Come finire nel pantano: note sul dopo(?)guerra irakeno
di Nino Mastropierro

La guerra degli Stati Uniti contro l'Irak è stata un deliberato ed immotivato massacro; un'operazione non particolarmente gloriosa per chi l'ha voluta, non solo perché, nelle sue motivazioni, è stata costruita a tavolino e compiuta con deliberata e fredda determinazione contro la volontà di stati e popoli, ma anche perché è stata costruita sulla menzogna. Una guerra che mirava al petrolio ma che aveva anche altre finalità; in particolare: ridisegnare il quadro geo-politico internazionale e ridefinire le distanze nell'assetto gerarchico delle potenze planetarie. Motivazioni, queste, ovviamente percepite dalle diplomazie; per questo motivo le potenze “minori” si sono ben guardate dall'assecondare la volontà bellicistica dell'amministrazione americana. Le discussioni, tra paesi favorevoli e paesi contrari alla guerra, che si sono svolte nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sia prima che dopo l'occupazione americana dell'Irak avevano come riferimento immediato proprio queste problematiche e non potevano prescindere dal fatto che da tempo Russia e Francia avevano stipulato accordi, per lo sfruttamento del petrolio irakeno, con uomini di Saddam Hussein.
Le note che seguono hanno come riferimento questo scenario.

1. La vera arma di cui dispone l'Irak è il petrolio (almeno 112 miliardi di barili, il secondo se non addirittura il primo paese al mondo per riserve) e da quest'arma si sono sentite attratte, quasi calamitate, le compagnie petrolifere americane e inglesi e i loro rispettivi governi nazionali. É noto che una parte consistente dei proventi della vendita del petrolio era destinata, dal governo americano, quando fosse caduta Bagdad, alla ricostruzione dell'Irak. Ed è altrettanto noto che il governo americano aveva affidato l'affare della ricostruzione a compagnie di fiducia, in particolare alla Halliburton (di cui il vice presidente Cheney è stato amministratore delegato fino al 2000) ed alla Carlyle Group (fondata e diretta, fra gli altri, da Bush senior, e gestita dalla crema della finanza statunitense). Ad agosto dello scorso anno un responsabile della Shell ha ammesso al “Sunday Times” che “potremmo vedere scarsità di petrolio dal 2025” e questa scadenza ravvicinata spiega senza equivoci il motivo per cui, inventato il “casus belli”, il governo americano ha organizzato con inflessibile volontà, la presa di Bagdad: uno degli obiettivi della “Strategia della Sicurezza Nazionale”, documento dell'amministrazione americana del settembre 2002. In realtà gli argomenti portanti di quella “Strategia” non sono stati una novità per il mondo politico statunitense e per la diplomazia internazionale. Nel 1992 alcuni esponenti del governo presieduto da Bush senior, rappresentanti del “partito” dei “neoconservatori” (“neocons”), propose un programma di politica estera che fu ritenuto, persino dal presidente, troppo audace: vinta la guerra fredda, dissolta l'URSS, andava ribadito il primato degli USA sul pianeta e la loro libertà di iniziativa, in “difesa” dei loro interessi, ovunque fosse stato necessario, anche contro il parere delle Nazioni Unite. I “neocons” sono portatori di istanze di potenti gruppi industriali e finanziari e alcuni di loro sono esponenti di rilievo della lobby ebraica, ovviamente molto interessati al potenziamento di Israele ed alla convergenza di interessi, non solo strategici, tra questo paese e gli USA.

2. Gli Stati Uniti non sono riusciti a convincere il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite della giustezza dei loro argomenti contro l'Irak, accusata di detenere armi di distruzione di massa e così hanno deciso, con Inghilterra, Australia, ed altri pochi di fare di testa loro. Ma per l'invasione e l'occupazione gli USA hanno fornito all'opinione pubblica internazionale un'altra giustificazione, oltre quella della smilitarizzazione dell'Irak da armi di sterminio: la cacciata di Saddam Hussein. Una motivazione etica, in modo che la presa di Bagdad si configurasse come esito di una guerra di liberazione piuttosto che di occupazione. Stessa tattica utilizzata per le guerre in Somalia, contro la Serbia e in Afghanistan. Solo che questa volta gli USA e i loro alleati hanno voluto esagerare: presentandosi in Consiglio di Sicurezza dell'ONU con false prove e nei parlamenti nazionali con ingiustificabili bugie per estorcere con l'inganno (il pericolo imminente di essere attaccati da armi di distruzione di massa) l'assenso dei deputati alla guerra. La cosa è ancora più grave in Inghilterra ove le bugie di governo sono per ora costate la vita ad uno scienziato (D. Kelly).

