Gridi di guerra e "sovranità" della vita
di Pasko Simone

Checché ne dicano i fautori del liberismo ad oltranza, la civiltà capitalistica ha raggiunto l'autunno della sua esistenza. La prova sta nel fatto che per procedere nel suo cammino inarrestabile di globale sfruttamento delle risorse naturali e umane, ha bisogno di minacciare, organizzare e portare avanti, con allucinante determinazione, una guerra dopo l'altra. Il punto di caduta della società mercantile di stampo americanizzante è giunta probabilmente al suo livello più basso. In queste ore di tragica attesa di qualcosa che potrebbe perfino rivelare i tratti fatali di un imprevedibile olocausto, è inevitabile cadere in tristi pensieri, frutti indiretti della grande incoscienza politica e del cinismo morale di chi attualmente governa (si fa per dire) il mondo ed ha in mano le sorti dell'umanità. Non vorremmo perdere la nostra consueta serietà di diligenti osservatori del presente, ma ci vien voglia di rimpiangere perfino il precedente presidente americano, Bill Clinton, il quale almeno passerà alla storia di quel Paese per ben altra impresa: quella di aver scandalizzato il mondo intero per amore di una giovane "stagista" che riuscì abilmente a conquistare il suo cuore e il suo letto. E tuttavia, per ribadirlo con maggior forza e serietà, prendiamo semplicemente atto, con le parole di Georges Bataille, che "non si può negare che l'umanità attuale abbia smarrito il segreto, conservato fino ad oggi, di darsi un volto in cui poter riconoscere lo splendore che le appartiene". Immersi nel sonno della crescita infinita, paghi del nostro benessere sconfinato, chiusi nel nostro egoismo di consumatori ad oltranza, abbiamo perso quel gusto "sovrano" che ci spinge a sognare e a lottare per una vita contrassegnata più da "Eros" che da "Thanatos". In questa perversa tossicomania di massa che ha invaso i cuori e le menti, il pensiero di colui che non ha, comunque, ancora smarrito la retta via, corre direttamente ad alcuni fatti, direi immediatamente "storici", che rimbalzano oggi sotto gli occhi di tutti, sempre più sconcertati e sconfortati dai messaggi che pervengono da giornali e tv. "Fatti storici" come sintomi estremi del presente da incubo in cui siamo piombati, che si possono sintetizzare in quattro "dolenti" note che hanno la pregnanza visiva di una ineluttabile caduta verso il nulla:
- l'annuncio continuo, e, si direbbe, programmato, degli allarmi - più o meno reali, più o meno immaginari - di ipotetici, ma sempre possibili, "attentati terroristici" in qualsiasi parte del globo, in un qualsiasi momento della nostra normale esistenza e con qualsiasi mezzo;
- la visione reiterata delle violenze di una guerra senza sbocco in terra di Palestina con la constatazione puntuale e documentata da immagini che evidenziano il divario incredibile esistente tra un popolo (quello israeliano, armato di tutto punto) che conserva gelosamente i privilegi inalienabili della casa, dell'acqua, del cibo e di ogni altra comodità di vita, impegnato da anni a togliere sistematicamente tali elementari diritti a un altro popolo (quello palestinese che ha per difendersi praticamente le nude mani e le pietre, come, in quella stessa terra, secoli fa nel biblico confronto tra Davide e il gigante Golia);
- i fotogrammi raccapriccianti (questi per la verità piuttosto rari in quanto tali), che arrivano in tutte le nostre case dai paesi del continente africano, ormai in completa balia di fame, carestie e inenarrabili violenze, incredibile e inconfutabile esempio di una rapina plurisecolare di cui ci sarebbe solo da vergognarsi;
- e infine, a coronare il tutto, lo spettacolo quotidiano, che si tiene in piedi da mesi, di un - direi "adulto" più che infantile - gioco al massacro, sadico composto di verbale puro e mediatico spurio, tra il presidente Usa George W. Bush e il dittatore dell'Iraq Saddam Hussein; gioco al massacro che riporta alla mente i risvolti tragicomici della ancor viva incredibile caccia (anche questa più virtuale che reale) lanciata da quello stesso presidente contro un fantomatico Bin Laden, terrorista sempre sul punto di essere catturato e sempre puntualmente dileguatosi nel nulla.
Queste quattro contingenze dell'attuale presente storico colmano di sé il nostro operare e immaginare collettivo; per strada, nei mezzi pubblici, attraverso giornali, televisioni, radio e autoradio, sono ormai diventati di fatto il nostro "pane quotidiano". A tal punto, che sorge spontanea una domanda: se questa è la realtà che contrassegna il mondo e, con esso ed in esso, la consapevolezza generale, più che giustificata, di qualcosa che non sta più funzionando nell'agire comunicativo e operativo umano, quale insegnamento esperienziale trarne? Quale insegnamento di vita (o di morte) ne possono trarre soprattutto i giovani? Quale insegnamento iniziale ne può derivare al sentimento esistenziale, solo in parte inconsapevole, di un bambino messo di fronte a quelle "immagini" di una dialettica storica irreversibile ed alle quali, anche lui, purtroppo, non può assolutamente sottrarsi? Sono ovviamente interrogativi da pedagogisti, da operatori scolastici, da insegnanti a contatto quotidiano con le enormi difficoltà di far passare messaggi "alternativi", progetti di formazione e di studio in controtendenza, programmi che una volta parlavano di una cosiddetta "educazione alla pace", che includevano unità didattiche di "educazione all'accoglienza e all'integrazione", quando non proprio - sotto la spinta di circostanze reali - si dovevano affrontare problemi di pacifica "convivenza" multietnica e multiculturale. Dove finisce tutto questo di fronte alla "guerra dei nervi" quotidiana di Bush, basata sul meccanico ritornello della guerra necessaria e infinita? Che senso dare ai discorsi di pace in tempi in cui si invoca la guerra come soluzione inevitabile, unica soluzione di tutti i mali del mondo?

