Mentre eravamo impegnati nella stesura dell'editoriale, ci è pervenuto, per gentile concessione della famiglia, un testo inedito di Dino Frisullo, ricordo di un'esperienza coraggiosa vissuta in Turchia, scritto a Roma nel settembre del 1997.
Questo resoconto della lotta del popolo kurdo, delle violenze perpetrate dal potere, delle sofferenze impresse nella carne di una moltitudine di donne, di vecchi, di giovani, di uomini ci ha sconvolti e costretti a riflettere.
Queste pagine, scritte viaggiando su strade rese pericolose dall'odio, queste parole, pensate mentre la violenza degli apparati di potere si scatenava su uomini inermi, questi segni, tracciati su pezzi di carta sporchi di lacrime, di sudore e di sangue, hanno irrimediabilmente compromesso il nostro scrivere “al riparo”.
Le questioni, siano esse di “metodo” o di “stile”, non resistono all'incalzare di una “scrittura esposta”: esposta alla persecuzione e alla morte.
Sul pavimento del furgone di polizia il sangue continua a scorrere dal piede massacrato di Rosemarie. Sangue sul viso di Marco e César. Sangue. Uno afferra per i capelli Stephan, poi Maria. Schiaffi in pieno volto a freddo. Maria ha diciotto anni e un viso d'angelo. Il furgone ha un sussulto, protestiamo in sette lingue diverse, l'altro poliziotto tira fuori la pistola. Silenzio. Si avvicina a Friedrich, lo scuote. Friedrich sostiene il suo sguardo, in tedesco gli dice forte: “Potrei essere tuo padre!” Forse l'altro capisce o forse è sufficiente lo sguardo fiero dell'anziano: si ferma. Cerca qualcun altro da tormentare, incerto, poi rinuncia. Tira le tende: Istanbul non deve vedere quelle facce insanguinate. La piccola Ute, rigida, si sostiene con le mani il collo e la testa, sta male: Trauma cranico, si saprà poi, e quasi le rompevano le vertebre del collo. Nessuno può aiutarla. Ci scambiamo occhiate e sorrisi con gli angoli degli occhi e delle labbra. Che cosa starà succedendo là fuori? Sarà finito il massacro? Nell'ultima fila, rigido e un po' spaurito nel suo completo grigio, siede il console inglese: hanno preso anche lui! Finalmente il furgone si muove. In noi c'è una strana calma, un doloroso rilassamento. Ciò che doveva accadere è accaduto. Da tre giorni cercavano il sangue, l'hanno avuto. Da tre giorni li aspettavamo, sono arrivati. Li abbiamo costretti a togliersi la maschera, a mostrare al mondo che cosa intendono per ordine: il terrore. Nessuno di noi ha paura, neanche Faruk e Mertap, giovanissimi giornalisti kurdi. Sono loro che hanno paura di noi. Ci guardano con paura, guardano la faccia impassibile di Rosemarie che perde sangue a litri e non impallidisce. Nessuno di noi si lamenta. C'è un grande silenzio, mentre la città sfila fuori dai finestrini, nel sole. Ci guardano sgomenti, ora, i poliziotti: come si guarda ciò che non si capisce. Ventiquattr'ore prima, avevano lo stesso sguardo i soldati che ci avevano fermati a Siverek, a poche decine di chilometri da Diyarbakir. Dalle torrette dei carrarmati e da dietro i fucili, schierati sulla strada e a ventaglio nei campi come un plotone di esecuzione, guardavano stupefatti quei trecento giovani disarmati davanti a loro. Se provavamo a passare, avrebbero sparato? Ce l'eravamo già chiesto prima, nell'autobus, e la maggioranza di noi aveva deciso di proseguire comunque, anche a rischio della vita. Non rischiavano la vita per noi e più di noi, i kurdi che ci avevano accolti manifestando a Istanbul, ad Ankara, a Bolu, ad Adana, a Birecik, ad Antep, a Urfa, e quelli che ci attendevano a Diyarbakir? Non potevamo tornare indietro sconfitti. Invece alla fine siamo tornati indietro. Riunioni convulse, incertezza. Davanti a noi i soldati e intorno, invisibili, gli uomini di Bucak (milizie irregolari filo turche). Nel cuore del Kurdistan. Avremmo dovuto discutere prima che fare all'ultimo posto di blocco. La prossima volta dovremmo assolutamente discuterne prima. Forse avremmo dovuto proseguire noi soli, gli europei. Avrebbero sparato? Avrebbero massacrato davanti al mondo, una missione di pace proveniente da tutta l'Europa? E, cosa sarebbe successo, in questo caso? Forse questo avrebbe scosso il mondo, e incendiato il Kurdistan. I nostri amici kurdi ne erano sicuri: i soldati avrebbero sparato. Si sono sentiti responsabili per noi, e noi per loro. Siamo tornati indietro. Ed è stata una fuga, una brutta notte, inseguiti da gendarmi e mafiosi che