Gli ultimi anni, a partire dal luglio 2001 a Genova, hanno visto un crescendo di mobilitazione e partecipazione di cittadini a manifestazioni ed eventi di varia natura. Una larga fetta di opinione pubblica è stata conquistata alle ragioni del movimento antiglobalizzazione (contro questa globalizzazione con i suoi specifici caratteri di rapacità e ingiustizia sociale, non contro la globalizzazione tout court). Anche le ragioni del pacifismo hanno fatto egemonia nel corpo sociale, tanto che mi spingerei ad affermare che, senza un grosso movimento per la pace, come quello avutosi negli scorsi mesi in Italia – esemplificato dal fenomeno delle bandiere della pace ai balconi – anche il nostro paese sarebbe stato cobelligerante in Iraq al fianco di USA e Gran Bretagna. Per inciso, questo basti per chi afferma l’inutile vacuità di impegnarsi e mobilitarsi per alcuni valori fondamentali come la pace.
Ma le questioni su cui vorrei soffermarmi sono altre anche se a queste riflessioni iniziali collegate. Per dirla bruscamente e volutamente con una domanda semplice: che fanno quelle persone, che a milioni hanno riempito piazze e strade d’Italia, delle nostre città di Puglia, quando non manifestano? In altre parole sono “turisti della democrazia” (come direbbe qualcuno) o manifestanti di professione pagati dalla sinistra giacobina e comunisteggiante? O magari sono uomini e donne che a centinaia di migliaia si riconoscono in valori fondamentali, tanto spesso dimenticati anche a sinistra, e in nome di essi operano anche quotidianamente con discrezione, nel lavoro, nel volontariato, nella militanza associativa, politica e sindacale? Propenderei per la seconda ipotesi. E pur tuttavia non potrei evitare di interrogarmi su alcuni aspetti legati ai nuovi movimenti e ai nuovi fenomeni partecipativi di questi ultimi anni.
Innanzi tutto in parecchi concordano su due punti d’analisi intrecciati fra di loro. La partecipazione, in occasione di campagne a tema o manifestazioni, supera di gran lunga nei numeri e nelle identità sociali la forza e lo spettro di quei soggetti associativi, sociali, partitici che le indicono e le organizzano. Ne deriva per converso che anche grandi eventi (come le manifestazioni contro il G8 di Genova nel luglio 2001, il Forum Sociale Europeo di Firenze nel dicembre 2002, la manifestazione pacifista del 15 febbraio 2003 a Roma, tanto per citarne alcune) sono gestiti da macchine organizzative ristrette e necessarie, per quanto più ampie rispetto al passato. Una novità fondamentale vi è però nel lavoro a rete e nel processo di decisione collettiva delle piattaforme che permettono di vedere seduti a un tavolo soggetti differenti (si pensi alle organizzazioni cattoliche di base, a sindacati come CGIL e CISL, a partiti come Rifondazione Comunista e i Verdi, a soggetti associativi classici come l’Arci, ai centri sociali, alle realtà di volontariato, impegno umanitario e realtà formatesi nel magma del movimento come i “Disobbedienti”.
L’aspetto nuovo e interessante è il piano di parità su cui stanno soggetti così differenti per storia, pratiche, funzioni, che si ritrovano a stare insieme per organizzare qualcosa che riscuote poi, come visto, una grande partecipazione. Sicuramente l’aspetto unitario, ossia l’unità con cui tanti soggetti politici in senso lato si presentano, spiega il successo di certi eventi e certe campagne di mobilitazione. Ma pesa anche il profilo alto, avanzato, radicale (nel senso della nettezza) delle piattaforme e dei contenuti rivendicati (per es. no al G8, no alla guerra senza SE e senza MA, e perché no anche Molfetta è Città della pace…). In tante occasioni il tanto bistrattato “popolo di sinistra” si è ritrovato insieme e su contenuti forti e netti, scavalcando le leadership propriamente partitiche, costrette a loro volta ad accodarsi alla spontanea forza di presa dei movimenti.
