Induce certamente a riflettere la ruvida distinzione proposta dal segretario alla difesa statunitense, poco prima dell'inizio della seconda guerra irachena, fra gli amici veri e quelli falsi dell'America, ovvero fra i paesi della "nuova Europa" esemplarmente incarnata dalla Gran Bretagna per la prontezza con cui risponde regolarmente agli stimoli provenienti d'Oltreatlantico, e i paesi della "vecchia Europa" capeggiati dalla Francia "infida" e ormai destinati - secondo lui - ad un malinconico declino. È possibile infatti che oggi stiano effettivamente riacquistando una certa importanza alcune differenze storiche fra la cultura politica "anglosassone" e quella "continentale". La più classica delle diversità che a tal proposito può essere richiamata è quella che vuole che l'Inghilterra, a partire dal XVI secolo, si sia radicalmente distinta dagli altri grandi paesi europei soprattutto per aver dispiegato una capacità senza pari di dominare militarmente ed economicamente i mari, riuscendo così a spostare il baricentro del confronto fra le potenze occidentali dal terreno della mera conquista territoriale a quello, a lei di gran lunga più favorevole, del controllo dei traffici e del mercato mondiale nascente. In questo modo si sarebbe delineata un'importante divaricazione fra una cultura profondamente permeata dallo spirito "marittimo" della mobilità e del libero commercio, della quale gli USA oggi sarebbero gli eredi principali, ed una cultura, tipica dei paesi continentali, più legata all'esigenza di basare solidamente sul possesso e la spartizione della terra i rapporti politici fra gli Stati.
Che una differenza storica del genere, tematizzata ed analizzata soprattutto da Carl Schmitt, eserciti ancora qualche influenza non irrilevante sulla situazione contemporanea appare intuitivamente attendibile, nella misura in cui si può ritenere che le potenze "marittime" si siano aggiudicate definitivamente il confronto diretto o indiretto con le potenze "terrestri" del continente attraverso la vittoria della seconda guerra mondiale e il crollo del socialismo sovietico. Tutto ciò rischia però di fornirci solo qualche elemento di generico riconoscimento delle diverse vocazioni e dei differenti destini, se non viene accompagnato dalla considerazione del ruolo che ha potuto svolgere nel percorso storico che ci ha condotti alla situazione attuale quello che, malgrado i suoi affanni ricorrenti, è ormai divenuto l'indirizzo politico dominante dei paesi occidentali: vale a dire il liberalismo. È nell'ambito della storia del liberalismo infatti che storicamente si è manifestata una profonda diversità fra una tradizione politica anglosassone ed una continentale, su cui si può provare a dare qualche rapida indicazione. Friedrich von Hayek, che viene considerato il più autorevole pensatore neoliberale del Novecento, ha espresso probabilmente la consapevolezza più chiara della grande differenza storica fra la "tradizione inglese" e la "tradizione continentale" del liberalismo: la prima - egli dice in sostanza - è nata con largo anticipo rispetto all'altra, nel Seicento, dalla seconda rivoluzione inglese e dal movimento dei Whigs, in un quadro politico largamente caratterizzato dalla permanenza delle "libertà medievali" e dalla diffusa insofferenza di una molteplicità di gruppi e realtà politiche, religiose, territoriali verso il centralismo della monarchia; la seconda tradizione è nata, invece, alla fine del secolo successivo dall'Illuminismo e dalla rivoluzione francese, in un contesto in cui l'assolutismo era ormai riuscito a depotenziare o a distruggere le espressioni di autonomia politico?sociale risalenti alle epoche precedenti. Ma un primo dato veramente intrascurabile che von Hayek fa emergere (apprezzandolo in modo particolare), consiste nel fatto che per la tradizione liberale inglese, diversamente che per quella continentale, la preoccupazione fondamentale di garantire la libertà non comportava necessariamente il perseguimento e la promozione incondizionata della democrazia: "Infatti - egli scrive -, per la più antica tradizione inglese, il valore supremo era costituito dalla libertà individuale, intesa come protezione mediante la legge contro ogni forma di coercizione arbitraria, mentre nella tradizione continentale veniva attribuito il massimo rilievo alla rivendicazione del diritto per ciascun