Un po' di possibile, sennò soffoco
di Ilia Binetti

La sterile quotidianità che ci lascia legati al contingente di cui non comprendiamo che una sottile striscia superficiale, ci aliena dalla immersione nel mondo 'vero', vale a dire in ciò che 'vediamo' e 'sentiamo'. La sottomissione totale ad un potere costituito che si arroga il diritto di controllare anche le sensazioni, ci allontana sistematicamente dalla vita, la 'vita vera', quella che ci lascia in ascolto del mondo, che ci fa cogliere segni provenienti da un 'fuori' che ci appartiene, e che ci spinge alle novità, al cambiamento. Permettendoci di varcare gli steccati dell'orizzonte storico nel quale ci collochiamo, questa 'apertura' rende il presente un'approssimazione nel rapporto tra il 'territorio' e la 'terra'.
'Re-impossessarsi' del mondo significa poter cogliere gli eventi che, oltre il contingente, consentono, sia pure per un attimo, la creazione di qualche cosa, foss'anche una vibrazione, capace di esprimere la differenza, di produrre una resistenza: afferrare elementi da un 'altrove' per combinarli con il già dato, crea lo scossone necessario al movimento.
Il divenire così si distingue dalla storia, in essa nasce e ritorna, ad essa si oppone, e diviene un affare della filosofia. E il pensiero crea delle crepe, si apre a nuove 'terre', capta le 'ecceità' e, in incessante movimento, si fa produttivo. Deleuze dice: "Si arriva sempre nel mezzo di qualche cosa, non si crea che nel mezzo, dando nuove direzioni o biforcazioni a linee preesistenti." (G. Deleuze, Divenire molteplice, p.114). Ogni evento, espressione di creatività, va coltivato per ovviare alla sterile quotidianità che ci aliena l'esistenza, ricercando nell'unione dell'uomo col mondo, nell'amore, nella 'vita', la 'possibile' alternativa a questo 'presente' intollerabile. L'amore, la morte, la solidarietà, la partecipazione, ecc. quando sono privati della loro potenza, perdono la carica emozionale e si svuotano. Si crea in questo modo una frattura con le emozioni che preclude all'uomo la possibilità di 'divenire', relegandolo alla sopravvivenza. La lotta per un diverso modo di esistenza ha bisogno di recuperare, dunque, una dimensione 'molteplice' della vita, la sola capace di captare il flusso ininterrotto di intensità che la sottende. L'azione svolta dalla tecnologia utilizzata come controllo sempre più capillare sulle singolarità, al contrario spegne la creatività per dominare degli automi.
Le ragioni plurali dell'esistenza, però, vanno sottratte al potere del giudizio che le mortifica, operando quella differenza tra i diversi modi di rapportarsi al mondo, foriera di immensi problemi di convivenza. "Noi non dobbiamo giudicare gli altri esistenti, ma sentire se ci convengono o ci sconvengono, ossia se ci apportano delle forze oppure ci rimandano alle miserie della guerra, alle povertà del sogno, ai rigori dell'organizzazione". (G. Deleuze, Per farla finita con il giudizio, p.176)
E' ciò che Deleuze definisce 'etica dell'immanenza', cioè orientarsi perché la vita si estrinsechi in positivo, coltivando la gioia attraverso l'azione, la commozione, gli affetti: non preservare la vita, ma viverla, esprimendola al massimo grado in sintonia con la 'terra'. Solo in questa dimensione è possibile cogliere il 'sublime' in ogni piccolo evento, foss'anche una gemma che si schiude all'arrivo della primavera. Abbiamo bisogno di recepire accanto al conformismo, la 'creatività' che è espressa come 'eccedente' anche nell'insignificante, ma tale da favorire gli incontri, gli avvenimenti, tutti i segni portatori di cambiamento.
