Cancun - Europa: il mondo in vendita
di Ubaldo Ceccoli

Tutte le volte che in questo periodo dell’anno sento la parola “settembre” scattano nella mente, come riflesso condizionato, le reminiscenze scolastiche dei versi di D’Annunzio: “Settembre, andiamo. E’ tempo di migrare ...”. Sì, ma dove? Oggi le sfere pubbliche diasporiche non sono più di piccole dimensioni, marginali. Sono parte del diffuso apparire di diversi tipi di ambiti pubblici che costituiscono un indicatore specifico del moderno globale. Questo, oggi, dove mi condurrebbe? A Cancun. Cancun è una località messicana che le guide per il viaggiatore “in” - anche attraverso la mediazione di Internet e l’opera dell’immaginario come parte integrante di un’operazione di marketing - definiscono ridente e prestigiosa meta turistica, particolarmente frequentata da ricchi americani.
Ma, a settembre, Cancun è connessa ad una migrazione non turistica, bensì politica attraverso i modi in cui gli interessi, le aspirazioni, i desideri, i bisogni individuali sono tagliati trasversalmente da quelli della mondializzazione. Nella città messicana dal 10 al 14 settembre prossimi si terrà la riunione ministeriale della Wto con lo scopo di portare a compimento molti degli obiettivi che l’organizzazione si è data, ovvero la totale mercificazione e privatizzazione di tutto ciò che può produrre utili privati. L’organizzazione ha sistematicamente allargato il suo mandato a tematiche sempre meno collegate direttamente al commercio, quali la produzione agricola, la proprietà intellettuale ed i servizi. Nel corso di questa riunione si parlerà in particolare dell’accordo sui servizi (GATS – General Agreement on Trade in Services), tra i quali figurano sanità, istruzione, cultura, servizi sociali, ambiente; ma anche poste, telecomunicazioni, audiovisivi, editoria, trasporti, fornitura d’acqua, energia, gestione dei rifiuti, banche, assicurazioni, commercio all’ingrosso e al dettaglio. In una parola i “servizi” costituiscono un vero e proprio tesoro, che vale da solo il 60% della produzione e dell’occupazione del mondo.
Questi settori, una volta che entrano a far parte di un accordo sui Gats, sottostanno al diritto di insediamento per le imprese straniere in qualunque paese membro con accesso alla privatizzazione di beni dello Stato; al principio di nazione più favorita, per cui, automaticamente, i risultati negoziali, anche bilaterali, sono estesi a tutti i paesi membri; al principio del trattamento nazionale, che impedisce di favorire i produttori nazionali rispetto a quelli esteri. In pratica uno Stato non può intrattenere o intraprendere rapporti economici che vadano contro il libero mercato. Se uno Stato fornisce un servizio incluso nei Gats o se favorisce i rapporti con un fornitore o un paese rispetto ad un altro, può essere citato in giudizio nel tribunale interno alla Wto e sanzionato.

Qual è il problema?
Sul piano formale, la Wto appare come la più democratica tra le organizzazioni internazionali, dal momento che vale il principio di un paese un voto e che a nessun Stato è consentito un potere di veto esclusivo per cui le decisioni sono prese formalmente per consenso, in occasione delle Conferenze Ministeriali. Nella pratica, quest’organizzazione è caratterizzata da un forte deficit democratico, che riguarda sia il processo di formazione delle decisioni (le questioni in realtà sono discusse “informalmente” in piccoli gruppi di paesi e le decisioni ivi raggiunte sono imposte agli altri come un fatto compiuto), sia la trasparenza sul suo operato e su quello dei governi membri, sia le conseguenze quasi irreversibili della subordinazione delle leggi nazionali e locali ai trattati in esso contenuti.
Se l’operato dell’organizzazione si svolge in segretezza, lo stesso comportamento caratterizza anche i paesi membri che la compongono. Lo stesso parlamento europeo e, in misura ancora maggiore, i parlamenti dei singoli stati, sono tenuti all’oscuro dei negoziati e delle decisioni prese. Le richieste portate in seno alla Wto riflettono poi quasi esclusivamente le rivendicazioni delle grandi lobbies economiche, le stesse che dettano l’agenda dei singoli governi. Ma l’aspetto più inquietante è legato al fatto che, vincolandosi ad accordi internazionali sempre più stringenti, gli stati rinunciano a tutta una serie di strumenti di politica economica, e non solo, necessari per disciplinare i mercati e rispondere alle situazioni di crisi. Tutto ciò si verifica in un quadro in cui i bisogni legati alla sicurezza e alla sovranità alimentare, alla tutela dell’ambiente, al diritto alla salute e all’istruzione, all’accesso a beni fondamentali come l’acqua, e più in generali i diritti umani fondamentali, vengono sempre più subordinati agli interessi legati alla liberalizzazione del commercio, concentrando nelle mani delle multinazionali e delle transnazionali e quindi della Wto un potere enorme.