gruppo di autodeterminare la propria forma di governo. Ciò condusse assai presto ad associare - e quasi identificare - il movimento liberale continentale con il movimento per la democrazia, che affrontava un problema diverso da quello che era stato centrale nella tradizione liberale di tipo inglese" (F. A. von Hayek, Liberalismo, Ideazione, Roma 1997, p. 36).Ma cosa significa esattamente dire che il "problema centrale" del liberalismo inglese consiste nella protezione della libertà, più che nella promozione dell'autodeterminazione democratica? Significa, innanzitutto, che per questo liberalismo il governo non ha come compito primario quello di rispondere indefinitamente alle aspettative dei suoi elettori, la sua azione deve svolgersi entro limiti molto precisi: soprattutto, non deve rischiare di tradursi essa stessa in una "coercizione arbitraria" della libertà, fosse anche legittimata democraticamente dalla volontà della maggioranza; l'azione del governo, d'altra parte, deve comunque garantire l'esercizio di "poteri coercitivi [
] intesi come limitati all'imposizione di [
] norme di mera condotta" ovvero alla repressione delle minacce cui la libertà sarebbe costantemente esposta" (ivi, p. 68). Con pari lucidità e franchezza il teorico neoliberale austriaco evidenzia, inoltre, quello che in realtà è il vero elemento caratteristico del liberalismo anglosassone, consistente nel fatto che ad esso è del tutto estranea "la distinzione - fatta spesso nell'Europa continentale, ma non applicabile al tipo inglese - tra liberalismo politico e liberalismo economico (elaborata in particolare da Croce come distinzione tra "liberalismo" e "liberismo")" (ivi, p. 62). Il che vuol dire che la protezione della libertà, secondo il liberalismo di origine britannica, deve trovare necessariamente il suo terreno privilegiato di riscontro nella tutela dell'economia di mercato. "Infatti - spiega von Hayek -, il principio fondamentale per cui l'intervento coercitivo dell'autorità statale deve limitarsi a imporre il rispetto delle norme generali di mera condotta priva il governo stesso del potere di dirigere e controllare le attività economiche degli individui. [
] La libertà nella legge implica la libertà economica, mentre il controllo economico rende possibile - in quanto controllo dei mezzi necessari alla realizzazione di tutti i fini - la restrizione di tutte le libertà" (ivi, pp. 62?63). In altre parole, secondo la tradizione liberale inglese non ci sarebbe altro modo di praticare la libertà tangibile ed efficace quanto quello della libera iniziativa economica, e perciò solo la protezione con mezzi coercitivi di quest'ultima proverebbe indirettamente che anche tutte le altre forme di libertà sono garantite. Dando ovviamente per scontato che il liberalismo statunitense si ponga in continuità diretta più con la tradizione inglese che con quella continentale, è importante capire se la sua storia ne abbia fatto emergere delle caratteristiche peculiari. Come dice von Hayek, in modo solo in apparenza sorprendente, "gli Stati Uniti non hanno mai conosciuto un movimento liberale paragonabile a quello diffusosi nel corso dell'Ottocento nella maggior parte dei paesi europei". E ciò è dipeso paradossalmente da una sorta di compiutezza originaria del liberalismo nordamericano, poiché "le principali aspirazioni del liberalismo europeo si trovavano realizzate nelle istituzioni di quel paese sin dalla sua fondazione" (ivi, p. 38). Il che - al di là del tono enfatico usato dal teorico austriaco - sembra voler dire, in definitiva, che il liberalismo (di tipo inglese) costituisce il solido fondamento generale sia della forma dello Stato sia della maggior parte della cultura politica statunitense, e che, in ogni caso, esso ha trovato negli USA molto meno "ostacoli" di quanti ne abbia trovati in Europa per affermarsi. Se questo liberalismo essenziale della cultura politica nordamericana non ha dato vita a partiti rappresentativi che si autodefiniscano "liberali", ciò è dovuto semplicemente al fatto che esso non ha mai avuto bisogno di conferme della sua radicata e vasta egemonia sulla società e sugli schieramenti politici principali. Insomma, è del tutto plausibile che il liberalismo, almeno nell'ambito della dialettica interna, abbia rappresentato più un'attitudine generale dell'americano medio che una "fede", un'ideologia