Il diavolo fa le pentole
consenso elettorale e protagonismo nell'epoca della "democrazia controllata"
di Alberto Altamura

I consorzi dei piccoli proprietari del settore dei trasporti erano da settimane in sciopero e la loro azione di protesta contro il Governo aveva ormai, efficacemente, conseguito l’obiettivo di paralizzare l’economia del Paese. Già tre anni prima, al momento del suo insediamento, erano state le donne, le preveggenti, a scendere in piazza contro quel Governo. Le donne del ceto medio, quel ceto medio che vivifica la società civile, erano esplose nei loro cacerolazos, una singolare forma di protesta effettuata percuotendo pentole vuote - “Non temevano il ridicolo le eleganti signore: sapevano di essere l’avanguardia di un movimento destinato a crescere”, scrisse Jaime Riera Rehren. Finalmente, l’11 settembre del 1973, giusto un martedì di trent’anni fa, quel Governo cadeva e con esso il suo Presidente.

1. Santiago del Cile 1970/1973
Nel primo pomeriggio dell’11 settembre del 1973, nel palazzo presidenziale de La Moneda a Santiago del Cile, “veniva suicidato” Salvador Allende.

Il giorno dopo il suo corpo veniva sepolto, in tutta fretta, in una tomba anonima del cimitero di Viña del Mar, a Valparaíso; solo nel 1990, nella lenta transizione alla democrazia avviata da Patricio Aylwin, fu possibile celebrare i funerali pubblici del Presidente legittimamente eletto vent’anni prima, il 4 settembre del 1970, dal popolo cileno.
Dalla nazionalizzazione delle miniere di rame, fino ad allora controllate dal capitalismo statunitense, alla riforma agraria, dalle relazioni con Cuba all’intesa con l’Algeria nella lotta al potere delle multinazionali, dalla riforma dell’istruzione a quella della sanità, la grandezza e la forza delle coraggiose scelte politiche di Salvador Allende sono impresse nella storia del Novecento.
Altrettanto indelebili restano, in quella storia, le vergognose azioni di sabotaggio avviate dal capitalismo statunitense; le sferzanti parole del Segretario di Stato USA Henry Kissinger, insignito del Nobel per la pace il 16 ottobre di quel fatidico 1973: “Non vedo come si possa stare fermi a guardare come un paese cada nelle mani dei comunisti grazie alla irresponsabilità del suo stesso popolo”; le congiure meschine dei proprietari terrieri e dei capitalisti cileni; il tradimento di ufficiali dell’esercito felloni e quello del loro capo Augusto Pinochet, uno dei generali di fiducia di Allende; l’atteggiamento ambiguo della DC cilena, descritto magistralmente da Franca Rame e Dario Fo nel Monologo di una ruffiana: la DC cilena, che costò a Fo, nel 1973, il carcere (nel suo monologo la DC cilena ad un certo punto afferma: “E’ vero, ho appoggiato il governo di Allende. Il governo di Unità Popolare si appoggiava solo sul 36 per cento dei voti di sinistra. Senza l’avvallo mio, della DC, non sarebbero mai arrivati al potere. […] C’era da scegliere: o appoggiarsi al fascismo per poi andare al governo, ma sputtanarsi e perdere la faccia… o appoggiare le sinistre e mandarci socialisti e comunisti al governo perché si sputtanassero loro! E oltre alla faccia si perdessero anche il sedere! Abbiamo privilegiato le sinistre, pronti però subito ad appoggiarci alla destra… per far fuori la sinistra.”); le trame subdole della CIA; i dieci milioni di dollari stanziati per il golpe da un Nixon ormai sconfitto in Vietnam; il bombardamento del palazzo presidenziale; la sanguinaria repressione organizzata in campi di tortura da ufficiali addestrati nelle scuole militari nordamericane; la famigerata “carovana della morte” con i suoi trentamila morti, fra loro tanti giovani.
