Nello scorso numero de “Le Passioni di Sinistra” avevamo descritto sinteticamente lo scenario preoccupante che si apre per il mondo del lavoro con l'approvazione della legge delega n. 30 del 2003, la cosiddetta riforma Maroni o come dicono – con una dose massiccia di ipocrita cattivo gusto - “riforma Biagi”.
In quella occasione avevamo mostrato tutto il potenziale destrutturante che l'azione del governo Berlusconi ha nei confronti del mercato del lavoro e della dignità delle lavoratrici e dei lavoratori.
Ora che quella volontà di precarizzazione si è ulteriormente completata con l'emanazione del decreto attuativo della delega, che ha peraltro aggravato la pesantezza dell'attacco ai diritti attuato dalle destre e dalle associazioni padronali, Confindustria in testa, non si può che confermare il giudizio espresso allora.
Tuttavia il ragionamento condotto finora, tutto centrato sulla denuncia di quelle parti della riforma che introducono nuove tipologie contrattuali senza diritti (staff leasing, job on call, job sharing, e altre ancora) e che abrogano i diritti residui di tipologie già esistenti nel nostro ordinamento (part-time, collaborazioni coordinate e continuative, contratti formazione e lavoro, apprendistato ecc.) è un ragionamento da considerarsi parziale e fortemente incompleto.
Esiste, per così dire, una faccia nascosta della luna, un aspetto della controriforma governativa poco conosciuto da tante donne e tanti uomini di sinistra, e su cui poca attenzione hanno posto perfino numerosi addetti ai lavori.
L'intento di questo articolo è precisamente quello di tentare di far luce su questo lato oscuro, nella convinzione che la conoscenza degli scenari che si stanno configurando potrebbe contribuire alla costruzione di un'azione combinata e plurale di contrasto degli stessi.
Nelle intenzioni di chi scrive i destinatari di queste riflessioni sono le donne e gli uomini che nel sindacato, nei partiti di sinistra, nel movimento, nel posto di lavoro, nella Scuola o nell'Università sono impegnati nella costruzione di un mondo diverso da quello marcato dalla mercificazione globale neoliberista, di cui la cosiddetta “riforma Maroni” è un capitolo inquietante.
Queste intenzioni si connettono dunque direttamente alla questione del Che fare?, tentando di immaginare una prima parzialissima risposta.
Relazioni industriali e neo-corporativismo
Ma qual è questo lato oscuro della luna, questa parte della controriforma su cui poca attenzione si ritiene sia stata posta anche da parte del movimento?
Chiunque leggesse con una pur minima attenzione il testo del decreto legislativo preparato dal governo, o anche la più sintetica legge delega, non potrebbe non notare la ridondanza dei riferimenti alle associazioni datoriali, ai sindacati e soprattutto agli enti bilaterali.
Che si parli di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro, di certificazione del rapporto, di somministrazione di manodopera (cd. staff leasing), di apprendistato o di part-time, il riferimento e il coinvolgimento delle parti sociali e degli organismi bilaterali da loro costituiti è continuo.
La materia può apparire eccessivamente tecnica per essere compresa appieno, e probabilmente per questo motivo è rimasta ignota al grande pubblico che pure tanta attenzione aveva posto al tema della controriforma, in particolare per quel che riguarda l'attacco all'articolo 18; tuttavia essa tocca aspetti talmente delicati che si impone uno sforzo per capirne gli aspetti essenziali e il quadro storico e politico che si apre.
In sintesi, e senza il timore di essere smentiti da chicchessia, si può affermare in prima battuta che tra gli obiettivi della controriforma del mercato del lavoro, del Governo e delle associazioni di rappresentanza che l'hanno sostenuta (ossia tutte tranne la Cgil e i sindacati di base) c'è la volontà di costruire delle relazioni industriali di marca neocorporativa.
Uno degli assi portanti di tutta la vicenda politica di cui si sta discutendo, e del lungo testo normativo in cui tale vicenda si articola, è il tentativo di cooptare i sindacati in rilevantissime funzioni pubbliche, attraverso la predisposizione di risorse economiche che alimentino tale cooptazione.
