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] Le tre riforme della previdenza pubblica degli ultimi 10 anni hanno portato a tagli drastici delle pensioni. Tutte le categorie di fatto sono colpite: addirittura per i dipendenti con un buon percorso di carriera, o per i lavoratori autonomi, la pensione sarà meno del 30% del valore dell'ultimo stipendio. E' necessario, quindi, pensare a delle soluzioni che possano permettere di mantenere un tenore di vita in linea con le proprie aspettative. [
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Globalizzazione e crisi del Welfare
Quando all'inizio di febbraio il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha presentato ai cittadini italiani il Libro bianco sul Welfare. Proposte per una società dinamica e solidale, le cronache parlamentari hanno riferito della commozione esternata, per l'occasione, dal ministro Maroni in persona.
In questo breve intervento tenteremo di capire se ci sono motivi per associarsi a quelle lacrime di commozione, o se non occorra invece prepararsi a versarne altre di dolore. Nella Prefazione al testo, la necessità di riformare il sistema di Welfare italiano viene presentata come una conseguenza dei processi di globalizzazione: "Il modello tradizionale di Welfare State ha prodotto sviluppo economico e coesione sociale all'interno di mercati aperti, caratterizzati però da forte controllo nazionale. Un modello in crisi irreversibile soprattutto a causa della spesa sociale fuori controllo e della sempre più spinta mondializzazione dei mercati". Gli estensori del documento ministeriale sembrano, così, sposare le tesi di quelli che Anthony Mcgrew chiama gli "iperglobalisti", cioè di coloro che, rispetto all'affermazione di una economia mondiale, sanciscono, come fa John Gray, la fine del Welfare State e della democrazia sociale dell'epoca dello stato-nazione. In realtà il Welfare State è stato uno dei pilastri su cui si è retta quella che Samir Amin chiama la "globalizzazione controllata e coerente" del secondo dopoguerra, che non ha mai inteso smantellare le costruzioni nazionali, tentandone, al contrario, il rafforzamento e l'interdipendenza. Nel modello tradizionale di Welfare State, il compromesso storico stipulato fra capitale e lavoro puntava, infatti, a garantire all'espansione capitalistica una significativa stabilità. Oggi, le grandi multinazionali operanti in ambiti sopranazionali, anche se desiderano muoversi in contesti caratterizzati da stabilità, ritengono di non avere più bisogno di compromessi del genere. Esse sono, infatti, in condizione di distribuire lavoro là dove ci sono costi convenienti, di pagare le tasse dove esiste maggiore convenienza fiscale, hanno insomma la possibilità di dislocare ai "quattro angoli" del pianeta la loro sede di residenza, il domicilio fiscale, il luogo di produzione e quello di investimento. Questa assoluta libertà di movimento non deve essere intralciata dall'intervento dei governi nazionali. Il naufragato Accordo Multilaterale sugli Investimenti [MAI] - caldeggiato come testo fondamentale dell'economia globale unificata, alla fine dell'aprile del 1998, dall'allora segretario generale del WTO e futuro ministro degli esteri del governo Berlusconi, Renato Ruggiero - concedeva, ad esempio, alle multinazionali la possibilità di investire nei paesi firmatari senza restrizioni di natura sociale o ambientale, e le autorizzava, addirittura, a citare in giudizio, con possibilità di indennizzo, i governi che avessero ostacolato o compromesso i loro investimenti finanziari. In questo ampio programma di libertà d'azione del capitale e di ridimensionamento delle prerogative dello stato-nazione è evidente che non possono esserci risorse per il modello tradizionale di Welfare, destinato, pertanto, ad essere smantellato, o "riformato" per usare l'espressione cara all'attuale governo e anche a tanti esponenti di quello passato.
È evidente che gli stati-nazione, costretti ad offrire trattamenti fiscali allettanti allo scopo di attrarre capitali, non dispongono più di risorse adeguate per garantire forme efficienti di protezione sociale: "Da qui - scrive Barbara Henry - nascono le crescenti difficoltà per il finanziamento di sistemi di Welfare nazionali nei paesi democratici avanzati, che si manifestano indipendentemente da valutazioni circa la necessaria ristrutturazione o ridimensionamento di tali sistemi per il raggiungimento di livelli di efficienza".