3. Francia, Germania, Russia e Cina non hanno voluto sottostare ai diktat dell'amministrazione americana ed hanno ribadito la centralità della funzione dell'ONU contro l'unilateralismo statunitense. Probabilmente ai governi di questi paesi non interessa molto il ruolo dell'ONU; sicuramente interessa che le riserve petrolifere irachene non restino, fino ad esaurimento, in mani americane ed interessa anche che l'Irak non diventi (con il Kuwait) una grande portaerei americana nel Golfo Persico. D'altro canto, tenendo presente che quello delle armi di distruzione di massa era solo un pretesto per prendere Bagdad, per quale motivo i governi delle potenze minori avrebbero dovuto acconsentire all'invasione dell'Irak? Un autorevole esponente del governo americano ha sprezzantemente parlato di “Vecchia Europa” in riferimento ai paesi di questo continente che si sono opposti alla guerra. Quelle sulla “Vecchia Europa” sono intemperanze che rimandano ad un'altra finalità nella strategia del governo americano: puntare su un'internazionale conservatrice a guida USA (e cioè delle “corporations” molto vicine a membri del governo statunitense) che, sopportando con fastidio l'Unione Europea, cerchi di ostacolarne il cammino, sia per impedire la formazione di un'entità politica, quella europea, unificata, che potrebbe creare seri problemi agli USA, sia per smantellare la presenza dell'euro a causa della concorrenza che questa moneta fa al dollaro sul mercato finanziario internazionale. É appena il caso di ricordare gli innumerevoli contenziosi tra Unione Europea e Stati Uniti sia sul commercio internazionale che sui cospicui interessi intaccati dal protezionismo ancora praticato, nonostante tutto, dalle due sponde dell'Atlantico. Nella strategia di contrasto all'Unione Europea gli Stati Uniti si stanno servendo, in particolare, dell'Italia del Cavaliere: sono numerosi gli atti di “euroscetticismo” di esponenti del governo italiano che chiariscono bene quanto scarso interesse nutra per l'Europa la destra berlusconiana e quanta cieca fedeltà, invece, questa destra nutra nei confronti del governo americano (chi non ricorda l'“Usa day” o l'uso della bandiera a stelle e strisce in funzione opposta a quella della bandiera della pace nei giorni delle manifestazioni contro la guerra, o le polemiche di Berlusconi e soci contro i governi francese e tedesco da prima a dopo la guerra?).

4. Per Francia e Germania avallare quella guerra avrebbe significato non solo accettare la subordinazione agli USA nell'approvvigionamento da fonti energetiche mediorientali ma anche determinare una forte limitazione all'autonomia diplomatica. La diffidenza della “Vecchia Europa” nei confronti degli americani è maturata soprattutto dopo che gli USA avevano dimostrato già dall'epoca dell'invasione e dell'occupazione dell'Afghanistan di non voler condividere con alcuno, nemmeno con la Nato, la responsabilità di iniziativa militare contro il “terrorismo”; di fronte all'unilateralismo degli USA, alla “Vecchia Europa”, alla Russia e alla Cina non restava che tenere sotto scacco, nel Consiglio di Sicurezza dell'ONU, la diplomazia americana per svelarne gli intenti “imperiali”. Operazione riuscita, dal momento che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno dovuto fare più o meno da soli in Irak, potendo contare su una partecipazione solo simbolica di qualche altro paese alla guerra: dell'Australia, ad esempio, o della Polonia o dell'Italia del Cavaliere che ha concesso alle truppe americane di spostarsi a piacimento, con i loro mezzi, nella penisola, per raggiungere le zone di guerra.
Ma l'occupazione americana dell'Irak significa altro ancora: significa la presenza nell'area, di una potente spalla a protezione delle scorribande di Israele in Palestina e dintorni, in vista della creazione della Grande Israele; significa possibilità di installare nuove basi militari nella zona, per compensare l'abbandono di quelle attualmente presenti in Arabia Saudita, divenuto paese non affidabile, covo di terroristi; significa possibilità di utilizzare il territorio iracheno come retroterra per future invasioni di altri due “stati canaglia”, Siria e Iran (l'Iran è addirittura sotto tenaglia fra Irak e Afghanistan); significa anche utilizzare quel territorio come avanposto per la penetrazione in Asia centrale in funzione antirussa e anticinese. Anticinese in particolare, poiché la Cina è seguita con attenzione dal Dipartimento di Stato che ritiene che questo immenso paese, in virtù del costante e potente sviluppo economico in atto da anni, sarà diventato prima del 2030 una superpotenza in grado di impensierire seriamente il Centro dell'Impero.

