La condizione di Cassandra
di Francesco Mancini

Uno dei cavalli di battaglia utilizzati contro gli oppositori irriducibili all'ennesima guerra del Golfo è stato il richiamo alla memoria e al debito di riconoscenza per il sacrificio di sangue sofferto dai militari americani nella lotta per la libertà e la democrazia dei popoli europei oppressi dalla violenza nazista. La assoluta illogicità ed insensatezza di questo rimprovero traspare in tutta evidenza, appena si riflette che ciò che in fin di conti si chiede è di essere d'accordo con la soppressione violenta di giovani vite per riconoscenza verso altri morti del passato. Pare difficilmente possibile, peraltro, immaginare qualcosa di più obbrobrioso e disgustosamente egoista.

Ma non si tratta solo di questo. Essere solidali e riconoscenti verso i ragazzi che in buona fede e con sincera convinzione si sono battuti contro la tirannia non deve significare essere d'accordo con chi ne ha voluto e provocato il massacro. Gli storici di ogni tendenza che hanno indagato su quanti hanno sostenuto industrialmente lo sforzo bellico del regime hitleriano si sono imbattuti nelle grandi corporation americane - General Motors, Ford, IBM - le cui fabbriche situate in territorio tedesco hanno fornito al nazismo gli armamenti e le attrezzature servite allo scatenamento del secondo conflitto mondiale. I dirigenti di queste corporation sedevano nei consigli di amministrazione fianco a fianco con gerarchi nazisti e membri delle SS ed hanno avuto dal regime hitleriano e dal fuhrer in persona altissimi riconoscimenti ed onorificenze per tale loro fattiva collaborazione. Lo studioso Edwin Black ha di recente documentato che la IBM addirittura fornì il supporto tecnologico che rese tanto orribilmente efficace l'olocausto. Anche il nonno dell'attuale presidente, Prescott Bush, contribuì, con le sue attività affaristiche e bancarie, a sostenere lo sforzo bellico hitleriano, tanto che alcune delle società in cui partecipava furono messe sotto inchiesta dal governo federale USA per "commercio con il nemico".

Insomma, le multinazionali USA, anche in occasione della seconda guerra mondiale, ingigantirono i loro profitti fornendo armamenti ed materiale bellico a entrambi i contendenti. E più rafforzavano militarmente ed industrialmente il nemico, rendendolo temibile e pericoloso, più contribuivano ad aumentare la spesa militare degli Stati Uniti, nella consueta perversa spirale atta ad aumentare vorticosamente i loro profitti e capitali, insieme ai lutti ed alla miseria dei popoli coinvolti nel conflitto. Mentre il pesce piccolo Bush finì sotto inchiesta, le grandi corporation, negli anni sessanta, furono addirittura risarcite dal governo USA per i danni subiti dalle loro fabbriche in territorio tedesco, in conseguenza dei bombardamenti dell'aviazione militare americana.

L'eventuale lettore non deve farsi trarre in inganno dal titolo della rivista in cui questo scritto viene pubblicato. Quanto esposto non è frutto di faziosità o di un punto di vista politicamente orientato. La comunità degli storici concorda largamente sulla verità e fondatezza delle notizie sopra riportate, a prescindere dalle tendenze politico-ideologiche. Va rammentato, al riguardo, che il mestiere dello storico comporta l'analisi di documenti, nello specifico decreti, delibere, certificati di camere di commercio e di cancellerie di tribunali, libri contabili, verbali di assemblee societarie e di consigli di amministrazione, risultanze catastali e simili. E questo genere di documentazione non si presta a soverchie divergenze di interpretazione, almeno non in buona fede.

Altro ricorrente e assillante leitmotiv è stata l'accusa, nei confronti degli avversari del complesso affaristico, militare e spionistico e della scelta bellicista del governo degli Stati Uniti, di essere schierati con il regime irakeno, se non volutamente, quantomeno oggettivamente o inconsapevolmente. Ovviamente, baggianate di questo genere non vengono dette in buona fede, né corrispondono a ciò che si pensa veramente, ma servono a bloccare e impedire un serio confronto di opinioni ed un vero approfondimento delle questioni. Con tali espedienti, per così dire dialettici, vengono riprodotte artificiosamente divisioni partitiche su un tema come la guerra, per il quale sarebbe altrimenti assai forte il rischio che l'opinione pubblica possa compattarsi, a prescindere dalle diversità di opinioni politiche.

