Che fare?
di Alberto Altamura, Angela Colonna e Vito Copertino

Autunno 2003, dovunque nel mondo, l'appuntamento per le Sinistre non è più rinviabile. Diventa sempre più urgente lavorare, con perseveranza, profondità e rigore, ad un'analisi critica della società occidentale e preparare spunti per un nuovo protagonismo sociale.
Quante volte ancora dovremo assistere, nei prossimi mesi, nei prossimi anni, all'ingerenza statunitense nella vita politica di singole realtà nazionali? Quante volte dovremo tornare a tematizzare le estese connessioni tra guerra militare e guerre economiche e sociali? Quante volte si dovrà ancora guardare senza aver la forza per reagire, affidando la protesta soltanto alle percussioni delle pentole vuote dei cacerolazos, alle lotte piquetere, al folklore dei girotondi?
In molte parti del mondo, e anche qui da noi, una buona parte della società civile sente la propria responsabilità davanti alle vicende della politica, dell'economia e della guerra.
Abbiamo attraversato un lungo periodo di disgregazione delle forze e del pensiero critico di un'intera generazione che è stata massacrata e terrorizzata dalle dittature militari della seconda metà del Novecento, dalle repressioni sanguinarie che, in molti luoghi del mondo sono organizzate in campi di tortura diretti da soldati addestrati nelle scuole militari statunitensi. Interi popoli sono oggi piegati dalle vergognose azioni di sabotaggio del capitalismo occidentale, società di antica tradizione sono paralizzate dall'arroganza degli eserciti più forti del mondo e dalle trame subdole della Cia, paesi dissestati dall'azione del neoliberismo sono messi in ginocchio dalle strategie proposte dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Mondiale e adottate dai politici al governo.
E noi?
Nessuna reazione seria si prospetta all'invasione del grande fratello informatico, nessuna resistenza si oppone al tentativo, da più parti perseguito, di de-arabizzare e de-islamizzare vasti territori e civiltà millenarie, nessuna voglia di contrastare i processi di privatizzazione di risorse territoriali e servizi fondamentali per la vita si afferma in modo diffuso, né cresce una autentica attenzione verso movimenti che lottano e uomini che muoiono per difendere diritti fondamentali, il diritto d'asilo, il diritto alla vita.
“Hanno la forza, potranno ridurci all'impotenza, ma non si fermano i processi sociali con il crimine e la violenza”, è il messaggio consegnato al mondo intero da Salvador Allende poco prima del bombardamento del palazzo presidenziale e del suo assassinio, in un giorno di settembre, trent'anni fa. Ed è un altro settembre, quello del 2001, a segnare quella “dottrina Bush”, quel “colpo di stato globale” che sostituisce lo stato di diritto con lo stato di polizia in tutto il mondo: censura, ingerenza nel privato, oscuramento mediatico, falsificazione sistematica dell'informazione, arresto del processo mondiale di avanzamento democratico e, infine, Guantánamo. Nella base militare americana di Guantánamo si è detenuti senza accusa e senza assistenza legale, non si è imputati né prigionieri di guerra. Per chi è qui “detenuto” è sospesa la tutela dei diritti umani.
Che fare? Che fare se all'orizzonte si profila per tutti una Guantánamo?
Prima di tutto c'è l'economia di un Paese. Furono coraggiose le scelte di politica economica del Cile negli anni Settanta. Sono interessanti e determinate, oggi, le resistenze che i paesi del Medio Oriente oppongono alla penetrazione del modello economico occidentale. La Siria resiste più della Giordania alla globalizzazione capitalistica. Una nuova speranza si accende in Sud America, accanto a Cuba c'è il Brasile di Lula, l'Argentina di Kirchner, il Venezuela di Chávez. In Messico, nel Chiapas hanno luogo interessanti esperienze di buon governo.
C'è l'impegno politico. E non può esserci solo il comitato delle donne di Termini Imerese, in una forma combinata di cacerolazos e piquetes, a chiedere le dimissioni di deputati e senatori della Casa delle Libertà, se poi, invece, in quella stessa realtà le Sinistre perdono le elezioni amministrative, dopo mesi di proteste, cortei operai, manifestazioni sindacali. Non si può continuare a enfatizzare il ruolo del Centro, di quel Centro che privilegia le Sinistre per fare politiche di Destra e che resta, in ogni caso, sempre pronto ad appoggiarsi alla Destra per far fuori la Sinistra. Ambiguo è l'atteggiamento di tutti i “centri” del mondo.