Il carattere globale della Wto sta non nelle sue politiche ma nel suo progetto istituzionale: mettere regole e norme a favore dell’economia di mercato a tutta la vita sociale attraverso negoziati circa le regole per la liberalizzazione del commercio, e servire come corpo giuridico per imporre le scelte e comporre le dispute. Si ha la “politicizzazione dell’economia nel senso che l’indirizzo politico crea le condizioni giuridiche solo per l’affermarsi del libero mercato.
Dopo il fallimento del MAI (Multilateral Agreementi on Investments) nel dicembre 1998, la Wto fu scelta dai rappresentanti europei del commercio e delle grandi “corporations” europee come nuovo forum per perseguire gli obiettivi del MAI: rafforzare i diritti delle compagnie transnazionali e multinazionali e limitare lo spazio dei governi e della società civile di regolare le proprie economie. A Cancan, infatti, si parlerà del possibile allargamento del mandato della Wto su competizione ed investimenti, per dare di fatto alle multinazionali gli stessi poteri degli Stati di citare in giudizio i governi nazionali per violazione della libera concorrenza, qualora questi impongano legislazioni restrittive su questioni ambientali, sociali e del lavoro. La Wto, ormai assemblea legislativa dell’Impresa-stato, crea un’impossibilità strutturale per tutti i Paesi di avere un loro stato sociale. Gli agenti transnazionali vogliono dunque essere liberi da ogni regola in ogni luogo del mondo e la Wto sancisce che le imprese sono soggetti sovrani, esenti da qualsiasi obbligo verso cittadini, territori, governi: al protezionismo dello Stato subentra così il protezionismo delle transnazionali.
I beni comuni dell’umanità sono così aggrediti dall’accordo generale sul commercio dei servizi che punta alla privatizzazione aprendo alle multinazionali e alle transnazionali. Questo significa che, là dove ci sono dei servizi pubblici, si cercherà di privatizzarli e di impadronirsene, dove non ci sono, si farà in modo che tutte le attività finiscano in mani private e possano essere più redditizie possibile.
Per la consistenza di questo mercato potenziale, mi limito a citare alcuni dati. L’istruzione, una volta privatizzata, consentirebbe guadagni valutati intorno ai 2000 miliardi di dollari. Non è difficile immaginare che anche nei paesi in cui l’istruzione è statale i governi tenderanno a far quadrare i conti accelerando la privatizzazione delle istituzioni scolastiche, facendo pesare sulle famiglie l’onere della spesa scolastica per i figli. La sanità rappresenta un mercato potenziale di 3500 miliardi di dollari a livello mondiale e nella rincorsa all’aziendalizzazione dei servizi costituisce un bottino appetibile soprattutto per le compagnie di assicurazione. Il valore totale dell’industria idrica è stimato intorno agli 8000 miliardi di dollari l’anno.

Quali i pericoli per la qualità della vita per donne e uomini?
Se i negoziati attualmente in corso non cambieranno direzione, in futuro saranno le multinazionali a gestire ospedali, scuole, università, acquedotti, trasporti: imprese il cui obiettivo è fare profitti, non certo garantire un accesso universale a quei beni che gestiranno.
Nel campo dell’agricoltura i paesi ricchi non diminuiranno le sovvenzioni alla loro agricoltura e continueranno a rifiutare buona parte della produzione del Sud del mondo. I piccoli agricoltori saranno rovinati a causa dell’aumento di importazioni dagli Usa e dall’Europa e dal crollo dei prezzi con la fine delle restrizioni e dei dazi sulle importazioni. A seguito del trattato di libero scambio (Nafta) tra Messico, Usa e Canada, gli Usa hanno già aumentato le loro esportazioni di mais e di fagioli e hanno gettato sul lastrico alcune centinaia di migliaia di famiglie di piccoli agricoltori messicani.