Questa dolorosa storia di trent’anni fa non può essere sintetizzata in un ricordo “d’occasione”. Le parole pronunciate da Salvador Allende nel suo ultimo discorso al popolo cileno, poco prima dell’inizio dei bombardamenti del palazzo presidenziale, reclamano uno spazio enorme nella nostra sempre più debole memoria: “Hanno la forza, potranno ridurci all’impotenza, ma non si fermano i processi sociali con il crimine e la violenza”.
Rievocare questa storia significa anche sottolineare che la tragica fine di Allende, dopo tre anni di governo, fu preceduta dagli scioperi dei lavoratori dei trasporti e dai cacerolazos delle donne della borghesia cilena.
Ken Loach nel suo cortometraggio sull’11 settembre sceglie di parlare degli eventi americani attraverso una lettera indirizzata “alle madri, ai padri e alle persone care di coloro che sono morti l’11 settembre a New York” da Pablo, un esule cileno che, dopo l’11 settembre del 1973, fu torturato e imprigionato dai golpisti. In un passo di quella lettera, ricordando l’impegno profuso dal governo statunitense per far cadere il governo di Allende, Pablo scrive: “Le nostre scelte democratiche, i nostri voti non erano rilevanti. Il mercato, i profitti sono più importanti della democrazia. Da quel momento in poi il nostro dolore, il vostro dolore furono legalizzati”.
Queste parole denunciano in modo forte l’ingerenza statunitense nella vita politica di singole realtà nazionali, ma, allo stesso tempo, lasciano in ombra le responsabilità che buona parte della società civile ebbe nella vicenda cilena. Furono anche le pentole percosse delle donne della borghesia, questa compagine così importante della società civile cilena, i loro cacerolazos a condannare a morte Salvador Allende.

2. Buenos Aires 2001/2003
Il termine cacerolazos è tornato di recente nelle cronache argentine, allorché la grande crisi esplosa nel dicembre del 2001 ha messo a nudo le conseguenze disastrose del decennio neoliberista (1989/1999) inaugurato da Carlos Menem e caratterizzato dall’apertura totale dell’economia argentina ai capitali statunitensi, da forme radicali di deregulation, dalla azzardata parità di cambio tra peso argentino e dollaro, dalla irrazionale privatizzazione delle imprese statali (telecomunicazioni, ferrovie, strade, compagnie aeree, elettricità, acqua, miniere, gas, sistema previdenziale). Dal 1999, con il governo di Ferdinando de la Rua, tutti i nodi sono venuti al pettine: dipendenti pubblici senza salario, sconvolgenti forme di precarizzazione del lavoro, disoccupazione a livelli altissimi (secondo alcune stime addirittura il 50% della popolazione attiva), fughe di capitali hanno creato una situazione esplosiva. Alle elezioni politiche dell’ottobre del 2001 il 40% degli elettori si è astenuta o ha annullato la scheda, il loro grido di battaglia è diventato famoso in tutto il mondo: “Que s’en vayan todos!”. Il 3 dicembre del 2001, quando un provvedimento governativo impedisce ai risparmiatori di ritirare i fondi depositati (corralito), il paese è ormai in piena recessione e non ha quasi più moneta circolante. È allora che la classe media infuriata fa rimbombare i suoi cacerolazos, mentre nelle periferie, dove è più forte la disoccupazione, agisce il movimento piquetero, nato nel 1996 a partire da inedite forme di “picchettaggio”. Hanno così inizio i saccheggi dei supermercati, fino a che il 19 e il 20 dicembre 2001 tutta l’Argentina può dirsi in rivolta. Dopo la feroce repressione di piazza del 20 dicembre, ben cinque presidenti hanno tentato di guidare il Paese, fino all’elezione di Eduardo Duhalde.
Il 27 aprile del 2003 gli argentini vengono, finalmente, chiamati al primo turno delle nuove elezioni presidenziali e, a differenza di quanto accaduto nell’ottobre del 2001, la loro partecipazione è ampia e tocca l’80% degli aventi diritto.