5. Nella guerra in Vietnam gli USA furono sconfitti sia sul campo dalla guerriglia che nelle strade del resto del mondo dalle manifestazioni popolari contro la guerra, manifestazioni che furono indirettamente determinate dall'informazione più o meno corretta che proveniva dalle zone di combattimento; oggi i guerroristi (*), appresa la lezione, hanno deciso di dissuadere gli operatori dei mezzi di informazione dal fare correttamente il loro lavoro: hanno incominciato i generali israeliani a far sparare sui giornalisti quando non sono riusciti ad interdirne la presenza dai luoghi in cui venivano compiuti massacri di palestinesi; hanno perfezionato la cosa gli statunitensi: col bombardamento delle stazioni televisive dei paesi caduti nel loro mirino (a Belgrado ad esempio, o a Kabul, o appunto a Bagdad) oppure con gli omicidi mirati dei giornalisti all'Hotel Palestine e di quello del cameraman palestinese Mazen Dana a Bagdad. E cosa avrebbero potuto documentare quei giornalisti (o altri) in Irak? Forse l'uso che è stato fatto del napalm, vera e propria arma chimica di distruzione di massa, come è stato ammesso dal colonnello dei marines Joseph Boehm; o quello dell'uranio impoverito; o quello di altre armi terribili come, per esempio, le “minibombe”, ovvero bombe nucleari della cosiddetta quarta generazione che alla vigilia della guerra il presidente americano aveva minacciato di far scoppiare in Irak. Sono agghiaccianti le pretese dei guerroristi dell'Impero: usare liberamente armi di sterminio per punire un paese da loro accusato (fra l'altro a torto) di detenere armi di distruzione di massa.

6. Pochi giorni dopo che i marines erano entrati in Bagdad il presidente americano dichiarò chiusa la guerra: restava da catturare (e, se fosse stato il caso, assassinare, come è capitato ai figli di Saddam Hussein) gli “alti esponenti del regime” e poi pensare alla ricostruzione del paese. Non a caso era stato risparmiato dai bombardieri l'edificio del ministero del petrolio del passato regime. Poteva capitare che i marines mitragliassero l'Hotel Palestine o lasciassero depredare il museo archeologico di Bagdad o trascurasserp di rifornire gli ospedali, tenuti su solo dall'eroismo dei medici, costretti ad operare senza mezzi né medicinali per fronteggiare le stragi causate dagli invasori; quello che non doveva capitare era che accadesse qualche guaio al ministero che più direttamente interessava agli USA e alla Gran Bretagna.

7. Il presidente americano è stato eccessivamente ottimista: riteneva che l'avversione popolare al regime di Saddam Hussein avrebbe significato l'accettazione del dominio statunitense. Ma su questo argomento il punto di vista degli irakeni non coincideva con quello del presidente Bush: il petrolio sarebbe stato una maledizione anche per gli invasori. La resistenza ha deciso di contrastare gli americani e gli inglesi, organizzando sia sabotaggi agli oleodotti (e per ora anche ai sogni miliardari delle compagnie petrolifere) sia attacchi, con operazioni di guerriglia, alle truppe nemiche. In questo modo sia per il presidente americano che per il premier inglese l'euforia iniziale si è andata nei giorni tramutando in angoscia poiché Bush e Blair sono stati contestati in casa loro non solo per le bugie dette ai loro concittadini sulle armi di sterminio, ma anche per la continua perdita di vite umane tra i loro soldati. E vale poco se a morire sono soldati regolari oppure mercenari pagati da compagnie private americane al servizio del Pentagono.