Questo ritorno di valori forti e congiuntamente di partecipazione unitaria rappresenta un’occasione, una speranza per la rinascita della politica e non un problema o, peggio ancora, una seccatura. Tuttavia non si può tacere il fatto che forse l’esplosione dei movimenti ha fornito uno strumento per esprimere la propria voce a chi non si è visto rappresentato da un’opposizione politica parlamentare di centro-sinistra a volte afasica o troppo titubante, quando non proprio bipartisan. C’era e c’è un fermento di opposizione nel paese, ci sono moti di indignazione per le sconcezze morali e sociali perpetrate dalle destre al governo. Sarebbe un errore grave non intessere pazientemente un’opera di costruzione di nuovi rapporti sociali e politici in Italia, a partire da quanto emerso negli ultimi anni.
Quanto detto finora è premessa fondamentale degli abbozzi di analisi sviluppati in seguito e della domanda seguente innanzi tutto: “Che significa ricostruire un’opposizione efficace alla destra e progettare un percorso di cambiamento del governo e dei rapporti sociali in Italia oggi?”. In poche parole e molto semplicemente significa coniugare unità, nettezza dei contenuti e nuovi meccanismi di partecipazione e controllo delle scelte e delle decisioni per dare vita a un progetto di cambiamento realistico, attuabile e non per questo meno netto e radicale. Spenderei qualche parola per ogni singolo elemento di questa triade.
L’unità
In primo luogo, la domanda sociale d’opposizione reclama l’unità di tutti i soggetti intenzionati a scacciare le destre dal governo nazionale e locale. Questa domanda è ineludibile, incontestabile. E però come sempre non si può considerare l’unità come un fatto astratto (come la notte in cui tutte le vacche sono nere o come un altare su cui tutto sacrificare e magari poi ci si ritrova con un governo non di centro-destra che si imbarca in un’avventura militare oltremare). L’unità non è un gioco aritmetico di sommatoria di percentuali dei partiti, anche se qualcuno può concepirlo così. Quest’unità è fittizia, non è reale, ha il respiro corto e alla fine si rovescia in una sconfitta bruciante, prima sul piano sociale e poi su quello politico. Proverò nel prosieguo a rafforzare queste affermazioni.
I contenuti
A questo punto intervengono le considerazioni altrettanto ineludibili sui contenuti, sulla sostanza di un progetto di cambiamento e di governo alternativo alle destre. Qualsiasi progetto deve essere nettamente alternativo. Non si vince solo perché ceti sociali e gruppi d’interesse, magari illuminati, colti, “riflessivi” decidono di riferirsi a una larga coalizione, magari più onesta e competente, che contenda alla Casa delle libertà la posta del governo.
Si vince anche e soprattutto (e non solo le competizioni elettorali ma anche la sfida dell’egemonia culturale nella società) se questioni centrali come la gestione pubblica trasparente e solidale dei beni comuni, la creazione di nuove e serie opportunità di lavoro, la garanzia di un reddito sociale per fasce deboli, la difesa dei diritti sociali acquisiti e l’estensione degli stessi a nuove figure sociali e produttive, la difesa dell’ambiente e del territorio sono punti caratterizzanti e distintivi di una coalizione alternativa, aliena da trasformismi e trasversalismi all’inizio ma soprattutto in corso d’opera.
Si vince se i contenuti di un nuovo progetto politico diventano senso comune fra le persone che si appassionano ad essi perché quei contenuti possono rappresentare la soluzione, almeno parziale, ai loro problemi. Si vince – e ripetiamo, non solo la competizione elettorale – se a questi contenuti che diventano punti vincolanti e sottoscritti con i cittadini, si tiene fede fino in fondo. E questo non per una semplice “questione di onore”, ma anche perché, quando si vince e si governa non si possono dimenticare le ragioni propulsive di una vittoria. Invece spesso si ritiene che la conquista del governo sia il punto d’arrivo del cambiamento e non il punto di partenza. A ciò si aggiunge il retaggio, tutto novecentesco, dell’idea che con il governo si può fare tanto, se non tutto, finanche cambiare radicalmente i processi sociali. Sinceramente, di “rivoluzioni dall’alto” ce ne sono state parecchie nel secolo passato. Fra “industrializzazione forzata” e l’idea di “entrare nella stanza dei bottoni” per fare le “riforme di struttura” davvero non si può pensare che siano questi i modelli nuovi a cui la sinistra possa attenersi.