La crisi del principio della "imposizione fiscale", che è la crisi di quello che può essere riconosciuto come il principio d'autorità dello stato-nazione, è, come spiega Dimitri D'Andrea, l'espressione più significativa dell'intreccio esistente fra la dimensione sociale della crisi del Welfare e quella territoriale: "Competizione fra territori significa non soltanto dimagrimento del Welfare, ma anche riduzione drastica delle funzioni perequative e ridistributive fra territori all'interno dello stato e richiesta-pretesa da parte delle regioni ricche di recidere i legami di solidarietà territoriale con le regioni più povere. [
] La ricchezza prodotta deve rimanere nei luoghi fisici e sociali in cui viene prodotta[
]". Non a caso, nel testo che ha commosso Maroni, sempre nella Prefazione, si può leggere: "Proprio a causa dei vincoli originati dalla concorrenza, oggi non è possibile pensare di perseguire la giustizia sociale limitandosi a trasferire ricchezze dai settori o dalle aree a più alta produttività verso quelli meno produttivi. Per il semplice motivo che i primi, per continuare ad esistere, hanno bisogno di reinvestire il proprio surplus economico o quantomeno di conservarlo per il futuro". Gli abitanti di aree a bassa produttività hanno poche ragioni per essere commossi! La globalizzazione investe, così, in modo devastante il lavoro, sempre più scarso e precario, e allo stesso tempo le garanzie sociali ad esso connesse: "L'esasperazione della competizione globale - scrive D'Andrea - si traduce nei singoli paesi non soltanto nella tendenziale riduzione del lavoro salariato e dell'occupazione stabile e garantita, ma anche nella progressiva erosione della "sicurezza" sociale connessa alla condizione di lavoro e, più in generale, nel venir meno delle solidarietà sociali garantite dal Welfare State in Occidente". Ciò che, tuttavia, resta da chiarire è quanto dalla riduzione del Welfare, motivata dalla necessità di liberare risorse economiche utili a finanziare la competitività del sistema produttivo, hanno da guadagnare imprese private alle quali vengono offerte straordinarie opportunità di profitto in settori di mercato garantiti.
La riforma/smantellamento del Welfare State costituisce, infatti, un aspetto fondamentale della costruzione di un Profit State, cioè di uno Stato-impresa sensibile unicamente ai dettami del mercato mondiale. In Italia questa riforma/smantellamento tocca immediatamente la questione delle pensioni, dal momento che ad esse è indirizzato il 65% della spesa sociale e quasi il 16% del PIL. La "riforma" delle pensioni in Italia
L'Italia è chiamata ad attuare anche sul sistema pensionistico le direttive elaborate sul piano globale dalle istituzioni del neoliberismo.
Già dal 1994 la Banca Mondiale, nel suo rapporto Averting the Old Age Crisis: Policies to Protect the Old and Promote Growth (Prevenire la crisi di invecchiamento: politiche per la protezione degli anziani e per la promozione dello sviluppo) invitava a sviluppare il sistema pensionistico lungo tre direttrici: (a) il sistema pubblico a ripartizione, fondato cioè sul pagamento delle pensioni attraverso gli oneri sociali versati dai lavoratori in attività e destinato a garantire un livello minimo di pensione; (b) il sistema privato a capitalizzazione, caratterizzato dall'accantonamento da parte del lavoratore di contributi che vengono affidati a fondi pensione, cioè a gestori impegnati ad amministrali e a rivalutarli, per consentire al lavoratore un rendimento di cui potrà godere al momento del pensionamento; (c) il sistema privato a capitalizzazione, facoltativo rispetto alla obbligatorietà che caratterizza i primi due, consistente in accantonamenti ulteriori di natura volontaria.
Le ricette della Banca Mondiale assumono come giustificazione la "crisi demografica": la contrazione delle nascite comporta una riduzione del numero di coloro che possono versare contributi per la corresponsione delle pensioni e, al contempo, l'allungamento della vita media fa aumentare il numero di coloro che hanno diritto a ricevere una pensione.
Sulla base di questi ragionamenti sono state sviluppate svariate e "creative" proposte volte ad abolire le pensioni di anzianità, a innalzare l'età pensionabile, a ridurre il rendimento delle pensioni allungando gli anni sui quali calcolare la retribuzione di riferimento, a bloccare temporaneamente i pensionamenti, a trasferire i soldi del TFR ai fondi pensione ecc. ecc..