8. La partita che si sta giocando in Irak non riguarda solo la resistenza di quel paese e le truppe di occupazione; riguarda la sorte di centinaia di milioni di persone e il futuro di diversi stati e si inserisce in un contesto geopolitico in cui: a) gli USA hanno stabilito alleanze con diversi paesi dell'Europa orientale fino a pensare di collocare le loro basi militari, attualmente presenti in Germania, nei paesi dell'ex Patto di Varsavia; con queste alleanze gli Stati Uniti stanno avvicinandosi pericolosamente alle porte della Russia che, per quanto attualmente costretta ai margini della competizione internazionale, è pur sempre una potenza nucleare che ha comunque bisogno di non sentirsi accerchiata, e di rifornirsi di petrolio ove meglio le convenga, senza passare per i giochi ricattatori della superpotenza imperiale; b) gli USA hanno dislocato le loro basi in diversi paesi asiatici e continuano ad avvicinarsi pericolosamente anche a Cina ed India, cioè a potenze nucleari che hanno al loro interno complesse realtà sociali, religiose ed etniche, cioè sono vere e proprie polveriere; c) gli USA continuano a considerare tutto ciò che avviene sul pianeta solo in rapporto ai loro “interessi nazionali”: di qui la teoria della guerra preventiva ed infinita che dovrebbe giustificare sia la creazione di alleanze a “geometria variabile” che la rapidità con cui essi possono passare da alleanze consolidate a inimicizie, se non a ostilità palesi, come per esempio è avvenuto nei mesi scorsi nei confronti della Francia e della Germania. Una costante degli imperi sta nella tendenza a non fermarsi, ad alimentare la spinta espansionistica sia per suggellare l'occupazione con la presenza di basi militari, sia per procedere allo sfruttamento delle risorse ed all'allargamento dei mercati. Ebbene, che gli USA, soprattutto nel loro gruppo dirigente “neocon”, pensino di sigillare il pianeta nella morsa dei loro interessi non sfugge a nessuno, anche perché la destra americana al potere non ne fa mistero: rispetto a questo c'è da pensare, anche alla luce della nuova situazione venutasi a creare nel Consiglio di Sicurezza dell'ONU a proposito della guerra all'Irak, che le potenze minori non siano più tanto disposte ad assecondare la volontà degli USA. Per questo motivo è di grande interesse quello che sta avvenendo in Irak: non sono solo gli irakeni a sperare che gli USA escano malconci dal pantano in cui si sono cacciati, ma anche la Vecchia Europa, la Russia, la Cina, ecc. Se è vero che l'amministrazione americana non può spendere all'infinito, in Irak, i soldi dei suoi concittadini e non può inviare altre truppe per consolidare l'occupazione (e rischiare un altro Vietnam), è altrettanto vero che proprio in Irak si sta giocando la partita più importante a proposito della praticabilità della teoria della guerra infinita: perché proprio lì, in Irak, possono essere fermate le aspirazioni della potenza imperiale, sia perché le sue esigenze di bilancio non glielo permettono, sia perché i popoli non lo tollerano, sia perché le potenze minori non glielo avranno voluto concedere usando non solo la diplomazia ma probabilmente anche una sorta di ingerenza indiretta, un atto di solidarietà “antiimperiale” che opponga alla prepotenza americana un'attività di dissuasione fatta di atti di contrasto destinati a durare fino alla sconfitta dell'”unilateralismo” degli Stati Uniti e alla messa in mora della teoria e della pratica della guerra infinita e delle guerre preventive.

(*) Nello scorso numero di “Le passioni di sinistra” abbiamo dato questa definizione della parola “guerrorismo” mutuandola da una frase del presidente americano Bush di condanna del terrorismo: “violenza premeditata, politicamente motivata e perpetrata ai danni di innocenti”, a cui aggiungiamo: “con l'uso della guerra, allo scopo di indurre gli oppositori a non ostacolare le decisioni di chi governa o si ritiene legittimato a governare”.

settembre - dicembre 2003