L'impegno politico? Un vero piacere
di Cristina Morini

Milano, primo maggio 2002, ore 15, May day parade. Una sfilata di 50 mila persone che per il terzo anno festeggiano il “loro” primo maggio, quello del precariato sociale, in un tripudio di carri e sound system che pestano l’aria, un colpo dopo l’altro.
Alla fine della manifestazione A/Lex, uno degli organizzatori della rete Chainworkers, rilascia l’ennesima intervista, questa volta a una telestreet locale, Nomade tv. L’operatore abbassa la telecamera e dice: “La maggioranza delle persone che sono venute, e sono tante, hanno partecipato non per i temi, ma perché questo è una rave all’aperto, itinerante”.
A parire da questo piccolo esempio, vale la pena di fermarsi a pensare. Siamo in presenza di un cambiamento di parametri che prevede oggi una maggior incidenza dell’aspetto del piacere all’interno delle forme tradizionali dell’agire politico. Oltre che dagli imperativi etici (e da una certa qual vocazione al martirio, sempre interna alla militanza), la spinta alla partecipazione nasce da una gioiosa attenzione per l’esistente e dal piacere della condivisione di sguardi e progetti. La realtà del movimento allo stato attuale - singoli corpi che non fanno riferimento ad appartenenze specifiche - prevede anche un più ampio ricorso alla creazione di una relazione viva con l’oggetto della propria battaglia, che non si intende come sganciata dal resto della vita, ma come parte integrante di essa.
Rivendicare una dimensione diversa per il proprio lavoro, sollevare conflitti per rivendicare diritti, vuole dire anche ricominciare a prevedere una diversa visione del sé all’interno della città, una forma di riappropriazione fisica del tempo e degli spazi, rendendosi visibili all’interno delle strade, colorandole e nominando a voce alta (tra la musica assordante) i propri bisogni. La nostra bocca è una bocca che sa anche ridere, da essa escono le tante parole che costruiscono i fili delle tante reti di comunicazione che riusciamo a tessere, tutte basate su corpi vivi e reali, sul piacere di piacersi e di rispecchiarsi nell’altro, sul piacere della relazione.
Riporto l’esplicitazione di questo concetto tratta da “Economia totale e mondo della vita” di Mario Alcaro (Manifesto libri): “Politica in allegria per noi significa azione volta al potenziamento della vita e all’alleggerimento della vita dall’ipoteca della morte. Per noi la politica è soprattutto socializzazione, riscoperta e reinvenzione delle forme del vivere insieme (...). La politica come potenziamento della vita ci porta a valorizzare quel modo d’essere proprio dell’esistenza umana che è la socialità. La politica dunque come socializzazione, riscoperta dei luoghi e dei tempi che la tradizione del vivere assieme ci ha consegnato. Riattivazione dei circuiti di incontro, di ritrovo, di comunicazione e di dialogo. Rilancio della festa, dello spettacolo, del racconto e della rappresentazione. Riappropriazione sociale del tempo libero”.

Un atto creatore vi seppellirà.
Al centro di questa idea della politica come atto gioioso perché forma di resistenza della vita (sull’ingiusto, sul vuoto, addirittura sulla morte) c’è il concetto del bìos (non semplicemente la vita naturale ma la vita politica) e la gioia della relazione, del pensare collettivamente. È la relazione che si riesce a costruire, che può costruire poi, a sua volta, le esperienze politiche, in modo complessivo, dinamico e in questo senso anche “felice”. È per questo che parlare di politica, date queste premesse, non può in nessun modo ridursi a parlare di un elemento lontano dalla vita ma, al contrario, può darsi solo parlando di qualcosa di incarnato complessivamente in essa.
Provo a dire, senza alcuna intenzione di introdurre con ciò analisi separatiste, che questo genere di approccio è particolarmente sentito dalle donne. Provo a dire che alla “femminilizzazione” del mercato del lavoro attuale - intesa nel senso che il tipo di “somministrazione” da sempre riservata sul lavoro alle donne tende a diventare un paradigma per tutti. È quello femminile, infatti, il modello di lavoro strutturalmente più flessibile e facilmente anche invisibile, contemporanemente portatore di connotazioni complesse adeguate alle moderne richieste di complessità della produzione postfordista (assunzione di responsabilità, capacità comunicative-relazionali, capacità linguistiche-emozionali, capacità cooperative) - corrisponde oggi un approccio marcatamente “femminile” del movimento nel suo complesso, che può forse essere proprio rintracciato in questa aderenza al bìos, la completezza della vita in tutti i suoi aspetti.
La biopolitica è dunque la forma di questa nuova dinamica vitale delle forze, potenza multipla ed eterogenea di resistenza e creazione. L’obiettivo è complessivamente ambizioso, molto ambizioso: la riconquista della vita che viene sottratta, depredata con sottili forme di condizionamento, con immaginari distorti, con gli imperativi del mercato, con la messa in produzione della cooperazione, con l’impero della contrattazione individuale. Le donne avvertono prepotentemente, più forte, questa sottrazione della vita a cui oppongono la forza della vita stessa, insomma. Forse, provo a dirmi, perché sono portatrici, volenti o nolenti, della capacità di generare e allora ecco la necessità dell’azione. La natura viene trasformata dalla prassi: agire, lottare, è la stessa cosa che creare.