In questa materia l'azione del Governo si è liberata del dilettantismo che le è proprio in tante altre materie e che suscita l'ilarità preoccupata della stampa internazionale.
In materia di lavoro si sta esplicitando il capitolo più raffinato di un micidiale tentativo di costruire, attorno ad una destra populista e – insieme – liberista, un blocco di potere che la sostenga negli anni futuri.
Questo tentativo passa attraverso il superamento del conflitto sociale quale strumento di riscatto per le lavoratrici e i lavoratori e per le classi subalterne, e passa attraverso lo snaturamento del ruolo del sindacato da agente di rappresentanza degli interessi di chi lavora e di conflitto a sostegno di tali interessi ad agente imprenditore para-pubblico, operante nel grande business del mercato del lavoro.
Attraverso il riferimento costante agli enti bilaterali, i sindacati dei lavoratori e le associazioni datoriali passano dall'essere parti di rappresentanze contrapposte all'essere anche formalmente “soci in affari”.
È facile immaginare che d'ora in poi, sarà fortissima la tentazione di alcuni sindacati di sostenere il peso economico di mantenimento dell'imponente struttura di cui l'organizzazione è composta, sempre meno attraverso i contributi derivanti dall'iscrizione dei lavoratori ai sindacati stessi, e sempre più attraverso i proventi delle attività che la controriforma Maroni loro offre su un piatto d'argento.
In tal modo, il peso della volontà dei rappresentati (lavoratrici e lavoratori) potrà condizionare sempre meno l'azione dei rappresentanti (sindacati).
Come si vede è prima di tutto un problema di democrazia, e non è affatto esagerato il richiamo all'esperienza del corporativismo che fu propria, in Italia, del ventennio fascista.
Allora fu direttamente ed esplicitamente la legge a cooptare, snaturandolo, il ruolo del sindacato nell'organizzazione dello Stato voluta dal Regime.
Oggi, in maniera più raffinata, tale cooptazione avviene attraverso quelle che sono le divinità per eccellenza della società capitalista globale: il denaro e il profitto.
In tal modo Cisl e Uil, tra gli altri, incassano i proventi della definitiva privatizzazione del collocamento.
Le lavoratrici e i lavoratori italiani ne pagheranno, come sempre, il prezzo salatissimo.
Che fare?
Ovviamente questo processo di snaturamento del ruolo del sindacato e di svuotamento dei contenuti democratici dell'azione sindacale non sono una novità assoluta nell'Italia repubblicana.
La concertazione che ha governato il sistema di relazioni industriali nell'ultimo decennio ha costituito certamente un primo grave passo verso un sistema di marca neocorporativa.
Tuttavia il tentativo che il Governo Berlusconi sta mettendo in campo rappresenta un salto di qualità enorme del processo, un'accelerazione che impone un'azione di contrasto urgente e immediata.
Un punto di partenza nel rispondere al Che fare? sta nel ricordare che la Cgil non ha firmato il Patto per l'Italia e quindi, al contrario di Cisl e Uil, è in formale dissenso verso questo progetto neocorporativo.
Sembra poco, ma il fatto che il più rappresentativo sindacato italiano si opponga a che venga snaturato il ruolo dell'agire collettivo in difesa di chi lavora non deve essere sottovalutato, pena l'accettazione di una sconfitta dalle proporzioni devastanti.
Tuttavia la Cgil è un sindacato articolato, complesso, all'interno del quale non si sono mai arresi gli animi di chi ha considerato la stagione delle lotte e delle grandi manifestazioni del 2002 come un evento transitorio che dovrà presto passare per consentire ai burocrati di tornare a sedersi ai tavoli che contano.
E in fondo, le risorse finanziarie che il sistema immaginato dalla controriforma mette in campo potrebbero far gola a molti.
È per questo che va considerato assolutamente prioritario l'impegno di tutti, dentro e fuori la Cgil, affinché essa si sottragga dal partecipare all'affare dopo averlo contrastato con un coraggio premiato dai milioni che hanno manifestato nella lunga stagione di lotta del 2002.
