2003 d. C.: la crisi della scuola pubblica alla periferia dell'impero
di Michele Renna*

Encolpio, giovane ma scaltro protagonista del Satyricon di Petronio, rivolgendosi al maestro di retorica Agamennone all’inizio dell’ampio frammento pervenutoci, lancia i suoi dardi avvelenati contro quell’insegnamento impartito nelle scuole dell’impero romano del I sec. d.C.. Sono passati da allora circa duemila anni, la storia dell’Occidente, ben lungi dal seguire un percorso lineare e progressivo, ha compiuto e continua a compiere molti passi in avanti ma anche, con salti mortali avvitamenti e piroette, taluni clamorosi balzi all’indietro; la scuola è ormai diventata un fenomeno di massa anche ai livelli più alti, ma la critica contro di essa è rimasta pressoché immutata arricchendosi anzi, nel nostro tempo, di toni molto aspri e di aperta polemica, quando non addirittura di critica violenta e di denigrazione.
Le critiche sono così numerose che è arduo già il solo cercare di farne un elenco che risponda a qualche criterio di razionalità, tuttavia bisogna scendere agli inferi e calarsi in questo mare di fango per vedere di riuscire, se non proprio a trovare un antidoto, per lo meno a capire da quale direzione provengano i dardi avvelenati, per avere una maggiore consapevolezza di quali siano i reali doveri etici e professionali che il lavoro di docenti ci chiama a svolgere e quali invece quelli presunti che la società ci vuole più o meno subdolamente attribuire, per poi accusarci pubblicamente di inadeguatezza nel momento in cui tali aspettative vengano in toto o in parte disilluse.
Basta leggere saggi e giornali, ascoltare più o meno dotte e competenti disquisizioni televisive o radiofoniche sui mali della scuola pubblica ad opera di più o meno autorevoli sociologi, uomini di chiesa, psicologi, giù giù fino ai meno ferrati in materia scolastica - tra i quali indubbiamente spiccano per fantasiosa creatività, quando non per assoluta incompetenza, ministri e commissioni ministeriali di vario colore - per assistere a quello che dopo il calcio si configura come un vero sport nazionale: sparare a zero sul sistema di istruzione pubblica ed in particolare sui docenti. E’ appena il caso di ricordare a quei pochi che non partecipano a questo tiro al piccione che, se i giovani sono in crisi, se passano ore davanti a tv e computer e a spedire sms, se bruciano le loro migliori energie tra sesso droga e rock’n’roll, se spezzano le loro promesse di vita schiantandosi con i loro bolidi sulle strade il sabato notte, se si suicidano o uccidono i genitori perché non approvano una relazione o perché non gli danno la paghetta settimanale, ebbene se questo e altro ancora accade, ha un solo responsabile: la scuola. E’ ovvio, perché coloro che sono quotidianamente a contatto con le delicate e fragili menti degli adolescenti, in virtù di tale “contatto” quotidiano, devono essere in grado non solo di curare, ma addirittura di prevenire tutte le manifestazioni di quel male di vivere che è uno dei tratti inconfondibili della condizione umana - di quella contemporanea in particolare - ma che ovviamente in una fase delicatissima e di passaggio come l’adolescenza assume una rilevanza del tutto particolare. A domande cruciali del tipo: “Cosa ci faccio io qua? Qual è il mio ruolo in questa società? Qual è il senso della mia vita?” si vorrebbe che la scuola in generale o qualche novello messia, sotto le mentite spoglie di un povero docente, fosse in grado di dare una risposta. A questi interrogativi giovanili ma non solo (a meno che non ci si senta paghi delle varie promesse escatologiche), ognuno è chiamato a dare una risposta per il solo fatto di essere venuto al mondo; la scuola – e per scuola intendo ovviamente una scuola pubblica e laica - può e deve certamente, con i suoi mezzi e le sue risorse, aiutare i giovani a trovare una risposta ma, ahimè, non può fornirgliene nessuna già pronta e impacchettata, poiché ciascun individuo che voglia diventare artefice libero e responsabile delle proprie scelte deve trovare da solo il proprio percorso di vita, a volte anche sbagliando e ripercorrendo a ritroso il cammino già fatto. Naturalmente i giovani fanno anche molte altre cose, e positive (rispetto a quelle su citate), ma di ciò la scuola, chissà perché, non è mai ritenuta responsabile, anche quando opera in situazioni di degrado ed emarginazione sociale.