Non fermarsi alla cosa in sé, ma 'sentire' la vita che si manifesta, apre tutto l'essere al soffio vitale che collega la 'terra' al 'territorio' e favorisce movimenti sovra-storici, 'intempestivi', capaci di grandi creazioni: solo dal 'caos geniale' di un disordine creatore, irriducibile a qualsiasi ordine, discendono configurazioni storiche prodotte dall'azione di territorializzazione di quelle spinte. "Il nuovo ... è sempre l'inatteso, ma anche ciò che diventa immediatamente eterno e necessario" (G. Deleuze, Divenire molteplice, p.115)
'Individuazioni impersonali' chiama Nietzsche le unità non racchiuse in un io, che esprimono forme di non integrazione, forme di rifiuto sfuggevoli, 'intempestive', che spiazzano le forze repressive. Cogliere ed esprimere la corrente di energia, il flusso di forze che, attualizzandosi, danno un nuovo senso, rende rivoluzionari. "... il problema rivoluzionario sta nel ritrovare un'unità delle lotte senza ricadere nell'organizzazione dispotica e burocratica del partito o dell'apparato di Stato, una unità nomadica in rapporto con il fuori, che non rinvii all'unità dispotica interna". (op. cit., p.40)
Ciò che si produce è un nuovo modo, alternativo, di vedere la risoluzione dei problemi, avendone cambiato la natura. "Prendiamo l'esempio della luce. Alcuni hanno posto il problema della luce in rapporto alle tenebre, e certamente lo hanno fatto in vario modo ... questo tipo d'immagine luce-tenebre rimanda ad un concetto filosofico, ad un'immagine del pensiero: quella di una lotta o di un conflitto tra il bene e il male. Va da sé che il problema cambia se ... (si) pensa la luce nei suoi rapporti col bianco e non più con le tenebre. ... Esso non avrà meno durezza e persino crudeltà, ma tutto sarà luce. Semplicemente vi saranno due luci, quella del sole e quella della luna. E concettualmente, è il tema dell'alternanza e dell'alternativa che sostituisce quello della lotta e del conflitto. Sarà un "nuovo" modo di trattare la luce, ... perché la natura del problema sarà cambiata. (op. cit., p.115-116)
Nietzsche distingue gli 'uomini superiori' dal 'super-uomo', cioè coloro i quali sono solo capaci di travestirsi, i 'deboli', gli 'schiavi' del loro modo di essere e di 'vedere', i quali esprimono la potenza con il 'voler-prendere', il 'voler-dominare', da colui che diviene vivendo una vita creativa e 'zampillante' perché attraverso il dare e il creare esprime la forma intensiva della volontà di potenza. E' il liberare la 'forma superiore' di tutto ciò che è, la 'forma di intensità' di cui parla Deleuze, che rende possibile il divenire nella molteplicità delle forme.
Diceva Foucault: "Un giorno, forse, il secolo sarà deleuzeano". Il desiderio, nell'accezione del pensiero di Deleuze, non è naturale o spontaneo, o mancanza, ma processo, ecceità, evento che si muove in un campo di immanenza o 'corpo senza organi' che è agente di deterritorializzazioni. Il desiderio nel suo ruolo primario di coniugare e dissociare i flussi, è una 'macchina da guerra desiderante' (altra cosa rispetto all'apparato di stato, alle istituzioni militari e ai dispositivi di potere) che si muove in un campo di immanenza collettivo nel quale si costituiscono i concatenamenti, quando le intensità, captate le linee di fuga, si esprimono. Una società è pervasa da linee di fuga che ne costituiscono il 'rizoma' e la 'cartografia', i concatenamenti che si producono nel campo sociale sono opera del desiderio che deterritorializza e territorializza. Questi concatenamenti non sono necessariamente rivoluzionari, ma è il concepire la presenza stessa della 'macchina desiderante' che è rivoluzionario, perché creativo. Le forme di potere tendono in ogni caso ad impossessarsi di questi concatenamenti, per poterne gestire il controllo.
L'unità di riferimento non è l'identità, ma le 'individuazioni impersonali', come le definiva Nietzsche, attraverso le quali si possono individuare le diverse forme di non integrazione e di resistenza a tutto ciò che è necessario al mercato per continuare ad esistere per sé. "In ogni novità c'è conformismo e creatività ... qualcosa di conforme all'epoca ma anche qualcosa di intempestivo". (op. cit., p.53) Ragion per cui ogni manifestazione anche all'apparenza insignificante, ha una sua vitalità, è un segnale di spaccatura.