In questo momento storico, specie a Molfetta e dopo le passate stagioni di impegno, bisogna capire che quando si dimenticano le ragioni di un patto vincolante, non perde solo un progetto di cambiamento o una coalizione. Perde la politica come capacità di unire la gente, di parlare alle persone, ai loro bisogni e desideri. Quando si perdono di vista gli interessi di chi si rappresenta, specie quando si tratta di soggetti deboli e non tutelati che più avrebbero bisogno di una voce forte a loro sostegno, e che magari hanno riposto in un progetto collettivo condiviso le loro ansie di riscatto e di dignità, sottraendosi alla trappola del clientelismo, della compravendita della dignità, ebbene, quando si dimenticano queste persone reali, la politica subisce uno scacco tremendo, la sinistra segna il passo e smarrisce identità e funzione. È davvero triste e preoccupante sentire dire “sono tutti uguali”, “destra e sinistra per me pari sono”, “la politica? È cosa loro, cambiano tutto perché non cambi mai niente”. Ancora più sconsolante quando a dirlo è qualcuno che si vorrebbe rappresentare o per cui si portano avanti battaglie.
La partecipazione
Dinanzi a ciò o si ricostruiscono legami di fiducia con la cittadinanza oppure non si vince davvero. Si vincerà una competizione elettorale ma si rimarrà poi imprigionati in una logica di governo schiava di veti incrociati, ricatti, pressioni oscure, e serva di compatibilità economiche che non tengono conto della dignità e dei bisogni delle persone.
Ma se la vecchia idea di governo dall’alto e gli strumenti della democrazia rappresentativa mostrano la corda e non consentono una partecipazione convinta, consapevole, appassionata, come si possono ricostruire legami fra soggetti di rappresentanza (vecchi e nuovi), volontà d’impegno e partecipazione al governo delle scelte sulla “cosa pubblica”? Quali meccanismi possono sperimentarsi in cui la volontà collettiva e l’impegno riescano a incontrarsi per dare vita a una nuova stagione di partecipazione e rinnovamento morale che incidano anche e soprattutto sulle scelte di governo e amministrazione?
Premetto a questo punto del ragionamento una convinzione metodologica. Non pretendo di fornire qui una soluzione pratica e di pronto uso sul “come si partecipa”, sul “come si decide questo, come si organizza quello, come si designa quell’altro”. Quindi niente contenuti specifici, solo indicazioni e riflessioni generali (ma non generiche), propedeutiche (ma non inessenziali). Quando infatti si passa ad affrontare la questione dei meccanismi, e in generale, dell’organizzazione della politica intesa come partecipazione alle scelte e alle decisioni, bisogna stare attenti a non rifugiarsi subito, in prima battuta in considerazione tecnicistiche. La tecnica del meccanismo partecipativo non è infatti astratta, non è solo una questione di metodo, è una conseguenza che discende, o meglio, è coessenziale al confronto programmatico e culturale fra i soggetti della società civile. Ne deriva che non esistono (per fortuna) prontuari o ricette preconfezionate sui meccanismi partecipativi. Sarebbe fuorviante, ma soprattutto prematuro oggi in questa situazione, ideare uno schema vuoto in cui comprimere e fare entrare di forza vari soggetti differenti per natura e funzione.