agitavano i mitra, minacciati ad ogni frenata degli autobus. Una fuga di quasi 1000 chilometri. Quando la fuga si è fermata, alle porte di Ankara, eravamo furiosi. Furiosi contro i gendarmi, i soldati, i poliziotti, e contro noi stessi. Il Kurdìstan era lontano, da Diyarbakir giungevano notizie di arresti e rastrellamenti. Ed ora neanche ad Ankara si poteva entrare. Seduti a terra, con i blindati e gli idranti di polizia già schierati, abbiamo deciso: ora basta, di qui non ci si muove. Non ci siamo mossi per due ore. Strada bloccata, i consoli accorsi da Ankara che mediavano con la polizia, e noi affidavamo alle telecamere il nostro messaggio a Diyarbakir: siamo ancora qui resistiamo, torneremo. Con i consoli, dalla capitale, era arrivata tutta la stampa turca a vedere e riprendere i “terroristi”: i “terroristi” cantavano seduti a terra, davanti alla polizia impotente. Quel messaggio lo Stato Turco non ce lo poteva perdonare. Ci aveva bloccati, ci aveva costretti alla fuga, ma non al silenzio. Ora a tutti i costi doveva farci tacere, doveva schiacciarci. Per questo all'arrivo a Istanbul, lontano da telecamere e taccuini, avevano sequestrato e arrestato tutto il gruppo dirigente dell'Hadep (unico partito filo kurdo legale in Turchia) che era con noi. Per questo ci avevano vietato la conferenza stampa al mattino. Il “Treno della Pace” era finito, disperso, decapitato: non doveva più ballare e cantare canzoni kurde, non doveva più fare i segni della vittoria dai finestrini, non doveva più parlare alla gente di Diyarbakir e al mondo. Per questo all'hotel Mim, quella furia quasi omicida. Avevamo osato parlare ancora. L'inviato di Mandela aveva di nuovo parlato di pace. Il “Treno” si era mosso ancora: dovevano farlo a pezzi, soffocarlo nel sangue. Per questo siamo così tranquilli, ora, nel furgone e poi nella stazione di polizia: preoccupati per Ute, per Rosemarie, per gli altri feriti, per i nostri compagni rimasti in albergo; ma tranquilli. I reazionari sono profondamente stupiti. Ora sappiamo che il “Treno” è ancora in marcia: anzi la repressione gli ha dato nuova velocità. Da questo momento ogni nostro gesto dovrà tenerne conto. Non siamo soli, non siamo sconfitti. Per questo Rosemarie e Ute rifiutano di separarsi dagli altri e andare da sole in ospedale: o tutti o nessuno. Per questo mi è naturale rifiutare la libertà offerta dal console italiano in cambio di una firma che scagionerebbe la polizia. O tutti o nessuno. La notte passata al freddo, sul pavimento della centrale di polizia, è quasi allegra. C'è solo un attimo di smarrimento, quando ci tolgono le cinture e le stringhe delle scarpe come in carcere. Dien, tedesca-indonesiana con una faccia che mette allegria solo a vederla, è la prima a stendersi sul pavimento e addormentarsi con naturalezza, coperta di fogli di giornale. Altri dormono sulle sedie. Si telefona persino, di nascosto, da un telefonino salvato dalla perquisizione. Domani è un altro giorno: il “Treno” corre ancora. E il giorno dopo lo verifichiamo, che il “Treno” corre. Fotografi e giornalisti, ma anche compagni e amici, sono tanti nel tragitto fra la polizia e il tribunale. Gli altri pacifisti, i nostri compagni non arrestati, sono stati scortati per tutta la città come “appestati”, prima di trovare un albergo disposto ad ospitarli. Così tutta la città li ha visti, duecento giovani che fanno paura alla più potente macchina repressiva d'Europa. Quando in tribunale intoniamo “We shall overcome”, la polizia ci lascia finire, come incantata, prima di riscuotersi e di chiuderci in una stanza. Il Prosecutor, l'inquisitore, non è abituato a gente che canta in tribunale e che discute le sue domande: lui ha già le risposte scritte nella testa. “Siete in contatto con il Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan)?” É il suo incubo notturno, il Pkk. “Perché non andate altrove, dove c'è la guerra?” Gli rispondo con calma che ci sono andato, in Palestina come in Bosnia, ma ora la guerra peggiore è qui, in Turchia. “E' terrorista il Pkk?” Rispondo che è un'oreganizzazione combattente, e speriamo che non si debba più combattere, per questo siamo qui. Sembra disorientato. Se fossi kurdo, probabilmente sarei già sotto tortura. Ma siamo europei: la coscienza d'Europa. Più forti del Prosecutor, anche se sfiliamo in piedi uno dopo l'altro, senza avvocato, davanti a lui seduto. E lui è sempre più nervoso.