Deposte le pentole, il 24,34% dei votanti sceglie ancora il “peronista-ultraliberista” Carlos Menem, che risulta così il primo degli eletti, mentre il 21,99% punta sul “peronista-neoliberista” Nestor Kirchner, uomo dell’ex presidente Duhalde. Al terzo posto, con il 16,35% dei consensi, si piazza addirittura Ricardo Lopez Murphy, un allievo di Milton Friedman, che rappresenta il neoliberismo dei “Chicago boys” e giura proprio sulle ricette del FMI. Con il 14% dei consensi troviamo, poi, il “peronista-populista” Adolfo Rodriguez Saa, già presidente dell’Argentina. Fra questi quattro candidati sono ripartiti più dei tre quarti dei consensi dei cittadini argentini.
Ciò che resta viene così distribuito: il 14,5% a Elisa Carrìo, una cattolica impegnata da tempo in accese battaglie contro i fenomeni di corruzione; mentre alla sinistra, rappresentata da Izquierda Unida, che candida Patricia Walsh, figlia dello scrittore desaparecido Rodolfo Walsh, tocca l’1,75% dei consensi (337mila voti su 20 milioni, per intenderci); ai socialisti, con Alfredo Bravo, va l’1,13%.
In un paese dissestato dall’azione neoliberista del FMI e per mesi sull’orlo della rivoluzione, attraversato da grandi mobilitazioni contro le strategie proposte dal Fondo Monetario Internazionale e contro i politici che le avevano adottate, in una partecipatissima competizione elettorale, le liste di sinistra non raggiungono il 3% dei consensi.
Fra le spiegazioni offerte, alcune si rifanno alla disgregazione delle forze e del pensiero critico di una intera generazione massacrata e terrorizzata dalla dittatura militare fra il 1976 e il 1983, altre alla funzione di freno alla crescita di partiti di sinistra svolta da sempre dal populismo peronista, altre ancora alle caratteristiche del sistema elettorale, altre, infine, insistono sulla incapacità dei dirigenti della sinistra a costruire strategie unitarie.
In ogni caso, il 18 maggio il previsto ballottaggio fra Menem e Kirchner, come tutti sanno, non ha avuto luogo a causa del ritiro del primo, che, con la battuta subdola e velenosa “Si tenga pure il suo 22%, io mi tengo il popolo”, ha lasciato, per il momento, a Nestor Kirchner la presidenza.
Negli stessi mesi, in un altro sud del mondo, ha luogo quella che può dirsi una forma combinata di cacerolazos e piquetes.

3. Termini Imerese 2002/3
In un piccolo comune del palermitano, legato indissolubilmente all’insediamento industriale FIAT, è proprio la crisi del gruppo automobilistico a innescare la rivolta. Di fronte alla minaccia di chiusura degli stabilimenti, le donne - ancora una volta le donne – riunite nel “Comitato delle donne di Termini Imerese” hanno raccolto tremila schede elettorali da consegnare al Prefetto di Palermo e tremila firme per un documento nel quale si chiedono le dimissioni dei deputati e dei senatori della Casa delle Libertà eletti in Sicilia.
Una sorta di “Que s’en vayan todos” nostrana motivata dalla volontà di colpire i parlamentari del centrodestra, che avevano tradito l’impegno di non votare la finanziaria di Berlusconi se la Fiat non si fosse impegnata a garantire il rilancio dello stabilimento Fiat e a salvaguardare i posti di lavoro diretti e quelli dell’indotto.
Il 25 maggio del 2003, in occasione delle elezioni per la provincia di Palermo, i cittadini di Termini hanno avuto, finalmente, la possibilità di tradurre il loro malcontento, i loro cacerolazos in voti.
I risultati elettorali meritano di essere meditati: dopo mesi di proteste, di cortei operai, di manifestazioni sindacali, la Casa delle Libertà a Termini Imerese non solo vince, ma addirittura incrementa i suoi consensi, rispetto alle precedenti consultazioni. I DS sono scavalcati da Forza Italia. Silvana Bova, leader del Comitato Donne della Fiat, promotrice della consegna delle schede elettorali, e candidata nel Pdci, ottiene appena 200 voti, mentre il partito si attesta sul 2,6%. Le cose vanno poco meglio per Antonio di Blasi, esponente della Fiom nella RSU dello stabilimento Fiat, candidato da Rifondazione Comunista, che come partito si attesta al 5,2%.