La verità storica è che è proprio il governo statunitense ad aver intrattenuto direttamente o tramite la CIA stretti rapporti con Saddam Hussein, il partito Baath ed il regime irakeno(1). Anche su questo argomento i dati e le posizioni degli storici sono largamente concordanti. In particolare, le risultanze documentali e testimoniali confermano che Saddam Hussein negli anni sessanta era un agente della CIA, che si servì di lui per contribuire a far fallire il progetto panarabo del presidente egiziano Nasser e per demolire il partito comunista irakeno. Prima il partito Baath e poi lo stesso Saddam Hussein, che ne era un esponente importante, sono stati portati al governo del paese con l'attivo supporto della CIA, anche per mezzo di due colpi di stato. Saddam Hussein diventa capo del governo irakeno nel 1979, quasi in concomitanza con il trionfo della rivoluzione khomeinista, e l'anno successivo inizia, con l'aperto sostegno finanziario, politico e militare del governo degli Stati Uniti, una guerra di aggressione contro l'Iran, che durò, con alterne vicende e con milioni di morti da entrambe le parti, fino al 1988.

Per ciò che concerne le origini della cosiddetta prima guerra del Golfo, una delle spiegazioni più accreditate della decisione di Saddam Hussein di invadere il Kuwait nell'agosto del 1990 la fa risalire ad un equivoco o inganno circa le reali intenzioni del governo statunitense, per cui il rais si sarebbe erroneamente convinto che gli sarebbe stata lasciata mano libera nell'occupazione dell'Irak. Una simile tesi sembra un po' troppo ingegnosa ed artefatta e presuppone un livello di ingenuità e dabbenaggine troppo esagerato per essere vero. Se si lasciano perdere le ipotesi e ci si sofferma su quanto è indiscutibilmente accaduto, l'unica cosa certa è che la trasformazione di Saddam Hussein da amico in nemico, sia essa reale o - assai più verosimilmente - fittizia, consentì ai fornitori di armamenti delle due parti contendenti di incamerare profitti colossali.

Quale sia stato l'ordine di grandezza di tali profitti per la parte alleata e quali ne siano stati i finanziatori, lo si rileva dal numero di giugno 2002 della rivista Emergency: "La guerra da parte della Coalizione è costata 53 miliardi di dollari, offerti dai Paesi dell'Alleanza, molti dei quali provenienti dalle casse del Kuwait, dell'Arabia Saudita e da altri stati del Golfo (36 miliardi), dalla Germania e dal Giappone (16 miliardi). I danni economici e infrastrutturali inferti all'Iraq ne hanno triplicato il debito estero, mentre le condizioni di vita della popolazione sono precipitate al di sotto della mera sussistenza. Contrariamente a quanto previsto da chi impose l'embargo, nonostante la prostrazione di tutto un popolo e nonostante le timide aperture avvenute nel tempo (vedi la risoluzione "petrolio contro cibo") il regime di Saddam Hussein è ben saldo e continua a destinare ingenti somme alle spese militari e all'arricchimento personale dell'élite". (1)

I dati forniti da Emergency sostanzialmente coincidono con quelli dichiarati dall'allora presidente USA il 22 febbraio '91, allorché comunicò al Congresso che, a fronte di costi di guerra per 52 miliardi di dollari, le promesse di finanziamento, da parte dei paesi alleati, sfioravano i 54 miliardi di dollari, di cui 15 già incassati al momento della cessazione delle ostilità. Se si lasciano da parte ipotesi e congetture e ci si basa sui fatti, non occorre neanche essere un economista particolarmente dotato, basta un mediocre ragioniere a spiegare che, dove c'è qualcuno che paga e sostiene costi, c'è qualcun altro che incassa e consegue ricavi. Al di là dei fini dichiarati e sbandierati dalla propaganda politica e militare, che lasciano il tempo che trovano, ciò che serve veramente a capire è seguire che fine fanno i soldi. In particolare, una ricerca delle cause e conseguenze della guerra del 1991 deve innanzitutto accertare quale fine abbiano fatto i 54 miliardi sborsati dai paesi della Coalizione, in quali tasche siano finiti ed a quale titolo, visto che non sono serviti a rimborsare il debito pubblico dei paesi belligeranti, in particolare quello statunitense, che ha continuato a gonfiarsi mostruosamente, fino a raggiungere il 4 aprile del 2002, l'ammontare complessivo di 6.021 trilioni di dollari. (2) Un altro fondamentale quesito riguarda i finanziatori dell'aumento del debito estero irakeno successivamente alla conclusione della guerra del 1991, oltre che le fonti e le finalità del finanziamento stesso. È verosimile che a tale scopo sia servita una parte dei 54 miliardi di dollari girati al governo USA dagli altri paesi della Coalizione. Ma certamente altro denaro è arrivato da altri paesi, quali la Francia, la Russia, la Germania, interessati ad instaurare rapporti preferenziali con il governo irakeno ed a stipulare con esso vantaggiosi contratti per lo sfruttamento delle ingenti risorse petrolifere del paese. La guerra del Golfo del 2003, tra i suoi risultati, ha avuto certamente quello di azzerare il valore di questi interessi ed investimenti finanziari dei concorrenti delle corporation petrolifere di marca USA.