Si tratta, tuttavia, di ragionamenti e proposte fondati su premesse del tutto inconsistenti. Come ha dimostrato efficacemente Giovanni Mazzetti in La controriforma delle pensioni. Dalla solidarietà all'antagonismo, le argomentazioni della Banca Mondiale non tengono conto, innanzitutto, del fatto che il rapporto non va stabilito fra pensioni e culle, ma fra i pensionati e quella moltitudine di forza-lavoro giovanile (14-29 anni) che non riesce ad entrare nella produzione; in secondo luogo, quelle argomentazioni sembrano incapaci di leggere un dato macroscopico e cioè che la diminuzione del numero dei lavoratori attivi è straordinariamente compensata dall'aumento della produttività del lavoro. Per quanto riguarda questo secondo aspetto, è opportuno ricordare che in Italia la produttività del lavoro è aumentata in misura maggiore rispetto all'incremento degli ultrasessantacinquenni. È, allora, evidente che l'aumento della produttività non ha determinato un aumento della forza-lavoro occupata e che, quindi, come sostiene Mazzetti "il problema di come debbano essere trattati i pensionati non è altro che un riflesso della difficoltà di garantire un lavoro a tutti coloro che potrebbero partecipare alla produzione". Risulta, in ogni caso, difficile pensare che agli economisti della Banca Mondiale e ai loro accoliti siano sfuggite le semplici osservazioni sviluppate da Mazzetti, a meno che gli obiettivi non siano altri e non siano associabili alla relazione esistente tra le politiche di ridimensionamento del Welfare e quelle di privatizzazione.
Si dovrebbe, quindi, considerare la "riforma delle pensioni" come una sorta di copertura di quella ampia strategia di privatizzazione che mira a far pagare sempre ai lavoratori, a quelli in attività attaccando il "salario diretto" e quelli in pensione attaccando il "salario differito", il rafforzamento delle rendite finanziarie.
A questo proposito non si insisterà mai abbastanza sul sistema dei "fondi-pensione".
Ancora una volta l'argomentazione basilare è offerta da Mazzetti: se il sistema a capitalizzazione dei fondi-pensione scaturisce dalla necessità di far fronte alla forte riduzione di "lavoratori attivi", allora "l'insieme degli anziani potrà anche avere accantonato un tesoro di proporzioni immani, ma sarà ciononostante condannato a non avere buona parte delle prestazioni di cui ha bisogno. Infatti, la prestazione non la dà il denaro, la dà il lavoro".
Accanto a queste considerazioni, che ancora una volta ci ricordano che la pensione è un "fatto sociale" e non privato, occorre tener presente che in nessun modo è possibile garantire con assoluta certezza che l'accantonamento odierno di una parte del reddito si trasformerà in un futuro potere economico.
Le risorse accantonate nei fondi-pensione, infatti, sono destinate ad entrare nella grande mole di capitale circolante alla ricerca di impieghi speculativi: ogni giorno nel mondo circolano 1.300 miliardi di dollari alla ricerca di un profitto e le prime dieci imprese impegnate in questa movimentazione di capitale non sono imprese industriali, ma finanziare giapponesi e americane. Nel 2001 in Italia sono stati scambiati titoli finanziari per un ammontare superiore di quasi cinque volte il PIL. Rispetto a questa finanziarizzazione dell'economia, il sistema dei fondi-pensione è destinato a scaricare sulle spalle del lavoratore l'intero rischio dell'ammontare definitivo della pensione: se le borse mondiali verseranno in una situazione di crisi, allora il risparmio del pensionato, investito in azioni, sarà bruciato.