o un'opzione politica alternativa ad altre. I principali nomi che occorre ricordare per comprendere cosa intenda von Hayek quando parla di "tradizione inglese" sono, naturalmente, John Locke, David Hume e soprattutto Adam Smith; mentre - secondo lui - le figure che avrebbero influenzato e condizionato maggiormente la tradizione liberale continentale sarebbero soprattutto Voltaire e Rousseau. Tuttavia, marcando e apprezzando i caratteri distintivi della prima tradizione, von Hayek non intende semplicemente far risaltare le peculiarità storiche delle sue origini; di fatto egli allude anche al grande ritorno di fiamma della matrice ultra?liberista del liberalismo anglosassone, verificatosi nella seconda metà del Novecento, al quale ha contribuito egli stesso attraverso l'insegnamento universitario a Londra e a Chicago. Quella matrice, infatti, aveva indubbiamente subìto un indebolimento notevole a causa delle politiche keynesiane adottate dagli anni Trenta sia negli USA che in Inghilterra.Comunque sia, ciò che è certo è che in entrambi questi paesi la forza storica e l'aggressività del loro liberismo originario hanno avuto modo di manifestarsi pienamente in una fase cruciale della fine del secolo scorso: quella iniziata con l'avvento quasi simultaneo al potere, nel biennio 1979?1980, di Margaret Thatcher in Inghilterra e di Ronald Reagan negli USA. La loro lunga permanenza al governo e la prosecuzione sostanziale fino ad oggi delle loro politiche ultra?liberiste anche da parte dei loro successori non si spiegano soltanto con la considerazione della congiuntura politico?economica che, alla metà degli anni Settanta, determinò la crisi tuttora in atto del Welfare State. Quella stessa congiuntura investì rapidamente tutte le società industrializzate e in ognuna di esse vennero subito affacciate proposte politiche di "rigore" e "sacrifici" anche da parte delle forze della sinistra istituzionale (si pensi alla linea dell'"austerità" propugnata in Italia da Enrico Berlinguer). È pur vero però che, in quello stesso frangente storico, l'impostazione marcatamente liberista dell'azione di governo avviata, per esempio, da Giscard d'Estaing in Francia incontrò molti ostacoli anche a destra e subì poi una forte battuta d'arresto proprio nei primi anni Ottanta, con l'inizio dell'"era Mitterand", mentre in Inghilterra e in America le cose ormai andavano decisamente in altra direzione. Si potrebbe forse dire, perciò, che la crisi del Welfare State nei due paesi anglosassoni ha costituito l'occasione storica che l'anima liberal?liberista della loro cultura politica ha colto subito e sfruttato in modo naturale, dispiegando interamente la sua energia e la sua radicalità.Detto questo, resta da porsi qualche interrogativo generale. Se è vero che il liberalismo anglosassone innanzitutto stabilisce la priorità della difesa della libertà rispetto alla promozione della democrazia; se è vero, inoltre, che esso assume l'affermarsi della libertà economica come irrinunciabile cartina di tornasole dell'efficacia di questa difesa, quali possono essere le implicazioni di tutto questo nel momento in cui una simile cultura politica conquista, come accade oggi, un'evidente supremazia non solo sull'"altro" liberalismo, ma anche sulle culture politiche che sino a ieri le si sono contrapposte come alternative? Che cosa può accadere quando, posta di fronte a delle emergenze locali o globali, questa cultura si trova a decidere o a scegliere politicamente tra "libertà" e "democrazia", ovvero fra incoercibilità degli interessi economici e inviolabilità dei diritti politici? Ponendo simili interrogativi, sia ben chiaro, non intendo arrivare a concludere sbrigativamente che il liberalismo anglosassone nasconda in sé una natura intimamente antidemocratica. Intendo piuttosto alludere ai rischi, su cui ci si potrebbe esercitare all'infinito, che possono derivare dal prevalere della concezione di una libertà intesa soprattutto in senso negativo e pragmatico, cioè come assenza di coercizione arbitraria soprattutto nei confronti dell'indipendenza dei soggetti economici, piuttosto che come insieme complesso di diritti positivi effettivamente goduti dall'individuo. Per non passare per profeta di sventura, farò solo qualche esempio "scolastico" di ciò che normalmente può accadere quando l'approccio liberal?liberista prevale sugli altri, chiamando in soccorso ancora una volta il grande neoliberale. È perché tende a misurare il grado complessivo di libertà con il metro dell'incoercibilità dell'iniziativa economica che il liberal-liberismo contemporaneo può, senza temere di contraddirsi, arrivare a ritenere "questione completamente aperta se sia necessario introdurre misure specifiche per combattere i monopoli in aggiunta a un quadro giuridico generale che favorisca la concorrenza"; infatti, dice von Hayek, "una legislazione volta programmaticamente a combattere trusts e cartelli [