Una spiegazione di questi risultati è stata cercata nelle promesse fatte dai dirigenti di Fiat Auto, che avevano prospettato alle RSU di Fiom – Fim – Uilm, a fronte della introduzione di una nuova metrica del lavoro di derivazione statunitense (Tmc2), la possibilità di investimenti per 150 milioni di euro, la produzione di una nuova vettura a partire dal 2005 e, in ultimo, un accordo di programma con la Regione Sicilia per la realizzazione di un “distretto dell’auto”, utile a rilanciare l’intero indotto. In questa prospettiva, dunque, sarebbe risultato pericoloso per i cittadini di Termini guastarsi i rapporti con le forze politiche di centrodestra insediate al governo centrale e regionale.
Per il momento, in ogni caso, tutte quelle promesse non si sono ancora compiutamente realizzate: a settembre, dopo una sostanziosa riduzione di organico, il rientro degli operai sarà contingentato e l’attività lavorativa sarà ridotta su di un turno e su di una sola linea di produzione, che produrrà la Punto Restayling ancora per un anno.
Le spiegazioni avanzate per dar conto delle brutte prove elettorali offerte dalla sinistra in situazioni nelle quali avrebbe dovuto giocare facile, perché riproducevano tutti i limiti dello sviluppo produttivo del capitalismo (dal dissesto economico e sociale prodotto dal capitalismo predatorio delle multinazionali nordamericane in America Latina alle meschine strategie industriali dell’ultraprotetto capitalismo italiano dell’automobile), non convincono!
Quelle spiegazioni rischiano di occultare ciò che sta cambiando nella costruzione del consenso nell’epoca dell’Impero e del “movimento dei movimenti”, ma, soprattutto, rischiano di condurre a pericolose battaglie di retroguardia. Infatti, come nella fase post-elettorale argentina si è finito con il rimproverare i dirigenti della sinistra per non aver trovato intese unitarie, allo stesso modo, in quella italiana, che pur aveva visto il caso di Termini Imerese inserirsi in un contesto di risultati amministrativi ritenuti tutto sommato positivi dall’opposizione di centro-sinistra, si è giunti a invocare “intese unitarie” dell’opposizione al centro-destra, naturalmente dopo aver abusato dei soliti ritornelli sulla necessità di un maggiore coinvolgimento del mitico ceto medio, o, per stare alle battute dei mitici riformisti, sulla necessità di smussare il “massimalismo” di alcune forze politiche, soprattutto dopo il risultato del referendum sull’articolo 18.
Ma, fino a che punto è strategicamente decisivo, nell’epoca attuale, concentrare buona parte degli sforzi nella definizione di intese politiche volte a raggiungere la maggioranza dei consensi?
Non aveva anche il governo di Salvador Allende la maggioranza dei consensi?

4. Un nuovo protagonismo sociale
A guidarci nel tentativo di abbozzare una risposta riteniamo risulti particolarmente utile la ricerca sviluppata dai compagni argentini del Colectivo Situaciones.
La scelta di una riflessione latinoamericana non è casuale. L’America Latina non solo è “l’altro Occidente”, per usare una efficace definizione coniata da Marcello Carmagnani nel volume L’altro Occidente. L’America Latina dall’invasione europea al nuovo millennio (Einaudi, Torino 2003), essa è, soprattutto, il luogo in cui quel formidabile strumento della strategia imperialistica statunitense, che è il Fondo Monetario Internazionale, è ormai da tempo impegnato a saggiare fino a che punto si possa condizionare sul piano sociale l’esistenza dei soggetti, cioè fino a che punto ci si possa spingere nell’imporre alle popolazioni una vita di miseria, o fino a che punto regga la rassegnazione dei lavoratori dinanzi al dissolversi dei loro salari. La presenza di dittature militari, infatti, azzerando ogni forma di conflitto sociale, ha trasformato da tempo l’area latinoamericana in uno straordinario laboratorio per la sperimentazione delle ricette economiche neoliberiste.