Che non si tratti di una possibilità remota è dimostrato dalla frequenza delle crisi finanziarie dell'ultimo decennio: quella del sistema monetario europeo del 1992-93, quella messicana del 1994, quella dei mercati asiatici dell'autunno del 1997, quella russa dello stesso anno, quella dei fondi speculativi statunitensi del 1998, quella brasiliana del 1999, quella recente della Enron, che ha lasciato senza pensione 11.000 dipendenti i cui risparmi previdenziali erano investiti in azioni aziendali, passate dal valore di 83 dollari a quello di 67 centesimi, quella della Holding Maxwell che ha colpito in Inghilterra 50.000 futuri pensionati che da 18 anni versavano le loro quote e, in generale, quella dei piani pensionistici a prestazione definita di molte imprese inglesi, magistralmente descritta da Robin Blackburn. Introducendo il ricorso obbligatorio ai fondi-pensione, i globalisti nostrani al governo espongono i lavoratori agli effetti di devastanti crack finanziari proprio quando questi sono più vulnerabili, cioè quando non sono più in grado di svolgere un ruolo attivo sul "mercato del lavoro".
Accecati dal desiderio di garantire fette di mercato sicure ad imprese private di indole chiaramente predatoria, essi non si rendono conto del rischio che corrono promovendo comportamenti che potrebbero sfociare in un approfondimento di squilibri sociali. Boeri e Perotti, ad esempio, hanno efficacemente mostrato l'importanza che le pensioni hanno, mediante il canale dei trasferimenti interfamiliari, nella riduzione del rischio di povertà delle famiglie senza lavoro, soprattutto in una fase come quella attraversata dall'Italia nell'ultimo ventennio che ha visto un incremento di questa tipologia di rischio. L'ultimo rapporto dell'INPDAP sullo Stato Sociale riferisce, a questo proposito, che nel 2001 il 12% delle famiglie italiane versava in condizioni di "povertà relativa" (soglia fissata a 815 euro al mese per una famiglia di due persone) e il 4,2% di "povertà assoluta" (soglia fissata 560 euro mensili). Percentuali che, una volta disaggregate fra Nord e Sud, segnalano naturalmente nel Sud la maggiore concentrazione di povertà. Anche senza i problemi connessi alla tenuta dei fondi-pensione, già la proposta di una "decontribuzione per i nuovi assunti" è destinata a configurarsi come uno dei provvedimenti che maggiormente inciderà sulla diminuzione delle entrate e, quindi, determinerà un significativo ridimensionamento delle pensioni dei pensionati attuali e di quelli futuri. Colpisci, terrorizza, governa
Tre interventi istituzionali hanno, di recente, descritto lo stato del sistema previdenziale italiano. L'INPS, in un suo rapporto, ha comunicato che tra l'inizio del '99 e la fine del 2002 sono state liquidate 670.727 pensioni di anzianità, circa 36.733 in meno rispetto alle previsioni per il periodo Nel Secondo Rapporto Annuale sullo Stato Sociale prodotto dall'INPDAP il sistema previdenziale italiano è stato dichiarato in equilibrio. Il rapporto diffuso nel mese di marzo dalla Ragioneria Centrale dello Stato ha riconosciuto che la spesa italiana per pensioni e la sanità crescerà nella media europea e che la percentuale di spesa sociale rispetto al PIL sarà più bassa che negli altri paesi europei. Per quanto attiene all'ambito previdenziale, nello specifico, la Ragioneria calcola che il rapporto tra spesa pensionistica e PIL dopo essere cresciuto, nel periodo 2001-2033, dal 13,8% al 16%, decrescerà fino al 13,6% nel 2050. Questa stima del 13,6% diventa dell'11% se si scorporano le spese per le pensioni da quelle per l'assistenza, spese che vengono calcolate congiuntamente dalla Ragioneria. Nonostante i rapporti dell'INPS, dell'INPDAP, della Ragioneria dello Stato l'azione di governo sembra procedere spedita in direzione di quella che, da più parti, viene definita una "controriforma delle pensioni".
Sembrerebbe che alla classe politica al governo sfugga che le tanto celebrate opportunità offerte dalla globalizzazione dei mercati rischiano di essere vanificate in un contesto di forti squilibri sociali e che è la coesione sociale, non l'insicurezza diffusa, a garantire competitività o crescita economica. Chi governa, al contrario, sembra piuttosto interessato a giocare un gioco pericoloso anche se fino ad oggi ben riuscito: produrre insicurezza e sfruttarla per accreditarsi come "governo d'ordine", secondo la formula "Colpisci, terrorizza, governa".