], conferendo generalmente poteri discrezionali a enti amministrativi, non può pienamente conciliarsi con i principi liberali classici". Ed è per la stessa ragione, d'altra parte, che il liberal?liberismo può permettersi di non dubitare che "il campo in cui la mancata applicazione dei principi liberali ha comportato lo sviluppo di impedimenti sempre maggiori per il funzionamento del sistema di mercato è quello del monopolio del lavoro organizzato, ovvero dei sindacati"; per cui, altrettanto indubitabilmente, ne discende la necessità di "ripristinare in qualche modo un mercato del lavoro concorrenziale" (Ivi, pp. 93?94). Non è necessario dire che il neoliberalismo è la maschera ideologica del tardocapitalismo per riconoscere che proprio il privilegiamento della protezione della libertà del mercato lo espone costantemente alla possibilità di esercitare un potere pericolosamente discrezionale. Tutto ciò, comunque sia, fornisce qualche utile elemento esplicativo del fatto che il più grande paese anglosassone del mondo possa oggi ritenere l'esercizio del potere (locale e globale) da parte di un formidabile "cartello" economico?politico?militare (guidato dalla famiglia Bush) compatibile con i "principi liberali" quanto la riduzione degli "impedimenti per il funzionamento del mercato" creati dal "monopolio del lavoro organizzato" e dalla spesa sociale. Non ci si deve meravigliare troppo, perciò, se qualche apprendista liberale del continente europeo, desideroso di allinearsi all'ortodossia anglosassone, andando al governo possa trovare conciliabile il mantenimento del proprio monopolio economico?politico?mediatico con l'inflessibile "ripristino della concorrenza" nel mercato del lavoro e nell'ambito delle attività e dei servizi cui è meno interessato. Non si tratta di riconoscere che la realtà è sempre più prosaica dei modelli ideali, ma occorre tener conto, piuttosto, del fatto che il liberismo non aspira in alcun modo alla perfezione. Esso è pronto sin dall'inizio ad accettare l'idea che "i guadagni di ciascun individuo vengono a dipendere da fatalità di ogni specie, e non vi è modo di garantire che essi corrispondano sempre ai meriti soggettivi degli sforzi individuali" (Ivi, p. 73).Le contraddizioni e i costi a cui, tuttavia, il liberalismo anglosassone riuscirà difficilmente a sottrarsi sono quelli dell'attuale uso indefinito della guerra come mezzo di "protezione" di una planetaria "libertà duratura" (Enduring freedom) che esso si sente chiamato a garantire non solo per gravi ragioni contingenti (l'11 settembre), ma anche per una sua presunta missione storica consacrata dalle vittorie contro il nazismo e il totalitarismo sovietico.
Fra le tantissime differenze che rendono imparagonabile la situazione attuale con quella del cinquantennio che va dallo sbarco in Normandia al crollo del muro di Berlino, bisognerebbe considerare almeno l'efficacia con la quale il liberalismo anglo?americano era riuscito a produrre dal suo interno - già fra gli anni Trenta e Quaranta - le politiche del Welfare, con il New Deal in America e il "Piano Beveridge" in Inghilterra. Furono quelli gli anticorpi che gli consentirono non solo di contrapporsi in modo credibile al nazi?fascismo e al socialismo reale, ma anche di rimediare ai disastri della "Grande depressione" del '29 scaturita dalla concezione miracolistica del mercato, ereditata dalla sua tradizione.
"Va' a farti trucidare e noi ti garantiamo vita lunga e piacevole". Questo fu il tacito e paradossale incitamento che - secondo Michel Foucault - gli Angloamericani riuscirono a rendere accettabile, vincendo il secondo conflitto mondiale. Ora che questo paradosso si rivela intollerabile, qualcuno pensa che saremmo disposti a barattarlo con la promessa di una libertà più duratura
della vita degli altri.