sistema dell'imperialismo “tradizionale” il capitale veniva esportato verso paesi poveri alla ricerca di occasioni di investimento o di sfruttamento inteso anche a valorizzare le risorse locali, da circa quarant'anni il movimento finanziario basato sul dollaro fa sì che negli Stati Uniti si raccolgano capitali provenienti da tutto il mondo. Anche quando essi dicono di aiutare i paesi poveri o in via di sviluppo, semplicemente investono 10 dollari in un sol modo per ricavarne 100 in mille altri modi (speculazioni finanziarie, movimenti borsistici, appropriazione di materie prime, condizionamenti politici, ecc.).
Infatti: “Fin dal 1949, quando gli Stati Uniti rifiutarono di ratificare la creazione di un'Organizzazione commerciale internazionale che essi stessi avevano promosso, divenne chiaro che gli Stati Uniti avrebbero sostenuto una dottrina economica per il resto del mondo al puro e semplice scopo di dominare nella più grande misura possibile l'economia mondiale, applicando contemporaneamente a se stessi principi diversi. Gli Stati Uniti impongono quote d'importazione e barriere doganali sui prodotti agricoli e sui minerali allo scopo di tenere alti i prezzi a vantaggio dei produttori americani, privando nello stesso tempo le nazioni del Terzo Mondo di un mercato di esportazione che esse potrebbero probabilmente dominare in alcuni settori chiave.[…] In parole povere, gli Stati Uniti hanno cercato di sfruttare gli aspetti più redditizi sia del protezionismo che del libero commercio”. (3)
Ma ciò che ha fatto degli Stati Uniti non solo la più ricca nazione del mondo ma anche quella che è riuscita a darsi una incredibile nomea di generosità senza limiti e di amore per i deboli e i diseredati, soprattutto se perseguitati dal “pericolo rosso”, è stato l'abile uso dei prestiti e degli aiuti che essi concedevano al mondo. Con Harry Truman, il presidente che inventò quella “finzione globale” (Gore Vidal) che fu la “guerra fredda”, si manifestò addirittura una sindrome dei prestiti a usura che ebbero appunto la loro massima espressione nel Piano Marshall. Come disse John Foster Dallas al Congresso nel 1958 a proposito di una proposta di aiuti all'estero: “Non penso affatto che lo scopo… sia di farsi degli amici. Lo scopo è quello di fare gli interessi degli Stati Uniti”. (4) Ciò è confermato dalla spregiudicata metodologia finanziaria messa in atto in diversi paesi, come si può ricavare dai dati delle Commissioni congressuali. Scrive ancora Kolko: “I programmi di aiuto hanno generato vasti fondi di contropartita in valuta locale. Nel giugno 1965 questi fondi ammontavano a quasi 2 miliardi di dollari, grazie all'obbligo delle nazioni beneficiarie di depositare il ricavato delle vendite degli aiuti americani su conti bancari controllati congiuntamente. Per quanto non siano convertibili in dollari, questi fondi hanno privato le nazioni beneficiarie di entrate in dollari che sarebbero altrimenti state possibili se l'aiuto americano fosse stato dato sotto forma di stanziamenti diretti”. (5)
Naturalmente tutto ciò non è frutto della improvvisazione dei politici di Washington, bensì il risultato di una precisa strategia imperialistica elaborata in primis dalla CIA, la maggiore agenzia mondiale di spionaggio specializzata in lavoro “sporco” che prepara il terreno nella zona interessata in vari modi (complotti, attentati, colpi di stato, falsificazione di dati, spionaggio industriale e privato, diffusione di informazioni false e tendenziose, ecc.), con l'apporto super retribuito dei cervelli dell'apparato militar-industriale impegnato sempre su due fronti: quello della elaborazione teorica delle strategie di dominio e quello della innovazione tecnologica degli strumenti di distruzione. Come ha detto una volta, da vero esperto, l'ex-presidente Francesco Cossiga: “Uno dei più grandi successi dei servizi segreti è quello di far credere che non esistono”. È per questo sfuggente assioma che l'apporto della CIA nella “strategia della tensione” in Italia, e attualmente nel mondo globalizzato, è ricorrente ma ancora da dimostrare in tutti i suoi risvolti. È per questo dato incontrovertibile che l'azione del connubio CIA americana e Mossad israeliano in diversi misteriosi avvenimenti e loschi fatti di questi decenni rimane oscura alla gran parte dell'opinione pubblica mondiale. Se le azioni dei marines e delle forze “regolari” dell'esercito americano sono sbattute tutti i giorni in prima pagina per confermare lo spettacolo dei loro sacrifici in nome degli ideali democratici, gli agenti dei servizi segreti e le forze “irregolari” della CIA devono operare nella massima “disinformazione” possibile e non devono mai (o quasi mai) comparire nei fatti di cronaca al fine di poter assolvere ai loro compiti di supporto in operazioni che ben poco hanno a che fare con gli ideali democratici. A tal proposito ancora oggi ci si chiede cosa sia veramente accaduto l'11 settembre a New York, ancora oggi ci chiediamo che gioco si nasconde dietro i proclami mediatici ricorrenti e puntualmente lasciati cadere nel nulla di due “mostri” che rispondono ai nomi di Bin Laden e Saddam Hussein e ci sarebbe da chiedersi chi effettivamente muove le fila o guida la regia dei tremendi mega-attentati che stanno avvenendo dopo l'11 settembre in numerose zone del globo ove la destabilizzazione totale di già precari rapporti politici (vedi India-Pakistan, Russia-Cecenia, Turchia, Arabia Saudita, Irak e Iran, Italia non esclusa) non può che riuscire utile e vantaggiosa solo a chi aspira al controllo e al dominio del mondo. Come qualcuno ha scritto a proposito di questa trama oscura di attentati che preparano, accompagnano e seguono le azioni di guerra: “Il terrorismo è un formidabile strumento per legittimare le guerre: esso va contenuto ma non sradicato del tutto. Altrimenti si perderebbe un alibi di grande suggestione popolare. Il terrorismo serve per giustificare il potenziamento dell'industria degli armamenti, necessaria per il superamento della crisi americana. L'11 settembre 2001, con la violazione del suolo americano si è determinata un'ondata di panico, che viene continuamente rinfocolata dagli annunci da parte dei servizi segreti di attentati imminenti, che il più delle volte fortunatamente non si verificano, e dalle loro spettacolari celebrazioni” (6).

1) Paul A.Baran, Paul M.Sweezy, Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura economica e sociale americana, Einaudi, Torino 1968.
2) Thorstein Veblen, The Theory of Business Enterprise, New York 1904, pp. 391-393
3) Gabriel Kolko, Le radici economiche della politica americana, Einaudi, Torino 1970, p. 91.
4) Riportato in Kolko, op. cit. p. 93.
5) Kolko, op. cit. p. 98.
6) Nico Perrone, Democrazia e petrolio, in Giano, n. 41 sett-dic. 2002.


“Gli uomini pagano l'accrescimento del loro potere con l'estraniazione da ciò su cui lo esercitano”.


(Horkheimer - Adorno)

settembre - dicembre 2003