Colpisci: "colpisci i diritti dei lavoratori creando condizioni di precarietà diffusa", per quanto riguarda le pensioni il colpo è ben descritto da Roberto Pizzuti, consigliere d'amministrazione INPDAP: "Con il sistema contributivo a regime e con i futuri coefficienti di trasformazione corrispondenti alle attese demografiche, il tasso di sostituzione (cioè il grado di copertura della pensione rispetto alla retribuzione che si percepiva) per un lavoratore dipendente con 35 annualità contributive sarà compreso fra il 45% e il 56% in base all'età di lavoro. Con il precedente sistema retributivo il tasso era del 67% indipendentemente dall'età di pensionamento. [
] Per un lavoratore con contratto di lavoro coordinato e continuativo (CoCoCo) sempre con 35 annualità contributive, il tasso di sostituzione oscillerà tra il 27% e il 34%". Terrorizza: "esalta, soprattutto attraverso i mezzi di comunicazione, le azioni delittuose commesse nel contesto urbano (vicolo, quartiere, villetta di periferia) da coloro che appartengono agli strati più bassi della popolazione, incapaci di sfruttare le presunte opportunità del lavoro flessibile (disoccupati, extracomunitari, tossicodipendenti, ecc. ecc.)".
Governa: "fai leva sulle preoccupazioni nutrite dai soggetti più deboli, come gli anziani, e soddisfa il loro bisogno di sicurezza aumentando le attività di polizia (incremento degli organici, tecnologie repressive, poliziotto di quartiere, ben riassunti nello slogan "Una finanziaria di sicurezza")".
Una simile azione di governo comporta la "spettacolarità" delle operazioni punitive, utilissima a "dirottare - come scrive Bauman - l'attenzione del pubblico sui pericoli dell'attività criminosa e dei criminali, impedendogli invece di riflettere sulle ragioni per cui ci si continua a sentire insicuri, persi e spaventati [
]". Spettacolarità garantita, soprattutto, dai processi a semplici ladri ed assassini, dal momento che i reati "al vertice", in generale, non colpiscono l'immaginazione di un pubblico sempre più disattento. Portare in giudizio i dirigenti responsabili del fallimento di una multinazionale, o di un sistema di fondi-pensione non allevia la sofferenza quotidiana determinata dallo scippo di una pensione appena riscossa in un ufficio postale, dal furto nel proprio appartamento, dal furto del ciclomotore o dell'auto familiare. Seguendo le straordinarie suggestioni offerte da Zygmunt Bauman nel suo volume Globalization. The Human Consequences, possiamo sostenere che fino a quando l'attenzione della maggioranza dei cittadini sarà concentrata sulla microcriminalità, non ci sarà da meravigliarsi se il derubare intere nazioni delle loro risorse continuerà a chiamarsi "promozione della libertà commerciale" e se il privare le famiglie e le comunità di mezzi di sostentamento e di garanzie sociali continuerà a chiamarsi "riforma del Welfare" o "razionalizzazione".
Il caso delle pensioni è una importante cartina di tornasole: troppo impegnati a proteggersi dal piccolo delinquente appostato all'uscita di un ufficio postale e pronto a scipparli della pensione appena riscossa, tanti cittadini italiani stanno perdendo di vista le manovre di chi "al vertice" sta compromettendo in modo definitivo le già scarne sicurezze della vecchiaia. Riferimenti bibliografici:
Libro bianco sul Welfare, consultabile su www.welfare.gov.it
S. AMIN, I caratteri della mondializzazione capitalistica, in La mondializzazione capitalistica nell'epoca presente, Edizioni Punto Rosso, Milano 1996.
Z. BAUMAN, Globalization. The Human Consequences, Blachwell, Cambridge-Oxford 1998; trad. it. di O. Pesce, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Bari 2001.
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R. BELLOFIORE, Il capitalismo dei fondi pensione, in "la rivista del Manifesto", ottobre 2000, n. 10, pp.35-42.
R. BLACKBURN, Il caso Enron e i fondi pensione, in "la rivista del manifesto", giugno 2002, pp. 45- 57.
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G. MAZZETTI, La controriforma delle pensioni. Dalla solidarietà all'antagonismo, Datanews, Roma 1995.
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F. R. PIZZUTI, Pensioni. Tanto tuonò che piovve, in "la rivista del manifesto", n. 25, febbraio 2002, pp. 31-34 |
maggio - agosto 2003 |