Una cosa ci sembra più che mai evidente: il potere, sia nel grande che nel piccolo, si rivela sempre più come un'organizzazione imperniata sulle mediazioni alienanti e sottraenti; un potere la cui principale finalità, in ultima istanza, sembra essere la distruzione stessa dell'uomo attraverso l'adozione di uno "stato d'eccezione" all'acme del quale si prospetta l'idea stessa della catastrofe. Il viaggio verso il nulla mortale della perversione sadiana trova una "tangibile" conferma, in queste ore, nella intuizione hegeliana della dialettica negativa di un reale e non immaginario confronto dei poteri. Come afferma Giorgio Agamben: "L'io desiderante raggiunge, infatti, la certezza di sé solo attraverso la soppressione dell'altro". Torna quindi più che mai attuale la tesi di Michel Foucault, secondo cui "la posta in gioco è oggi la vita stessa" e la biopolitica ha cominciato, almeno da vent'anni a questa parte, a lavorare non più per la costruzione di un ipotetico diritto alla felicità terrena degli esseri umani, ma addirittura per la dissoluzione di qualsiasi loro preteso "diritto all'esistenza", a partire da quello fondante della "nuda vita", in nome di un monoteismo mercantile. Appare evidente che, ancora un piccolo passo, e la democrazia e la pace non saranno più che un ricordo del passato. E con esse andrà perduto per sempre anche il ricordo della "vera vita". Se, come diceva Goethe, in senso, questo sì, tutto positivo: "la morte è uno strumento della natura per moltiplicare la vita", l'attualità storica ci dice che siamo giunti forse al capolinea di un percorso regressivo che capovolge tutta in negativo la grande verità del poeta; appare ormai con distinta evidenza che: la guerra è uno strumento dell'uomo per interrompere di fatto la vita.

Da questa sconsolante prospettiva, all'analista lucidamente distaccato e all'occhio non ancora assuefatto allo spettacolo della fine, può essere che si possa tentare una estrema rigenerazione di questa pseudo-storia in regressione progressiva - dedicandosi a un paradosso progettuale, per ora tutto individuale, ovvero sia nella ripresa - in proprio - di alcune dirompenti figure esistenziali che ripropongono "dal basso" la dimensione "sovrana" dell'esistenza, operando il recupero graduale e sistematico di "un blocco di percetti e affetti" (secondo la bella definizione di Deleuze e Guattari) del tutto antagonistici e alternativi al saccheggio capitalistico, contro i valori fluttuanti e aleatori della deviante globalizzazione. Intendiamo riferirci , in particolare, a:
· un ritorno alle istanze "aperte" di un amore senza regole, risorsa "scandalosa" che ha sempre terrorizzato il potere costituito;
· una ripresa "in toto" di quella immaginazione che, dopo il '68, è stata "messa al lavoro" e che va invece recuperata contro il dominio omologante e l'asportazione chirurgica delle facoltà critiche;
· un'attenzione particolare verso le infinite risorse dell'"otium" creativo, come sorgente prima di un pensiero divergente, e contro l'integralismo mentale imperante;
· una concezione diversa del teorema "lavoro", precario o no, materiale o immateriale che sia, riproposto finalmente come rifiuto del suo asservimento all'economia unidirezionale del profitto, totalmente liberato dai falsi bisogni del mercato globale.

Quale migliore risposta ai gridi di guerra che inneggiare alla "sovranità" in/declinabile della vita, anche per coloro che, abbandonate le loro case per un fatale deserto, sono costretti dalle circostanze ad imbracciare un fucile o pilotare un caccia per bombardare le donne e i loro bambini?

maggio - agosto 2003