Il coraggio del giovane ufficiale che rimase solo nel deserto
di Raffaele Cappelluti

Secondo alcuni non rimase più nessuno. Molti partirono, qualcuno il Padreterno se l’era chiamato a sé e un paio, si diceva, avevano preferito ricoverarsi in una casa di cura. Alla fine soltanto uno di loro non se n’era andato, un ufficiale con un nome complicato, un biondino di vent’anni circa che aveva deciso di rimanere nonostante tutto per difendere la guarnigione dagli attacchi che i tartari avrebbero potuto sferrare ancora, sebbene nel libro, come ben si sa, non si vede arrivare nessuno fino alla risolutiva conclusione delle ultime angoscianti pagine.
Al giovane ufficiale biondino, forse per un impensabile esigua pietà concessa dalla provvidenza che si poteva trovare ancora in quei luoghi remoti, e tra gente di quella natura, rimase a far compagnia un vecchio bastardo, un cane scalcagnato pieno zeppo di pulci e puzzolente, con il quale però egli si intratteneva parlando ad alta voce come capita a chi in realtà rischia di perdere l’uso della parola per mancanza di relazione. Le loro conversazioni, se così si può dire, visto che non erano altro che sghembi ragionamenti, ruotavano intorno al senso dell’onore e al coraggio. Poi venivano vagheggiamenti sulla bellezza e la poesia, ritenute altre fonti essenziali della vita. Il giovane militare, di sera, pare ascoltasse da un vecchio grammofono che aveva trovato fortunatamente sul posto, musiche di Wagner, ma occupava gran parte delle ore mattutine, quelle un po’ più fresche, leggendo i poeti greci. Si metteva al centro della piazzuola della guarnigione e con accurata platealità, come se si trovasse sulle tavole di un palcoscenico, declamava intere pagine da qualche libro che si era portato con sé. Paragonando la sua tazza di ferro smaltato a una specie di arma primordiale, la faceva roteare nell’aria con estremo vigore delle mani fino a tendere allo spasimo la contrazione dei muscoli della braccia. Ma l’effetto non era altro che spargere ovunque, compreso il muso di Esenin, gocce di un liquido nerastro, forse del tè o del caffè.
Secondo l’ispirazione che traeva dalla propria interpretazione, l’ufficiale leggeva come se si trattasse davvero di una recita, ora con impeto drammatico e altisonante ora con tono sommesso e sussurrante.
Non potendo fare altrimenti, a Esenin non rimaneva che stare a sentire con pazienza il suo tedioso compagno, anche se qualche volta, allo stremo della tolleranza, si erigeva di scatto, si allungava drizzando le zampe anteriori in avanti e ringhiava come se volesse imporgli di starsene in silenzio e lasciarlo tranquillo.
Ogni tanto, dunque, gli abbaiava contro e con gli occhi strabuzzanti per la rabbia e l’insofferenza, mandava al suo improbabile compagno sguardi di malcelata disapprovazione. “Ma come si può pensare di vincere una battaglia, ammesso che questi tartari arrivino, con i libri e le recite oppure ascoltando Wagner?”, si domandava Esenin guardando il suo compagno esibirsi in quelle scenette più adatte a un cabaret.
Ma per il giovane ufficiale non era così: “L’impero dei tartari, come ha fatto in altre parti, introdurrà la cultura della riproducibilità industriale. Ma non riuscirà ad attaccarci e a sovvertire le regole degli spiriti poetici di questa guarnigione. I tartari non riusciranno a diffondere la letteratura minimalista, o la pittura astratta e men che meno la musica rock o funky jazz. Se arrivassero sarebbe un inferno spietato. Il loro intento sarebbe di trasformare la guarnigione in un supermercato culturale allo scopo di bruciare e distruggere le vecchie biblioteche, i musei e i teatri lirici di mezza Europa. Figuriamoci! Darebbero infine una svolta alla nostra storia, capovolgendone l’aria di ingegno e di passione”.