Nasce all'interno del movimento “no global” un pensiero critico che si sviluppa nella relazione con la società e con le enormi contraddizioni portate dalla globalizzazione capitalistica. Obiettivo è la costruzione di un cammino che trasformi i soggetti e il mondo. Per realizzarlo ci sono le pratiche del movimento “no global”, pratiche di democrazia partecipata che si affermano dal basso; ci sono le pratiche dello zapatismo, cioè di quel grande movimento che, come sostiene Ana Esther Cecena, punta a una “democrazia di eguali diversi senza gerarchie, la democrazia del consenso e non delle maggioranze, la democrazia di tutti”.
Il movimento dei movimenti, Seattle, Porto Alegre, Genova, altri eventi, altri coaguli di spinte, tensioni, visioni, circostanze di cui la realtà è costantemente campo di battaglia, contrattazione, disputa, dialogo, composizioni e precari equilibri. Proviamo a cercare inizi, proviamo a non dare per scontati gli inizi della storiografia ufficiale, quella del blocco di potere dominante, proviamo a costruire-progettare la nostra storia, perché “la storia siamo noi”, perché la storia ha tante velocità e andamenti e molti inizi, perché costruire la nostra storia è già minare gli equilibri di un presente che vogliamo diverso.
Tanti inizi per sequenze multiple di eventi, passaggi epocali, cambiamenti di struttura e cambiamenti di superficie: siamo dentro un passaggio strutturale, quando cioè cambiano le mentalità, i modi di produrre, l'idea del mondo e il modo di costruire il reale. Tra le circostanze-esiti di questa fase c'è la finanziarizzazione dell'economia, la virtualizzazione della ricchezza, il sistema capitalistico che fagocita se stesso come ultima risorsa da consumare, l'economia globale delle multinazionali. Ma, ancora, c'è la globalizzazione della comunicazione orizzontale e l'accesso potenzialmente illimitato alle informazioni per tutti. Cambia l'idea di identità, l'idea di localizzazione, l'idea di benessere; vacillano e iniziano a mostrare i limiti le costruzioni del moderno basate su una ipotesi di progresso che si è rivelata disumanizzante, funzionale al capitalismo del primo mondo, che macina esistenze e deresponsabilizza le scelte.
Nel movimento di resistenza alla globalizzazione appaiono, oggi, due tendenze: quella che si orienta verso la costituzione di centri alternativi con l'idea di contrapporre una globalizzazione “giusta” all'attuale “ingiusta” e, da un'altra prospettiva, quella che scommette sulla molteplicità e su nuove forme di scambio tra i molti locali che oggi possono avvenire su scala planetaria.
Con queste due prospettive dobbiamo fare i conti, ricordando, però, che il locale economico, quello inteso in senso capitalistico come lo sviluppo locale, non è in contrapposizione alla globalizzazione del monopolio delle multinazionali, ma è solo un aspetto strutturale e coerente a quella stessa economia. Ci sono territori in Italia, ci sono i distretti industriali, ci sono esperienze locali che rappresentano oggi soltanto la traduzione locale dei processi globali di monopolizzazione. Sono il ciclo della moda, la produzione di tecnologie militari, i poli informatici, ambiti di specificazione locale delle dinamiche della globalizzazione economica.
Sarebbe diverso, invece, se il locale assumesse non solo una connotazione di scala più piccola, bensì una caratterizzazione radicalmente diversa, espressione di una diversa economia politica, di un altro globale, di altre relazioni tra uomo, società e ambiente, e non facesse del territorio una merce, non mercificasse l'acqua, i beni collettivi, i servizi, la ruralità, la città.
Per rispondere in modo efficace all'interrogativo Che fare? non sono più praticabili quelle forme della politica che, fino ad oggi, hanno mirato a subordinare, a catturare, a devitalizzare la molteplicità delle esperienze e delle risorse.
Occorre evitare che il molteplice si cristallizzi in un centro. A questo dovranno servire le passioni di sinistra.


“La presa del potere? No, qualcosa di appena più difficile: un mondo nuovo.” (Subcomandante Insurgente Marcos)

settembre - dicembre 2003