Impegnato, subito dopo la caduta della dittatura, in una inesorabile critica di leggi come l’Obediencia Debida e il Punto Final, che, dall’epoca dei governi Alfonsin e Menem, hanno garantito l’impunità ai maggiori responsabili della tortura e della morte di tanti oppositori del regime, il Colectivo è stato particolarmente coinvolto nell’analisi della situazione dell’America Latina degli ultimi anni. In modo particolare, dopo gli eventi insurrezionali argentini del 19 e 20 dicembre 2001, ha promosso una ricerca pubblicata nell’edizione originale col titolo 19 e 20. Appunti per un nuovo protagonismo sociale, e in traduzione italiana come Piqueteros. La rivolta argentina contro il neoliberismo (DeriveApprodi, Roma 2003).
Per il Colectivo le teorie politiche reazionarie, rivoluzionarie e riformiste del Novecento, pur nelle loro insopprimibili differenze, sono accomunate dal riconoscimento del valore assoluto di un potere articolato a partire dallo Stato. L’idea dominante del cambiamento politico che ha pervaso il secolo scorso ha individuato, infatti, nel controllo dell’apparato politico e militare dello Stato l’obiettivo da conseguire per poter poi avviare le trasformazioni sociali.
Come espressione di ben definiti interessi sociali, economici e culturali, i partiti politici del Novecento si sono sempre comportati come “parti” che aspiravano al dominio del “tutto” (politico). Questa aspirazione imponeva, conseguentemente, di articolare le “parti” restanti secondo il proprio dominio egemonico: “I consensi e le egemonie costituiscono meccanismi propriamente politici, per mezzo dei quali un gruppo sociale più o meno ampio media i propri interessi con quelli dell’insieme, organizzando in tal modo il dominio a partire dal centro del potere statale” (Piqueteros, p. 175).
La necessità di conquistare il centro del potere statale era, in questo caso, assoluta, perché soltanto grazie ad esso il blocco di gruppi sociali dirigenti avrebbe potuto organizzarsi e dominare pienamente sull’insieme sociale. Si trattava di una necessità tipica dell’epoca in cui l’istituzione statale costruiva il senso della cittadinanza e che, in senso ampio, Foucault ha chiamato l’epoca della “società disciplinare”. Ai nostri giorni, però, le relazioni di dominio non si costituiscono più a partire dal principio della sovranità statale: “Il principio della dominazione attuale – scrive il Colectivo – è quello dell’autonomizzazione del mercato, dei flussi del capitale e della sfera (macro)economica nei confronti delle istituzioni finora incaricate di regolarli” (Piquetros, p. 176).
Sebbene il terreno propriamente politico del dominio sia ormai stato del tutto devastato dalle pratiche del neoliberismo, al punto che la ferrea relazione mercato/consumatore si è imposta rispetto a quella sempre più debole di Stato/cittadino, ci troviamo in una situazione paradossale: “Mentre da un lato le relazioni di dominio non sono più “politiche”, ma “economiche”, dall’altro tutte le lotte contestatarie continuano a pretendere di articolare risposte libertarie a partire da una soggettività politica che, completamente anacronistica, insiste a pensare di poter controllare, umanizzare o subordinare i flussi economici che da essa si sono autonomizzati” (Piqueteros p. 177). Con questo anacronismo occorre fare i conti: dinanzi alla perdita di centralità politica della sovranità statale è necessario promuovere progetti di trasformazione sociale a partire da lotte che non si riferiscano più in modo dominante a quella sovranità. Il nuovo “protagonismo sociale” deve imparare a giocare sul terreno “frammentato” e “dispersivo” allestito dal neoliberismo, lasciandosi alle spalle l’aspirazione “centralizzatrice” della “politica dell’articolazione”, le cui categorie fondanti erano “consenso” e “egemonia”.