E sarebbe anzi necessario fare di più…
L'impegno della Cgil a riportare il merito delle questioni al centro del dibattito, e il coraggio di anteporre le condizioni di chi lavora al feticcio dell'unità sindacale ad ogni costo, devono diventare prassi costante dell'organizzazione, innervare l'azione del sindacato a tutti i livelli territoriali ed in tutte le categorie anziché limitarsi al livello nazionale e confederale.
È per questa ragione che tutto il movimento dovrebbe cogliere la centralità della vertenza che vede impegnati i metalmeccanici della Fiom, e che sfocerà in uno sciopero alla metà di ottobre.
La centralità della vertenza Fiom si giustifica in primo luogo con l'importanza dei tre temi posti al centro della sua piattaforma.
Salari: perché le retribuzioni italiane sono a un punto talmente basso da essere fonte di nuove povertà, anche tra chi lavora. È peraltro quest'ultimo, un tema che si connette direttamente al tema della democrazia e dei diritti, a cominciare dal diritto di sciopero, che in una situazione di salari bassissimi e inadeguati al costo della vita, rende l'esercizio dell'astensione dal lavoro un evento dal costo sociale pesantissimo per tantissimi lavoratori italiani.
Democrazia sindacale: chiedere che chi firma i contratti si confronti con i lavoratori prima della firma è una richiesta di democrazia non eludibile. La Fiom ha costruito la sua piattaforma nelle fabbriche, con chi lavora, modificando strada facendo alcuni elementi dell'ipotesi iniziale. È un percorso condivisibile che va rafforzato. Ma tutto il sistema delle relazioni sindacali, a cominciare dal modo in cui si eleggono le Rsu, è un sistema che presenta ampissimi deficit di democrazia. Occorrerà pretendere un superamento da sinistra dell'accordo interconfederale del 23 luglio 1993 e pretendere un più stretto collegamento tra delegati e base.
Fermare la precarietà: la piattaforma Fiom contiene finalmente proposte per introdurre elementi di sana rigidità per le imprese nell'utilizzo della manodopera. Non si tratta soltanto di difendere le condizioni di chi lavora nell'industria. Paradossalmente si tratta proprio di salvare l'industria italiana dalla sua scomparsa, dalla tendenza del cialtronesco management nazionale di competere nel mercato globale attraverso la svalorizzazione di quello che resta l'elemento nevralgico di competitività: il lavoro umano.
Ma l'importanza della vertenza Fiom sta nel fatto che un esito positivo della stessa potrebbe smuovere molte cose dentro la Cgil, dando ragione a chi propone l'indisponibilità del più grande sindacato italiano a gestire le briciole della destrutturazione del mercato del lavoro.
Zone liberate dalla precarietà
Ed allora probabilmente quello che bisogna fare per inceppare il progetto neocorporativo, ora che il decreto attuativo è stato emanato e che l'occasione storica offerta dal referendum sull'articolo 18 è stata perduta, è proprio quello di creare “zone liberate dalla precarietà”, dove la controriforma Maroni semplicemente non si applica.
Più vasto sarà l'ambito di dissenso, più ampie saranno queste zone liberate.
La sfida, è ovvio, non riguarda solo la Cgil né tanto meno solo la Fiom.
Un ruolo importante deve saperlo giocare il movimento.
Non si sarà mai ribadito a sufficienza che il compito grande che il movimento ha davanti sta nella capacità di cogliere i nessi profondi che esistono tra guerra e neoliberismo.
Questi nessi assumono ovunque una caratterizzazione micidiale nella destrutturazione dei diritti dei lavoratori e nel conseguente peggioramento delle condizioni di chi lavora.
Saper cogliere la centralità delle questioni del lavoro è un passaggio che è necessario maturi rapidamente nella coscienza collettiva di quello che chiamiamo movimento dei movimenti.
Uno stimolo alla liberazione di spazi può senza dubbio venire anche da lì.
Infine, a livello più strettamente politico, ci si dovrebbe aspettare che l'opposizione al Governo Berlusconi guadagni l'intransigenza alle sue politiche liberiste, e dichiari da subito che nel momento in cui da opposizione diventi Governo, si impegna a cancellare gli effetti di tali politiche.
È quest'ultimo l'unico modo per costruire su basi solide un rapporto con il movimento che prepari la sconfitta delle destre.
…Senza se e senza ma.