No more Neuronomics.
Abbiamo di fronte non più un semplice problema di rapporti economici ma un problema ontologico.
Oggi non si può più ridurre tutto a una sola questione di rapporti di forza e di gerarchie tra capitale - lavoro. Senza in nessun modo negare l’esistenza del coordinamento e delle relazioni di comando tipiche del sistema capitalista, è necessario integrare l’ottica marxiana prendendo atto di quella tendenza dell’economia politica, di cui parla Foucault, a governare “tutto un campo materiale complesso in cui entrano in gioco le risorse naturali, i prodotti del lavoro, la loro circolazione, l’ampiezza del commercio, ma anche la pianificazione delle città e delle strade, le condizioni di vita (casa, alimentazione), il numero degli abitanti, la loro longevità, il loro vigore e la loro abitudine al lavoro”. Oggi la compartecipazione richiesta dal sistema ai lavoratori è complessiva e totale, e le forme di controllo e di pressione per imporre questo approccio sono, a loro volta, complesse e totalizzanti.
Ossessionato dai target da raggiungere, il lavoratore postfordista “tipo” fa coincidere il proprio benessere, la propria stessa esistenza, con il benessere, l’esistenza dell’azienda, in un nesso inscindibile, difficile da sbrogliare e con effetti collaterali socialmente e umanamente devastanti. Questo tipo di percezione diffusa si è vista con il Referendum per l’art. 18: dentro la melma del “tutto è mercato”, l’orizzonte misero del mantenimento dell’equilibrio esistente viene letto come l’unico destino possibile, collettivo e immutabile. L’obiettivo del sistema è quello di massimizzare la propria pervasività a tutti i campi del vivente.
Negli Usa esiste una recente area di ricerca chiamata “Neuronomics”. E come tutte le novità, c’è molto fermento su questa nuova frontiera della ricerca economica, come ha testimoniato anche un lungo articolo sul New York Time. Ebbene, che cosa fanno questi? Hanno pensato di utilizzare da un lato lo strumento matematico della teoria dei giochi dall’altra di ricorrere ai più recenti studi di biologia cerebrale e neurobiologia, per capire se dallo studio del funzionamento del cervello e dalla comprensioni delle reti neurovegetative che stanno alla base degli impulsi cerebrali sia possibile arrivare a definire delle forme comportamentali specifiche comuni a più essere viventi. Sintomatico e inquietante insieme.

Riprendiamoci la vita.
Ma, se questo è ciò che il capitalismo moderno tende a propinarci, si registrano per contro alcuni interessanti fenomeni di microresistenza. Tanto più attraenti perché vengono dal basso, su base individuale e in contesti dove non è presente alcuna forma di coordinamento e di lavoro di coscentizzazione, come si direbbe con un brutto termine.
Mi è passata tra le mani una ricerca di Fabio Sbattella e Marilena Tettamanzi: “Donne e lavoro: fattori di inclusione e di esclusione” (V&P Università). Si tratta di un’analisi qualitativa fatta sulla base di interviste raccolte tra lavoratrici di età variabile, impegnate in campi molto diversi gli uni dagli altri, che si sono messe in contatto con la rete degli Sportelli rosa, approntata dalla Regione Lombardia con i fondi Ue. Non voglio entrare nei dettagli della ricerca né in quelli della struttura che ha finanziato la ricerca.
Quello che mi sembra estremamente simbolico è l’emergere preciso, dai risultati, di una correlazione evidentissima tra il disagio fisico e psichico di queste donne e i meccanismi pervasivi di pressione e sfruttamento del lavoro - oltre che di esclusione (dalla carriera, dagli stipendi più alti, dalla stima dei superiori) - ma contemporaneamente anche il grande livello di consapevolezza da parte di molte di loro sull’origine del problema, sul “sistema di cose sbagliato”, come sintetizza in modo lapidario una delle intervistate. Mi ha molto colpito la frase di un’altra donna che dice: “il mondo maschile mi sembra un mondo ritardato”. Allora, nessun separatismo, nessun essenzialismo, ma trovo ispirante questa consapevolezza anticipatoria delle donne, nella nostra epoca. Le donne, credo, mostrano oggi questa “consapevolezza anticipatoria” non perché siano “più brave” degli uomini, ma perché il lavoro si va femminilizzando e perché la bioeconomia oggi usa la vita pervasivamente e le donne l’avvertono disperatamente, nella prassi quotidiana, avvertono come tutto ciò si riverberi profondamente nella nella loro stessa vita e in qualche modo tentano interessanti forme sperimentali di microresistenza, fosse anche l’andare a parlare con qualcuno, a uno sportello rosa o giallo, della loro situazione.
Un altro caso che mi è parso paradigmatico è rappresentato da una ricerca della Unioncamere Lombarda sulle donne over 40 e sul loro rientro al lavoro. Ebbene, i risultati, ancora non definitivi, stanno sconcertando la tesi di partenza: i ricercatori si aspettavano che le donne lamentassero e denunciassero la loro difficoltà a rientrare al lavoro, da cui erano uscite nella maggior parte dei casi dopo una gravidanza. Ebbene, il campione di donne visionato sta mettendo in luce che non c’è da parte di questi soggetti alcun desiderio di rientrare al lavoro. Anche qui: è “azione” questa? È un rigurgito della vita, è un tentativo, seppur tra mille difficoltà, di riconquista della vita?
Chissà, andrà valutato nel prossimo futuro. Ma mi sembra molto interessante e mi fa guardare con occhio ottimista al domani.

settembre - dicembre 2003