La “politica dell’articolazione”, condizionata dalla ricerca di un orizzonte statuale di senso, destinato a offrire unità e coerenza ad esperienze frammentarie, deve prendere atto della “destrutturazione sociale” prodotta dal neoliberismo: “Il mercato come momento strutturante non produce altro che consumatori, che si associano temporaneamente senza mai giungere a trascendere il carattere di individuo consumatore” (Piqueteros p. 203). Occorre assumere la “dispersione” non come un fatto episodico, che verrà prima o poi ricomposto da un “centro”, ma come la forma spontanea della società di mercato.
Se la dispersione è, da un lato, “l’ontologia del capitalismo attuale” (Piqueteros p. 202), e dall’altro, è “il molteplice che ha perduto ogni consistenza” (Piqueteros p.212), il nuovo “protagonismo sociale”, allora, è un molteplice che si scopre come tale, un “molteplice” che non ha un “tutto” di riferimento: “il tutto è in ogni parte”, anziché “ogni parte è in un tutto”.
In questo modo, il nuovo protagonismo sociale oltrepassa la dimensione del popolo, cioè di quel concetto istituito nella modernità ad opera dello Stato, allorché gli individui alienano il proprio potere per diventare portatori di diritti riconosciuti dal sovrano (cfr. A. Negri, Cinque lezioni di metodo su moltitudine e Impero; part. lezione III, Soggetti politici: fra moltitudine e potere costituente).
5. Che fare?
La “rete politica”, che puntava ad organizzare il passaggio dalla dispersione alla totalità (politica, statale), deve imparare a fare i conti con una “rete diffusa” che “è l’immagine di situazioni singole, di forme produttive e concrete di riappropriazione del mondo, sapendo che ci sono tante lotte, tanti modi di esistere e punti di vista quante sono le esperienze situazionali che si fanno proprie” (Piqueteros, pp. 212-213).
Il “Che fare?” investe, oggi, la relazione fra queste due reti, riguarda cioè il tentativo “politico” di articolare le resistenze diffuse, rispetto a un “movimento” che in numerosissime occasioni ha dato prova di mal sopportare la presenza di centri dirigenti/intelligenti pronti ad organizzare l’alternativa: “Nel movimento di resistenza alla globalizzazione appaiono due tendenze: quelli che si orientano verso la costituzione di centri alternativi, organizzando così la dispersione, con l’idea di contrapporre una globalizzazione “giusta” all’attuale “ingiusta”, e da un’altra prospettiva quelli che scommettono sulla molteplicità, e considerano che se la globalizzazione è strettamente capitalistica, quel che le resistenze debbono fare è “de-globalizzare”” (Piqueteros, p. 214).
Rispetto a una tendenza verso la “politica dell’articolazione”, destinata a “subordinare”, a “catturare” e, quindi, a “devitalizzare” la molteplicità delle esperienze, il Colectivo indica la strada percorsa dall’Ezln (Esercito zapatista di liberazione nazionale) in Chiapas: “lo zapatismo lavora molto concretamente per evitare che le reti si cristallizzino in un centro. […] La rinuncia alla presa del potere da parte dell’Ezln implica una ricollocazione dello Stato all’interno della molteplicità”.
Agendo come una “rete diffusa”, lo zapatismo toglie allo Stato la funzione unificatrice e latrice di senso, per ridurlo ad una semplice funzione amministrativa delle risorse della nazione messicana. In questa prospettiva, tutta proiettata a “cambiare il mondo senza prendere il potere”, “il movimento democratizzatore è concepito come un richiamo a un’operazione etica in ogni situazione, piuttosto che come un’adesione allo zapatismo” (Piqueteros, pp. 214-215).
Le pratiche dello zapatismo sono anche quelle del movimento “no global”, sono pratiche di “democrazia partecipata” che si affermano al di là dell’occupazione del governo: “Ai no global, come agli zapatisti – scrive in un suo intervento Fausto Bertinotti – non interessa la “sedia” del potere, non interessa raggiungerla e sedercisi sopra. L’obiettivo è quello di un percorso, di un cammino che trasforma i soggetti e il mondo. La criticità, la opposizione alla globalizzazione capitalistica e al pensiero unico nasce al loro interno e si sviluppa nella relazione con la società, e con le enormi contraddizioni portate dalla globalizzazione capitalistica” (F. Bertinotti, Quale deve essere la nuova relazione fra partiti e movimenti?, in “Rebeldía”, a.1, nn.3-4, febbraio-marzo 2003, p. 47).