Nell’affare dell’acqua oggi sono due le transnazionali che dominano il mercato e sono francesi. Si tratta della Suez e della Vivendi Universal che nel 2001 hanno guadagnato commerciando acqua ben 12,2 miliardi: detengono il 40% del mercato idrico mondiale. La Commissione europea ha chiesto ai suoi partner del Sud di liberalizzare il settore dell’acqua perché le imprese europee sono molto efficienti in questo campo. E’ certamente vero che molti paesi del Sud non hanno servizi idrici funzionali, ma privatizzare e mettersi nelle mani di fornitori monopolistici è assai pericoloso. In Bolivia, ad esempio, nel 1999 la gestione del sistema idrico di Cochabamba, la terza città del Paese per numero di abitanti, fu data in concessione a un consorzio privato internazionale: le tariffe aumentarono in pochissimo tempo del 200% e si arrivò ad una rivolta sociale di massa repressa duramente dal governo del Paese. Uno studio della provincia di Como rivela che, se tutti i servizi idrici italiani diventassero SpA, il prezzo dell’acqua diventerebbe quattro volte maggiore.
Se l’istruzione o suoi settori rilevanti fossero inclusi nei Gats, per il 2010 vi sarebbe la piena liberalizzazione del settore a livello europeo, con gli interventi pubblici relegati a fornire servizi di serie B e limitati soprattutto alla scuola primaria ai più poveri.
L’accordo precedente sulla proprietà intellettuale ha allungato la durata di un brevetto da sette-otto anni a vent’anni, una bella rendita di posizione per i produttori e le grandi industrie multinazionali. Si ricorderà lo scontro sui farmaci, nel corso del quale gli Usa hanno impedito un accordo affinché i paesi poveri potessero acquistare medicine al prezzo più basso possibile. Si tratta di farmaci contro l’Aids, la tubercolosi, la malaria e altre malattie tropicali. I grandi produttori farmaceutici godono della protezione del governo americano e anche se gli utili provenienti dalla vendita di medicinali nel sud del mondo sono solo una piccolissima parte del loro giro d’affari, vogliono naturalmente incrementare le loro vendite e perciò mantengono la proprietà intellettuale.

La Commissione Europea tiene all’oscuro i parlamenti nazionali sulle sue posizioni per la riunione WTO.
La Commissione Europea sta preparando una bozza contenente la posizione dell’Unione Europea in vista della riunione di Cancun, delegata al commissario europeo al commercio Lamy che, stante alcune sue dichiarazioni, sembra intenzionato a concedere l’inclusione dell’istruzione e della cultura nell’accordo finale sui Gats, anche contro il parere della commissaria all’educazione e alla cultura Reding.
Nel gennaio 2003 la Commissione Europea si era opposta alla pubblicazione sia della lista dei servizi che saranno messi in vendita nei 15 paesi membri, sia delle richieste avanzate verso paesi terzi. I parlamenti sono così svuotati dei loro poteri e degradati ad un ruolo puramente simbolico, notarile, visto che sarebbero chiamati semplicemente a ratificare qualunque decisione fosse presa a Cancun. E’ evidente che questa ratifica a posteriori non permetterà nessun dibattito, ma sarà un atto formale e obbligato.
Sarebbe indispensabile invece che la Commissione Europea rendesse pubblici i documenti e definisse le proprie “offerte” attraverso un procedimento trasparente che permetta ai cittadini di esprimere la propria opinione sul futuro dei servizi pubblici.
Il punto di fondo che emerge in modo ricorrente negli scontri sui temi della distribuzione dei poteri nell’economia globale, è che le oligarchie delle imprese multinazionali, della finanza e delle istituzioni economiche internazionali, rifiutano di fare i conti con i problemi di legittimazione e di democrazia. Per questo hanno accelerato l’erosione del potere dei governi nazionali e delle procedure democratiche per la formazione delle loro politiche. Questo del resto è un limite di fondo del modello liberale: l’idea che la democrazia può eventualmente entrare in politica, ma si deve fermare alle porte dell’economia. Ora è il momento che la società civile internazionale ponga il problema di superare questo limite.

Le richieste alternative.
Il 17 e il 18 maggio scorso si è tenuta, in più di cento piazze italiane, una campagna per il raggiungimento di una maggiore trasparenza e democrazia, ribadendo la necessità di chiamare il Governo italiano ad un dibattito parlamentare per illustrare la posizione italiana ed europea, anche considerando che l’Italia, presidente di turno dell’Unione al momento della riunione di Cancun, avrà un ruolo di indirizzo nelle scelte che saranno prese.