La scuola ostaggio della tecnologia e del mercato
La risposta di senso che la scuola contribuisce a dare a quegli interrogativi è fondamentale, direi insostituibile, se è messa in condizione di assolvere nel migliore dei modi al suo compito precipuo, che è quello di accompagnare i giovani nella loro crescita innanzitutto come persone, poi come cittadini ed infine anche come lavoratori. Oggi questa triade si è invertita innanzitutto perché si è ribaltato, nella civiltà occidentale, il rapporto tra l’uomo e la tecnica - che da mezzo è diventata fine dell’esistenza - e poi perché il sistema capitalistico non ha bisogno di individui creativi e pensanti, se non in misura molto ridotta, ma di produttori-consumatori, vittime e carnefici di se stessi, e si vorrebbe che la scuola fosse innanzitutto un viatico per il mondo del lavoro; si tende anzi a valutare sempre più la qualità dell’istruzione proprio in base alle conoscenze ed alle abilità che riesce a sviluppare in funzione degli obiettivi di mercato.
Per realizzare il suo arduo compito una scuola che funzioni dovrebbe innanzitutto aiutare i giovani ad avere memoria storica del passato, guidarli attraverso questa alla comprensione del presente ed infine promuovere le loro capacità di progettare e realizzare la società futura. Inutile dire che più si riduce la memoria del passato, più diminuisce la capacità di comprendere il presente e, come inevitabile e triste conseguenza, anche la capacità di immaginare un mondo diverso; ma è esattamente quanto sta accadendo nella nostra società, poco rispettosa della memoria storica e fortemente schiacciata sul presente e sulle promesse di futuro insite nel progresso. Anche la scuola pubblica ha intrapreso questa via, basti pensare alla riforma dei programmi di Storia voluta da Berlinguer, oppure basti ascoltare quanto affermano riformatori – forse molto esperti di mercato, ma molto ignoranti del resto - che scommettono tutto sul potenziamento degli insegnamenti di informatica e di inglese. Anche nella sua struttura organizzativa e funzionale la scuola tende sempre più ad assumere i tratti di un’azienda, a cominciare dai termini entrati ormai nell’uso comune: gli studenti sono diventati gli utenti, le scelte didattiche diventano offerte formative, si conteggiano crediti e debiti, e via discorrendo. La cosa curiosa è che il modello aziendale taylor/ fordista/fayolista, cui in parte si ispirano i riformatori dell’ultima ora, viene corretto, quando non abbandonato, dalle stesse aziende, per il riconoscimento della complessità e dell’importanza del fattore umano anche nelle mansioni più semplici.

La legge della domanda e dell’offerta vale anche per il mondo della scuola
Un’altra questione, a mio avviso poco considerata ma che pesa molto nel declino della scuola pubblica è di natura brutalmente numerica. Gli insegnanti, soprattutto precari, sono sempre più numerosi sul mercato (sorge il dubbio che ciò sia voluto) a fronte di una contrazione progressiva del numero degli studenti. Questo fa sì che mentre il “valore di mercato” dei primi tende continuamente ed inesorabilmente a scendere, con una crescita salariale ridicola ed offensiva della dignità di qualsiasi lavoratore, il “valore di mercato” dei secondi è invece inevitabilmente in crescita; ciò produce alcune conseguenze: da un lato una scuola orientata a rendere sempre più allettante la sua “offerta formativa” (anche a costo di smarrire la sua funzione primaria) e a mettere sempre più al centro di tutto le esigenze e i desiderata delle famiglie e degli studenti; dall’altro il progressivo esautoramento dei docenti sempre più ostaggio di presidi e studenti: si evita ad esempio, in barba ad ogni etica e dignità professionale oltre che ad ogni minimo senso di giustizia, di assegnare debiti formativi a studenti che hanno fatto scena muta per tutto l’anno, nel timore che cambiando scuola possano mettere in pericolo la formazione della classe per l’anno successivo. Quale ricaduta abbiano poi tali decisioni sul resto della classe, è facile immaginare.