Quanto avrebbe preferito Esenin starsene con un polposo osso da raspare con i suoi denti aguzzi anziché ascoltare i deliri di quell’ufficialetto presuntuoso e sporco, con la divisa sbottonata sul petto e unta intorno ai polsini. Invece era costretto a sentirlo, era proprio inevitabile, sennò dove se ne sarebbe potuto andare.
Era anche vero però che, nonostante tutto, Esenin ormai si era affezionato all’ufficiale. Addirittura una notte, non si sa nemmeno come, era riuscito a svegliarlo prima che un terribile scorpione sotto i riflessi giallognoli di una luna piena raggiungesse il braccio sinistro dell’ufficiale scorrendo sulle pagine aperte di un Don Chisciotte lasciato ai piedi della brandina.
Passarono un paio di mesi. Giunta la stagione delle tempeste di sabbia, Esenin si sentiva percorrere la schiena da brividi e dall’opera irritante che le pulci freneticamente svolgevano sul suo collo annidate nel pelo increspato di polvere e sudore. Non appariva per niente predisposto a rimanere ancora un solo giorno in quel posto. Ciò che lo impensieriva di più, nella improbabile realizzazione di questo proposito, era l’indifferenza del suo sciagurato compagno per l’orientamento che gli eventi stavano prendendo. Decise allora di cominciare a farsi sentire rifiutando il rancio e mostrandosi soprattutto ostile nei suoi confronti.
In effetti l’ufficiale comprese subito che a Esenin era successo qualcosa. Non ricevendo nessuna risposta esauriente che spiegasse il suo stato attuale, pensò che avrebbe dovuto farsi venire un’idea per evitare al suo compagno quel cattivo umore.
Non trovò nulla di meglio che sfogliare la sua agenda per rintracciare alcuni amici che avrebbero potuto distogliere Esenin dalla noia e dal malumore. Inoltre, pensò che sarebbe stato necessario a questo punto, visto che erano giorni che non toccava cibo, fargli preparare da un bravo cuoco dei pranzi degni della migliore cucina internazionale. Si impegnò con particolare cura e attenzione nella scelta degli invitati. Era necessario a questo punto che tutti fossero disposti a raggiungerlo subito e trattenersi il tempo necessario, almeno fino alla fine di questa storia.
Nel giro di pochi giorni arrivarono dalla Svizzera due anziani coniugi. Lui era uno stimato pittore che per anni aveva diretto l’Accademie Française a Roma e lei invece era una acquerellista in kimono.
Una cantante lirica era partita quattro giorni prima da Vienna ed era già arrivata. Dalla Sicilia arrivò un cuoco e da Firenze vennero un giardiniere e un architetto. Arrivò anche un violoncellista da Gerusalemme per accompagnare la cantante. Arrivò con la custodia del violoncello rotto nella parte del manico e ciò l’aveva reso un po’ nervoso. Inoltre nel viaggio aveva perduto la borsa dove aveva deposto una vecchia edizione inglese della Bibbia, un rotolo di spartiti e della biancheria personale. Ma in breve – dopo aver abbracciato il giovane amico – dimenticò la disavventura e riconquistò il consueto umore.
“Dunque, pensò il giovane ufficiale, adesso potremo sperare tutti di essere un po’ più rilassati”.
Esenin continuava però a pensarla diversamente. Anzi, trovò quella gente snob e decadente, piena di arie eppoi con quei vestiti alla Bloomsbury: “Che persone ridicole.” Lui, un vecchio bastardo ignorante, non sopportava quelle persone che con un paio di occhiali d’oro e un libro sempre tra le mani, pensavano bastasse per considerarsi pittori, scrittori o musicisti. Li sentiva ragionare per ore intere sull’impero delle case editrici del nord o i mercanti d’arte newyorchesi. Loro invece avevano le loro case editrici, i loro teatri, i loro ristoranti, i loro giardini. – “Puà, gentaglia oziosa, manichini e figurine senza cuore e motore, signorine da fine ottocento che si lamentano in continuazione. Ma che ci fanno qui? Colpa di quel maniaco. Avrebbe sicuramente fatto meglio anche lui a non rimanere.”