Quest’azione è continuata, coinvolgendo singoli, organizzazioni della società civile e dei consumatori, enti locali, sindacati, istituzioni, associazioni di categoria e formazioni politiche, per fermare il disegno della Wto a Cancun e il tentativo dell’Unione Europea di allargare il mandato e i poteri dell’organizzazione in occasione della prossima conferenza ministeriale di Cancun. Le richieste alternative ai governi europei e all’Unione Europea vertono sui seguenti punti:
a) il blocco dei nuovi negoziati sui diritti per gli stranieri ad investire in ogni settore di qualsiasi Paese, ricevendo inoltre lo stesso trattamento delle società locali, con l’accesso alla privatizzazione di beni dello stato;
b) l’esclusione della liberalizzazione di tutti i servizi essenziali, per ristabilire la sovranità nazionale e locale nella definizione dei regolamenti sulla fornitura dei servizi;
c) il blocco del divieto agli Stati d’imporre agli stranieri di reinvestire localmente parti dei profitti realizzati, e di operare per un periodo continuato;
d) l’interruzione della concessione dei sussidi – comunque camuffati – alle esportazioni di prodotti agricoli, ponendo così fine alle pratiche di dumping che danneggiano irrimediabilmente i piccoli produttori europei ed i paesi in via di sviluppo; assicurando la massima trasparenza delle forme di sostegno alla produzione; creando meccanismi per la protezione dei prodotti locali; favorendo il raggiungimento della sovranità alimentare nel nord come nel sud del mondo;
e) il non riconoscimento della brevettazione sotto qualunque forma delle risorse genetiche, affermando il diritto di ogni paese a tutelare nelle forme più appropriate la biodiversità, i saperi e le conoscenze rispetto al controllo monopolistico di un ristretto numero di grandi aziende private;
f) l’impegno per il diritto ai paesi del mondo di produrre ed importare i farmaci generici, necessari a garantire il diritto alla salute delle popolazioni.
Quindi l’Unione Europea deve adoperarsi per ridurre l’invasività del Gats, ristabilendo la sovranità nazionale e locale nella definizione dei regolamenti sulla fornitura dei servizi, e imporre regole democratiche e trasparenti per un commercio internazionale basato sulla giustizia sociale ed economica per tutti, e per proteggere l’unico pianeta che abbiamo e che non possiamo mettere in vendita. Se l’Europa vuole impegnarsi nel tentativo di un possibile modo diverso di produrre, consumare, operare, pensare, vivere, questo potrebbe essere il punto di partenza per iniziare a cambiare il mondo.

La nuova Compagnia delle Indie Occidentali.
In questi mesi molto si è detto sul declino dell’economia italiana. Tale declino ha un filo diretto con la diffusa convinzione che nell’economia basata sulla conoscenza, e nelle società dell’informazione e dei servizi, l’industria manifatturiera non svolga più un ruolo essenziale. Del resto manager e dirigenti d’azienda sono più concentrati sulla finanza o sulle squadre di calcio che non sui problemi della produzione. In Italia quel poco che rimane della grande e media produzione industriale è quasi per intero di proprietà straniera. Ma allora la Confindustria Italiana e il suo presidente chi stanno rappresentando? Poiché nel Paese operano unità produttive controllate da imprese straniere, tutte le decisioni in merito ai livelli occupazionali, alle condizioni di lavoro, alle retribuzioni, a quale prezzo produrre, sono prese altrove, mentre i relativi costi economici, sociali ed umani ricadono sul paese ospitante.
Ma l’alta ragione del declino sta nel fatto che tutte le sfere pubbliche sono state progressivamente colonizzate da interessi privati che occupano l’intero spazio pubblico proclamandosene i soli legittimi occupanti. Si sostiene questa cosiddetta modernizzazione rendendo tutto vendibile e acquistabile, “prostituendo il territorio, l’ambiente, i luoghi pubblici e le istituzioni”, per citare Franco Cassano (Il pensiero meridiano, Laterza, Roma- Bari 1996).
“Servizi” è la formula per indicare il complesso di attività economiche (commercio, banche, assicurazioni, trasporti, comunicazione, ecc.) la cui esistenza è a sua volta suscettibile di valutazione economica e di compravendita. Ma alla stessa denominazione risponde nell’uso corrente anche la massa di attività che con la produzione di merci non hanno, o non dovrebbero avere, rapporto diretto, e men che mai di servizio, ossia tutto quanto in termini di istituzione equivale a sanità, istruzione, giustizia, informazione, trasporti pubblici, difesa dell’ambiente, cultura. Tutto questo, tuttavia, viene scaffalato indistintamente insieme ai supermercati, alle banche, alle borse–valori, alle lotterie.
