Si potrebbe definire una pittura inattuale quella di Franco Poli, artista molfettese scomparso lo scorso 20 maggio, se non fosse che proprio il suo essere fuori dal tempo nasconde invece le ragioni di una fertile ostinazione. E’ stata da sempre questa la forza della sua pittura, una sorta di caparbio vagheggiamento lirico, calato nella quotidianità e speso per ritrarre oggetti cari, di affezione, combinati all’‘antica’ come nelle nature morte, o per fermare riti e devozioni della settimana santa o qualsivoglia topos del paesaggio antropologico locale. Non poteva essere diversamente del resto in un artista per cui vale più di altri il cliché di una compenetrazione arte/vita, per il quale cioè le tappe dell’esistenza hanno alimentato o si sono sovrapposte alla produzione creativa, e il mondo esterno, emendato dai conflitti, è stato familiarmente rimodellato nella dimensione plastica della pittura.
Poli infatti si è adoperato per proteggere la realtà da sguardi banali e ha ancorato una genuina quanto partecipata osservazione della fisicità delle cose ad un versante intimista dove è facile riconoscere la lezione della tradizione italiana dei Morandi, Casorati e De Pisis.
Tra tutti i suoi numerosi lavori sicuramente i più interessanti rimangono quelli in cui la delimitazione del campo pittorico alle sole presenze inanimate gli offre la possibilità di elaborare un repertorio personale di simboli e memorie. Quasi una metafisica sublimazione della convenzionalità in cui trovano spazio rimandi ad affetti privati come quelli verso l’amatissima moglie Gilda, e stigmatizzati più che nei fedeli e appassionati ritratti, nella forza inespressiva di oggetti che le appartenevano. Gli abiti per esempio, presenze mute e terreno di affinamenti tecnici: un meditatissimo controllo dei mezzi espressivi e la sperimentazione di inusuali accostamenti cromatici tali che il realismo di partenza veniva trasformato genuinamente in un più azzardato e attuale iperrealismo. E non solo, proprio quegli abiti, nella loro irriducibile natura di oggetti, già vicini ad un’ ignara declinazione pop, lo hanno riscattato, in modo inconsapevole, da quella deriva nostalgicamente realista verso cui le sue opere avrebbero potuto fatalmente schiantarsi. Stesso discorso vale per i suoi fiori quando si sono fatte scarne e autonome figure in spazi solo accennati dall’incrocio delle pareti e imbevuti di tonalità stinte o riaccesi blandamente da nuances pastello, ma sempre depurati da ogni orpello decorativo o da una ordinario sentimentalismo.
Più accorata e incline al bozzettismo appare invece la produzione legata ai riti e alle processioni dei cinque Misteri. Tuttavia ritratti in schizzi o siglati in commosse e corali ambientazioni, le statue del Cristo, isolate o strette dalla solerzia dei confratelli, sono diventate uno dei tanti modi per parlare della sua terra, per saldarsi ad un genius loci dal quale non ha mai voluto affrancarsi.
E malgrado l’acceso colorismo dell’ultima fase lasciasse aperti esiti tutt’altro che scontati, la sua cifra si trova nei fiori, nelle nature morte, negli studi di insetti e negli oggetti guardati con fresca e amorevole disposizione. Come quella che si leggeva spesso nei suoi occhi quando parlava con competenza del mondo dell’arte contemporanea dai cui azzardi sembrava comunque lontano anni luce. Piuttosto nel suo studio continuava a coltivare un universo a suo modo minimale, una pratica devota del fare pittorico che ricordava l’essenzialità e l’ascetismo della vita monastica. Un modo come un altro per tutelare la sua natura semplice dal caos del mondo.