“Esenin, lascia che ti spieghi. Io ho fatto tutto questo per te. I miei amici sono venuti sin qui per divertirci insieme. Non è gente strana come sembra a te. Ti prego soltanto di avere ancora pazienza. Fra un po’ ce ne andremo tutti perché, vedrai, ci attaccheranno, questa volta verranno, verranno di certo. E noi dobbiamo trovare le parole più giuste, le più belle per raccontare l’epilogo di questa storia coraggiosa. Sarà la nostra vittoria.”
La sera stessa dell’arrivo il cuoco siciliano si impegnò con tutta la sua bravura per preparare una cena degna di un marajà. Tra le diverse pietanze colpì gli invitati l’agnello al forno. In un piatto ovale con certi piccoli fiori rosa dipinti sulla ceramica bianca era disposto un piccolo agnello con la pancia all’aria. Tutt’intorno lo circondavano rotelle di zucchine verdi, tocchetti di melanzane, rondelle di carote e sfoglie di cipolla rossa bollite e allocate su una crema di purea di patate. La crosta del piccolo agnello era diventata un foglio increspato intriso di spezie profumate di vario genere e minutissime scagliette di arance e di limoni sparse un po’ ovunque.
Frattanto il violoncellista prese il suo strumento per accompagnare la cantante che si stava chiarendo la voce con un’arietta ignota, ma s’avvide che senza spartiti non riusciva ad accompagnare nessuno. Provò a far scivolare le dita sulle corde strisciando l’archetto, ma avvertì subito che, nonostante il suo intento, riusciva soltanto a cavare qualche stridio e niente di più. La cantante, incurante dell’accaduto, continuò a divagare con la sua voce come se in quel momento solo il cielo e le stelle la stessero ad ascoltare.
Il giardiniere si alzò dicendo irato che le punte di rosmarino con cui era stato spalmato l’agnello di miele non erano adatte per quella occorrenza. – “Non fiorirà più. Non fiorirà più.” Gridava all’impazzata. – “Avete spezzato le puntine di rosmarino e così non potrà più fiorire in questa stagione.” Il pittore rimproverò la moglie per aver utilizzato una pennellessa comprata prima di partire. – “Non è adatta per gli acquerelli.” E gridò così forte che per cinque minuti tossì in continuazione fino a quando l’ufficiale non gli procurò un bicchiere d’acqua.
A questo punto Esenin cominciò a guaire, divertendosi come un pazzo. Si rotolava nelle pozzanghere, riempiendosi di fango dalla punta delle orecchie all’estremità delle zampe. Sguazzava e abbaiava fino al punto che anche la povera bestia cominciò a sentirsi male.
“Che cosa sta accadendo?”, si chiese il giovane biondino. “Sono tutti impazziti all’improvviso.” In quel momento gli arrivò la mano del giardiniere sulla faccia perché l’architetto che gli stava accanto era stato più lesto a schivare lo schiaffo tiratogli dal giardiniere accusato di avergli sottratto durante il viaggio alcuni libri dalla sua borsa.
“Non è vero. Anna Karenina è mio. E’ mio.”
Vi fu un momento di panico e di paura. Tutti gridavano o saltavano come cavallette. – “I tartari. I tartari, questi sono i tartari.” , pensò il giovane ufficiale. “Siamo perduti. Si sono camuffati e sono riusciti a penetrare nella guarnigione.” Sembrava spaventato. Non capiva più niente. Andava avanti e indietro sperando che fosse tutta una finzione, un gioco per divertire Esenin. Invece era vero tutto. L’impero malvagio era stato capace di trasformarsi, mutare, cambiare come certi insetti. Era stato capace di introdurre i suoi guerrieri nella guarnigione e annientare la bellezza e l’armonia. L’ufficiale era sconvolto. Agitava le braccia come se stesse invocando l’aiuto di qualcuno. Esenin gli correva affettuosamente dietro. Chissà, forse quello che stava accadendo era per colpa sua.
No, non era così, rendetevene conto: un sogno come quello del giovane ufficiale, di grandezza e di coraggio può svolgersi soltanto in solitudine.

settembre - dicembre 2003