E’ evidente che queste prospettive di azione si collocano ben oltre la questione tradizionale del “consenso” che, come ben evidenzia Negri, è sostanzialmente adesione e alienazione, identificazione con il rappresentante.
Sono proprio parole di Negri quelle che, a mio parere, meglio definiscono l’attuale “Che fare?”: “Se la rappresentanza è un concetto di alienazione delle potenze dei cittadini a favore del sovrano moderno, ed il consenso una metafora di questo processo, il nostro problema sarà quello di dare forma politica all’espressione della moltitudine dentro questo processo, una forma politica che non sia di alienazione della potenza produttiva e della libertà dei soggetti (A. Negri, Cinque lezioni, p. 55).

Post Scriptum
Alla metà di agosto, mentre concludevamo la stesura di questo articolo, in Cile, la storica centrale sindacale della CUT (Central Unitaria de Trabajadores) ha promosso e realizzato uno sciopero generale. Si è trattato del primo sciopero generale dal 1986, quando i cileni scesero in piazza contro la dittatura di Pinochet. A manifestare, accanto agli operai e ai lavoratori del settore privato minacciati da licenziamento, sono stati anche gli indios mapuches, le organizzazioni femminili, gli omosessuali, i lavoratori precari. Le cronache, oltre a parlare delle cariche dei “carabineros” contro i cortei e delle centinaia di manifestanti arrestati, hanno riferito che lo slogan più diffuso era “Protestiamo come contro la dittatura”. In realtà, dal 1990, dall’anno dei funerali pubblici di Allende, il Cile vive in un regime di “democrazia controllata” garantito da socialisti e democristiani, che, attraverso i governi di Concertacion Democratica, ha sostanzialmente confermato le scelte economiche e politiche dettate dal potere nordamericano. Le “dittature militari”, del resto, sono cadute quando hanno compiutamente realizzato l’obiettivo di condurre i paesi latinoamericani verso la “dittatura del mercato”. Non ci si deve meravigliare, pertanto, che il premier socialista Ricardo Lagos, dopo aver sottoscritto alcuni mesi fa un accordo bilaterale con gli Usa, volto a sostenere il progetto dell’ALCA (Area di Libero Commercio delle Americhe), reprima con la forza uno sciopero generale. Allo stesso modo, non deve destare stupore la decisione presa anche da Lula - presidente del Brasile, cioè uno degli stati protagonisti con l’Argentina, l’Uruguay e il Paraguay, del MERCOSUR -, che lo scorso 20 giugno a Washington ha accolto la proposta di Bush di individuare nel 2005 la data limite per la creazione dell’ALCA. In questa prospettiva diventa anche “normale” che il Presidente della Camera brasiliana, l’on. Joao Paulo, membro del Partido dos Trabajadores (Pt) fondato dallo stesso Lula, autorizzi la polizia ad entrare armata in Parlamento per piegare la resistenza dei funzionari pubblici in sciopero contro una legge di riforma del sistema della previdenza sociale.
Senza voler aprire, a questo punto, una discussione sulla situazione latinoamericana, ciò su cui questo “occidente periferico” ci invita a riflettere è che nell’epoca della dittatura del mercato la democrazia può essere soltanto una “democrazia controllata”, ma che, allo stesso tempo, al di fuori della ipocrisia delle sue regole politiche, emergono nuove forme di protagonismo sociale poco propense a sopportare che all’assassinio di un Salvador Allende possa far seguito la consegna di un Nobel per la Pace a un Henry Kissinger, come accadeva agli inizi di un autunno di trent’anni fa.


La parola più importante è altro; più che contro, perché altro è singolare e contro, invece, può determinare omologie rovesciate, reintrodurci nella relazione di sovranità o in quella di capitale.
Antonio Negri, Cinque lezioni di metodo su moltitudine e Impero


settembre - dicembre 2003