La formazione e il reclutamento degli insegnanti
Una delle critiche che più spesso vengono fatte ai docenti riguarda l’abbassamento, reale o presunto, del loro livello di preparazione; la cosa assai singolare è che a muovere tale critica è principalmente quel mondo accademico alle cui cure dovrebbe essere affidata la preparazione dei futuri insegnanti. Il fatto è, sarà bene chiarirlo in modo molto esplicito e forte, che la preparazione universitaria, che pure dovrebbe essere professionalizzante, non ha mai preparato, né lo fa ora, un giovane laureato in lettere o matematica o giurisprudenza, ad affrontare la difficile e sempre più complessa professione di docente.
Le SSIS (Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario) istituite da qualche anno nascevano, oltre che per rimpinguare le sempre più esangui casse delle Università, anche dal bisogno, legittimo, di colmare questa lacuna nella formazione universitaria ma, a dire di chi le frequenta, sono nella migliore delle ipotesi un approfondimento, spesso una ripetizione ed un prolungamento degli studi universitari. Mi sembrano molto opportune, a questo proposito, le parole di una giovane laureata in Medicina: “La professione del medico non si può apprendere da un libro, ci viene insegnata dal paziente, al suo letto, giorno dopo giorno. L’unico modo per imparare è stare in corsia, assimilando l’esperienza di chi ci lavora da più tempo di noi” (Giulia Daghia, Medicina. La necessità del numero chiuso, in la Repubblica del 31 luglio 2003, p. 14). Per la preparazione dei futuri docenti si sostiene invece l’idea che l’esperienza valga molto meno della teoria, al punto da regalare ai diligenti studenti delle SSIS un bonus di trenta punti con i quali superano in graduatoria colleghi con 4 -5 anni di insegnamento alle spalle, con l’effetto solo di calpestare diritti acquisiti e di alimentare una indecente guerra tra poveri. Mi piacerebbe sapere se chi ha escogitato questa finezza e chi ne sostiene la validità si farebbe operare, che so, di appendicectomia - giusto per non andare sul pesante - da chi ha studiato dieci anni sui libri e non ha mai toccato un bisturi, oppure da chi ha studiato cinque anni ma ha prima assistito e poi partecipato a numerosi interventi; non so loro cosa sceglierebbero ma io, con tutto il cuore, gli augurerei la prima ipotesi. Tra la pura accademia, inutile nelle scuole, ed il vuoto didatticismo imperante negli ultimi anni, un’alternativa ci dovrebbe pur essere, ed in effetti c’è, ma è del tutto o quasi ignorata: basterebbe valorizzare e mettere a frutto l’enorme bagaglio di esperienza che i colleghi con più anni di servizio hanno accumulato e dare loro la possibilità di trasmetterlo ai più giovani, per dare a questi ultimi la possibilità di imparare prima e sbagliare meno.
Non entro qui nella questione - ormai diventata un groviglio inestricabile di leggi, decreti e circolari ministeriali che asseriscono tutto e il contrario di tutto - del reclutamento degli insegnanti; significherebbe tracciare un lungo elenco di profonde ingiustizie perpetrate da un manipolo di incompetenti in mala fede aventi l’unico scopo di salvare le poltrone loro e dei loro clienti. Basterà qui solo dire che mai come negli ultimi due o tre anni si è assistito ad un vero e proprio scempio dei diritti, oltre che della dignità umana e professionale, di migliaia di lavoratori, attraverso il continuo cambio delle regole del gioco a partita già iniziata e solo in un’ottica che, molto limpidamente e senza mezzi termini, punta al pieno smantellamento della scuola pubblica. Mi dispiace dover sottolineare che ciò che per molti di noi è ormai chiaro da anni, all’onorevole Fassino, in una dichiarazione pubblica di tre o quattro mesi fa, risulti essere solo “un subdolo attacco alla scuola pubblica”, a testimonianza di quanto sia corto il fiato della nostra classe politica, quella che dovrebbe costituire una valida opposizione all’attuale governo, su argomenti così cruciali e di così ampio respiro. Ometto qualsiasi considerazione sui sindacati confederali perché sono stati in tutta questa vicenda pressoché assenti, quando non addirittura controproducenti.
Non parliamo nemmeno di cosa potrebbe poi accadere se si arrivasse, come qualcuno auspica – ma lo prevedeva già la riforma Berlinguer - alla nomina diretta dei docenti da parte dei presidi.