"Il problema attuale della rivoluzione, di una rivoluzione senza burocrazia, sarà quello di nuovi rapporti sociali in cui entrano le singolarità, le minoranze attive, nello spazio nomade senza proprietà e recinti". (op. cit., p.91)
Allora le spinte, le forze non devono farsi sopraffare da un potere che aridamente sopprime ciò che non può essere contemplato nell'impietoso meccanismo del mercato che si traduce in rapporti quantitativi, dominati solo dalla dimensione del denaro. La ricchezza insita nell'estrinsecazione delle componenti vitali che si stratificano in multiformi strutture suscettibili di altrettanti cambiamenti, soggiace ad ogni attività interpretativa e continua incessantemente il suo inarrestabile percorso. Ma ciò che non è reso manifesto, non è per questo inesistente "la razza votata all'arte o alla filosofia non è quella che si pretende pura, ma quella oppressa, bastarda, inferiore, anarchica, nomade, irrimediabilmente minore". "Un popolo può crearsi solo attraverso sofferenze abominevoli e non può nemmeno occuparsi d'arte o di filosofia. ... Essi hanno in comune il fatto di resistere, resistere alla morte, alla schiavitù, all'intollerabile, alla vergogna, al presente". (G. Deleuze, F. Guattari, Che cos'è la filosofia, p.103-104)
La 'miseria della vita' che ci avvolge non appartiene all'ambito della soddisfazione dei bisogni primari, ma ci coinvolge in quanto contesto che è stato privato di orizzonti significativi capaci di fornire stimoli all'elaborazione di mondi alternativi: "un po' di possibile, sennò soffoco". L'appiattimento dello spessore esistenziale su un unico codice, sottomesso alla legge dell'avere, impoverisce la vita nel momento stesso in cui lascia passare il messaggio della necessità del raggiungimento immediato della soddisfazione dei 'propri bisogni', (considerando bisogno tutto il superfluo che ci sommerge e somministrandolo come l'espressione della pluralità dell'esistenza). Un profondo senso di disagio prima, di smarrimento e di vergogna poi, pervade la nostra presenza nel mondo, nella consapevolezza che la forza del controllo ad ogni costo per raggiungere un potere supremo tende a schiacciare con un rullo annientante la traccia lasciata sulla pagina della terra da una moltitudine che 'sente', 'vive' e estrinseca una diffusa voglia di 'vivere'. Dice Blanchot: "ci sono più intensità nella proposizione 'soffre' che in 'soffro'. Il tentativo del potere è quello di lasciare penetrare, seminandolo, tutto ciò che non è elaborato, tutto ciò che è assorbito supinamente, inconsapevolmente, restituendolo come 'naturale umana convivenza', come unica forma di esistenza in questo mondo, considerato il solo possibile.
"... la posta in gioco è ... la stessa esistenza fattizia dei popoli... la loro nuda vita. ... non resta altro, per un'umanità ridiventata animale, che la depoliticizzazione delle società umane, ... oppure l'assunzione della stessa vita biologica come compito politico (o piuttosto impolitico) supremo. ... Persino la pura e semplice deposizione di tutti i compiti storici (ridotti a semplici funzioni di polizia interna o internazionale) in nome del trionfo dell'economia, assume oggi spesso un'enfasi in cui la stessa vita naturale e il suo benessere sembrano presentarsi come l'ultimo compito storico dell'umanità - ammesso che abbia senso parlare qui di un 'compito'. ... il solo compito che sembra ancora conservare qualche serietà è la presa in carico e la 'gestione integrale' della vita biologica, cioè della stessa animalità dell'uomo. Genoma, economia globale, ideologia umanitaria sono le tre facce solidali di questo processo in cui l'umanità poststorica sembra assumere la sua stessa fisiologia come ultimo e impolitico mandato. ... né è chiaro se il benessere di una vita che non si sa più riconoscere come umana o animale possa essere sentito come appagante. ... L'umanizzazione integrale dell'animale coincide con una animalizzazione integrale dell'uomo". (G. Agamben, L'aperto, p.79-80)
La società occidentale ha venduto l'idea del raggiungimento della felicità attraverso l'economia e la tecnologia, non ha però fatto i conti, suo malgrado, con la qualità che non soccombe e non si lascia facilmente sotterrare sotto una coltre di quantità, fino a sparire. Il legame uomo-mondo non è stato ancora distrutto.

maggio - agosto 2003