Del resto tutte le funzioni che riguardano la riproduzione sociale nella sua molteplicità e complessità, da sempre sono state considerate una sfera minore, perché per la maggior parte non sono oggetto di transazione finanziaria. Non è un caso se storicamente si è attribuito allo Stato, ben prima del Welfare-State, il compito di svolgere un ruolo chiave nel soddisfare almeno alcuni bisogni primari della riproduzione sociale, ai quali i meccanismi del mercato capitalistico non davano risposta.
Con l’affermarsi su una dimensione planetaria delle ideologie neoliberiste si ha una radicale messa in discussione del Welfare con la cancellazione del concetto di solidarietà, e con l’accanita ricerca di ogni possibile opportunità di sfruttamento mercantile. Si ha così l’esplosione del “terziario” in settori estranei alle attività tradizionalmente di servizio della produzione - quali intrattenimento, turismo, sport, tempo libero - che danno vita a fiorenti mercati, ma che appartengono anche alla sfera della “produzione di persone”, dove sempre più la forma-merce s’imprime inesorabilmente e dove il mercato impone la propria istanze sovrane. Su questo s’innesta il passo successivo, di dare forma di merce ad ogni espressione sociale, ad ogni momento della vita (Cfr. Carla Ravaioli, Un mondo diverso è necessario, Editori Riuniti, Roma 2002).
Il “capitale in processo” rinnova il suo essere, capitalizza tutto, vale a dire assimila tutto e tutto riduce a propria sostanza. Così Jacques Camatte (cfr. “Invariance”, anno III, s. II, n. 3, 1973) esponeva il dispiegarsi del processo capitalistico verso la sua forma globale. Oggi tutte le relazioni biologiche e sociali umane sono integrate nel processo del capitale con la conseguente “integrazione del capitale nel cervello degli uomini”.
Se il centro dell’economia si sposta dal rischio degli investimenti produttivi alla finanza (sganciata dai processi produttivi reali), e ai settori pubblici, è perché si tende ad eludere l’incertezza dei mercati. La nuova centralità sui monopoli privati, incardinata sul sistema dei bisogni primari portati nell’arena mercantile, assicura utili sulla base di una domanda garantita che non può conoscere flessione, assicurando così un ritorno certo all’autoriproduzione del capitale. Il segno distintivo di tale orientamento in corso è l’immissione sul mercato dei “servizi pubblici” che più direttamente toccano la riproduzione sociale delle persone (sanità, istruzione, assistenza sociale, cultura) o attraverso la privatizzazione (una vera e propria attività predatoria vista la sostanziale svendita del patrimonio pubblico) o con la trasformazione in aziende in nome dell’efficienza: scuola, università, ospedali, unità sanitarie, musei, biblioteche, teatri, centri di ricerca diventano aziende, il cui compito primario è comprimere i costi e produrre dividendi, non importa con quali ricadute sulle reali qualità dei “servizi” forniti ai “clienti”, poiché si opera di fatto in regime di monopolio. Al contempo presidi, professori, medici, direttori d’ospedali, di pinacoteche, rettori, responsabili di attività scientifiche sono tenuti a trasformarsi in obbedienti piazzisti.
E’ questa una caccia al profitto lontana dalla mentalità della borghesia industriale e più vicina alla logica mercantile della Compagnia delle Indie, cui facevano capo quei ricchi mercanti che avevano ottenuto privilegi esclusivi e concessioni governative. I nuovi boiardi delle privatizzazioni - sarebbe forse giunto il momento d’impegnarsi a ricostruire la mappatura dei nuovi proprietari di ciò che prima era pubblico - segnati culturalmente dalla passione piccolo-borghese di far soldi che li costringe alla violenza o alla menzogna, sono più interessati a trovare sbocchi alle smisurate concentrazioni di denaro mobile mondiale - alle cui spalle operano poteri spesso anonimi - che non al benessere dei cittadini.
Non possiamo perciò che ostacolare questa devastante vendita all’incanto: ciò vuol dire restituire al pubblico la dignità di soggetto attivo, pensando contemporaneamente ad un’altra grammatica della ricchezza e della sua ridistribuzione.

settembre - dicembre 2003