L’ “antidoto” berligueriano e quello morattiano
Alla crisi della scuola la riforma Berlinguer ha cercato di porre rimedio colmando il più possibile il distacco con il “reale”, con dosi massicce di internet e inglese e con una miriade di progetti tale da far impallidire i navigati animatori dei villaggi turistici più alla moda. Una conseguenza di ciò è che le scuole, pur di accaparrarsi il maggior numero di studenti e garantirsi così la sopravvivenza, cercano di rendere più accattivante la propria vetrina facendosi concorrenza tra loro, alla pari di qualsiasi azienda nel libero mercato.
E’ ben nota l’idea di questo governo e del ministro Moratti secondo cui la scuola, per poter essere efficiente, deve assumere il più possibile i tratti di un’azienda, e anche se rimane ancora un po’ oscuro il tipo di prodotto che si vorrebbe producessero le maestranze all’interno degli opifici chiamati scuole, una cosa però è chiara: che il migliore prodotto possibile deve essere realizzato con le minori spese possibili. Va da sé che disinvestire sulla scuola pubblica a beneficio di quella privata, aumentare il numero degli alunni per classe, portare a 18 le ore effettive di ciascuna cattedra a discapito della continuità didattica, svuotare di ogni significato l’esame di Stato finale con l’istituzione di commissioni totalmente interne (caso unico in Europa), precarizzare a vita migliaia di lavoratori della scuola mostrando sprezzo e indifferenza per la loro dignità umana e professionale, possono sicuramente far risparmiare qualche euro, ma lungi dall’apparire riforme migliorative della qualità dell’istruzione pubblica, sono invece una garanzia per il suo totale e definitivo tracollo.

L’antidoto agli antidoti
Un paio di cose devono essere chiare, innanzitutto che in un mondo complesso e articolato come quello della scuola non si può attuare nessun cambiamento dall’alto senza tener conto dell’esperienza e della professionalità di quanti in quel mondo vivono e operano quotidianamente, pena il sicuro fallimento di qualsiasi tentativo di riforma, quali che siano i suoi fondamenti teorici e i suoi presupposti politici; in secondo luogo non si può accusare la scuola di ogni sorta di inadempienze in una società che nel totale asservimento al denaro ed alla tecnologia, oltre che nell’assoluta mancanza di rispetto delle regole, celebra ogni giorno il suo vuoto di valori e la sua ipocrisia.
Rispetto a questo mondo di “valori” la scuola può e deve ancora svolgere un’efficace azione di contrasto e di resistenza umana, almeno fino a quando chi vi lavora avrà come obiettivo ultimo la formazione dell’uomo e del cittadino; ma per funzionare ha bisogno che la società tutta non faccia solo critiche, più o meno fondate, ma creda ed investa in essa, oltre che di una classe politica che sappia gestire i cambiamenti e sia in grado di proporre nuovi modelli, operando scelte che, lungi dall’imitare i fallimentari sistemi scolastici anglosassoni, servano a valorizzare il nostro patrimonio culturale e ci facciano sentire cittadini del mondo, non sudditi dell’impero. Quanto ciò sia avvenuto in passato e avvenga oggi, è sotto gli occhi di tutti

* Docente precario di Latino e Greco nei Licei.


Ritengo che per questo gli studenti nelle scuole rimbecilliscano completamente, poiché non odono né vedono nulla di ciò che solitamente facciamo nella vita reale.
PETRONIO, Satyricon, 1,3

settembre - dicembre 2003