Ma vengo direttamente ad alcune considerazioni di merito. Come potrebbero trovarsi insieme associazioni, cittadini, comitati, movimenti, partiti su un piano di parità per discutere e confrontarsi sullo stato attuale dell’opposizione alle destre e per immaginare un percorso alternativo? Sicuramente a nessuno spetta una dignità maggiore di altri, e tutti possono e devono concorrere alla definizione di modalità decisionali. La soluzione non può essere parziale nel senso di essere conveniente e strumentale per una parte o alcune a spese delle altre. Ogni soggetto deve avere la possibilità di esprimere il proprio punto di vista in una convenzione, che chiameremo “democratica”, affinché ogni differenza sia salvaguardata eppure vincolata all’obiettivo di raggiungere un’intesa comune su problemi e questioni centrali che interessano la collettività. Questo per dire che la partecipazione non è e non si risolve in una mera procedura organizzativa ma prende le mosse da una autoconsapevolezza e un’autoconvocazione di tutti i soggetti interessati a fare la propria parte, senza volontà egemoniche né volontà di “fare fuori” alcuna componente, in un progetto di cambiamento alternativo che deve essere quanto più ampio e condiviso realmente per battere le destre che attualmente governano.
Tutti i soggetti interessati a confrontarsi, discutere, lavorare per un’alternativa sono gli stessi che insieme definiscono il patto vincolante per tutti, un patto che contempla contenuti; criteri e profili per le persone adatte a rappresentare un percorso nuovo; meccanismi decisionali e forme di garanzia e controllo sulle decisioni prese collettivamente e sull’operato dei rappresentanti in coerenza con il programma che insieme si è scelto.
Nel recente passato abbiamo assistito a cambi di maggioranze e a costruzioni delle stesse sulla base di rapporti direttissimi fra sindaco e consiglieri. Tutto ciò senza un reale e incisivo controllo né dei partiti né dei cittadini, ma sotto invece un’attenta regia di alcuni gruppi sociali, lobby e consorterie professionistiche di notabili. Sicuramente questi sono i frutti di uno specifico sistema bipolare e maggioritario che lungi dall’arrecare stabilità delle coalizioni ha abbassato ulteriormente il livello di partecipazione. I cittadini si trovano spesso a scegliere candidati e opzioni politiche ridotte a due, e spesso anche non differenti sulle grandi scelte politiche e sui princìpi di fondo. È in questa cornice d’impoverimento culturale e democratico che sorgono specifici fenomeni di scadimento morale della vita pubblica e non già perché l’Italia o Molfetta siano condannate dal Fato a partorire berlusconidi, azzollinidi e minervinidi. La politica è sempre più ridotta a difesa e concertazione di interessi di singoli e di gruppi privati, a composizione di alleanze innaturali tenute insieme spesso solo dal governo e dal sottogoverno che consentono spartizioni e prebende.
La sfida difficilissima è invertire la tendenza. Contrastare un meccanismo di riduzione ademocratica (anche se a volte operata con gli strumenti della democrazia formale), degli spazi di azione e decisione collettiva diventa obbligato non solo alla vigilia di appuntamenti elettorali ma anche prima degli stessi e dopo, nel prosieguo dell’azione di governo e amministrazione. La partecipazione dei cittadini non è una vacca grassa da mungere solo per raccogliere consensi elettorali ma un obiettivo permanente per garantirsi una buona tenuta democratica, un elevato livello culturale. Solo la partecipazione permanente dei cittadini è antidoto decisivo contro gestioni personali e privatistiche (quando non autoritarie) della “cosa pubblica”. Errore fatale sarebbe dire ai cittadini di tornare alla loro vita privata dopo una vittoria tanto gravida di aspettative di cambiamento, dopo cioè il primo passo necessario ma non ancora sufficiente per un percorso di cambiamento. S’imporrebbe definitivamente così l’idea pericolosa dell’esistenza di cittadini deputati sempre e solo a governare nel chiuso delle stanze e di altri cittadini destinati di tanto in tanto a depositare una scheda in un’urna sempre più priva di senso. Ovviamente quando il cattivo tempo impedirà la gita in campagna o il bagno a mare.