Il tribunale è una farsa. Lo scrivano che mitraglia sulla macchina da scrivere, il giudice che detta il verbale con noncuranza, il Prosecutor appollaiato e silenzioso in un angolo, il commesso Mustafà che corre di qua e di là con le carte. Noi venti allineati in ordine, numerati come a scuola. Cerco di restare serio, nonostante le occhiate di Dien. “Ha opposto resistenza alla polizia?” Rispondo che se cercare di salvare un ragazzino massacrato da dieci poliziotti significa fare resistenza, si, l'ho fatta. L'interprete esita, non traduce. Esita anche l'interprete spagnolo quando deve tradurre la stessa domanda alla piccola Maria, e perfino al giudice quasi scappa un sorriso: che resistenza poteva fare Maria contro quei Rambo? La sentenza è già scritta, ben più in alto del giudice: rinviati a giudizio, e liberati! La soddisfazione più grande è vedere fuori dal furgone, liberi, i nostri amici Faruk, Mertap e Sanar. Noi europei no: il “Treno” corre ancora, e fa ancora paura. É l'ultima vendetta: il ministero dell'Interno ha deciso che dobbiamo restare in cella fino all'espulsione. La polizia ci accompagnerà fino alla scaletta dell'aereo. Sul pavimento della cella, prima di addormentarmi, rifletto: è assai debole uno Stato che ha paura di Maria, di Ute, di Dien, di Charlotte, di Niyazi. Niyazi è danese, turco di origine, e mi dice in cella che i poliziotti per lui impazziscono di rabbia: sei anche turco, non kurdo, sei un traditore. É debole e impotente, questo stato che non riesce a capire perché un italiano, un tedesco o addirittura un turco possono stare dalla parte degli oppressi. Ci hanno messo in due grandi celle distinte per sesso. Quando parto, vorrei abbracciare anche le compagne che restano: il carceriere non apre la cella, devo salutarle fra le sbarre. Impazzisco di rabbia, lo insulto in tutte le lingue. Ritorno poco dopo: era un falso allarme. Quando parto davvero, il carceriere senza dire nulla prende la chiave e apre. Gli stringo la mano, sorride. Forse lui, a differenza dei giudici e dei funzionari, ha capito qualcosa. Il “Treno” corre ancora. Alla vigilia della nostra partenza, il ministro degli Esteri Dini, (lo stesso che un anno fa disse che ai kurdi: “Occorre autonomia e una conferenza di pace”) aveva negato, incontrando il ministro degli esteri turco Cem, anche l'esistenza del popolo kurdo. Avevamo protestato scrivendogli da Istanbul. Ma ora dopo la repressione del “Treno”, il governo non può tacere. Così il viceministro Serri cambia rotta: torna a dire che occorre autonomia per i kurdi, e che l'ingresso della Turchia in Europa è condizionato al rispetto dei diritti umani. É anche merito del “Treno”, questo, anche se Serri non lo nomina. Il “Treno” corre ancora. A causa del “Treno”, hanno arrestato Selma a Diyarbakir e l'hanno rinchiusa nel carcere di Mardin. Hanno arrestato tre membri dell'Hadep. A Bolu avevano partecipato, circondati dai soldati, alla manifestazione che ci aveva salutati lungo la strada. Forse uno di loro mi aveva passato fra i fucili un garofano, dicendomi: “Diyarbakir'e ver”, portalo a Diyarbakir. Lo Stato si vendica, dunque ha ancora paura. In Europa qualcosa si è svegliato, qualcosa di nuovo. Proteste dei governi e dei parlamenti, progetti di cooperazione per i profughi, cassette e video, articoli sui giornali: il “Treno” si dirama in tutta Europa. É un nuovo movimento che nasce. Per questo, l'11 novembre il “Treno” dovrà volare di nuovo ad Istanbul, all'appuntamento con i giudici e con lo Stato turco. Perché, ci hanno fermati, ci hanno massacrati, ma abbiamo vinto. Dobbiamo tornare per Selma, per gli arrestati di Bolu, per i nostri co-imputati kurdi e turchi, per i prigionieri da un mese in sciopero della fame a Malatya, per tutti quelli che non possono e non vogliono fuggire altrove, per tutti quelli che sono andati via e non possono tornare. Dobbiamo tornare a Istanbul. E a Diyarbakir, un giorno tutti insieme.
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settembre - dicembre 2003 |