A tale riguardo, si è detto giustamente che le guerre si fanno, oltre che per ottenere dei vantaggi, anche per impedire che li conseguano altri. È francamente assai ingenuo, invece, affermare, come pure si è fatto, che chiunque partecipi a una guerra lo faccia nella speranza della vittoria. Evidentemente, il regime irakeno aveva le stesse probabilità di un convento di suore di averla vinta con gli eserciti del governo USA e dei suoi alleati. Non dovrebbe essere sfuggito a nessuno che il clan al potere negli Stati Uniti ha continuato a mandare soldati nel Golfo Persico, con la certezza che il compare irakeno non avrebbe tradito, ad esempio dimettendosi per il bene del suo popolo. Se veramente Saddam Hussein fosse stato nemico del governo americano non avrebbe potuto concepire un colpo più diabolico e micidiale che fargli conseguire un tale malaugurato successo politico-diplomatico, da obbligarlo a richiamare indietro le truppe. Ciò avrebbe inevitabilmente comportato il drastico ridimensionamento delle aspettative di profitto delle industrie di armamenti, multinazionali petrolifere e società interessate agli appalti delle ricostruzioni postbelliche, per lo più finanziatrici della campagna elettorale del presidente USA e rappresentate da propri esponenti nella compagine governativa (Lockeed Martin, Northrop Grumman, General Dynamics, General Electric, Chevron, Exxon Mobil, Halliburton, Carlyle Group, Harken Energy, ecc.).

Saddam Hussein è sempre stato nei fatti - ovviamente non a parole - il più grande nemico del suo popolo e il più grande amico dei petrolieri, dei produttori e trafficanti di armi e degli speculatori e profittatori di guerra. La sua asserita follia, come quella dei tanti pazzi e criminali che sono in giro per il mondo, non avrebbe avuto modo di realizzarsi, se non avesse potuto contare sul decisivo appoggio finanziario di uomini d'affari e di stato dell'Occidente cristiano. Il dittatore irakeno ha goduto di finanziamenti ingenti e ottenuto forniture di armi, perfino dopo l'invasione del Kuwait e l'embargo dichiarato dall'ONU dopo l'invasione del Kuwait. Fin dal suo avvento al potere, capitali enormi, appartenenti ai risparmiatori ed ai contribuenti dei paesi occidentali, sono stati distolti da un impiego giusto e razionalmente economico nella costruzione, ad esempio, di ospedali, ferrovie, strade, case o nella lotta alla delinquenza, all'emarginazione, alla disoccupazione, alla miseria o, ancora, negli aiuti al terzo mondo e nella difesa dell'ambiente, per essere invece "prestati" - si fa per dire - al dittatore irakeno, che li ha utilizzati per potenziare i propri arsenali, oltre che per l'arricchimento personale.

È appena il caso di sottolineare che le difficoltà finanziarie attraversate dal regime erano arcinote da tempo, quantomeno dopo la lunga e costosa guerra sostenuta contro l'Iran. Tanto più desta "meraviglia" la spregiudicatezza di banchieri e operatori finanziari, così prudenti e diffidenti, quando si tratta di prestare denaro a lavoratori, pensionati o a commercianti, artigiani e piccoli imprenditori cui difettino le garanzie, così "generosi", invece, sia pure con i soldi degli altri, nei confronti di Saddam Hussein, nonostante l'elevatissimo rischio, se non la certezza, del non rientro dei capitali prestati. Non si capisce, infatti, con i proventi di quali attività produttive l'Irak avrebbe mai potuto restituire i prestiti e pagare gli interessi, se le somme prestate erano impiegate nell'acquisto di armi. Peraltro, anche ammettendo che i finanziatori non conoscessero la destinazione dei capitali prestati, certo non tardarono ad accorgersene, dato che le forniture e le competenze tecniche richieste dall'Irak ai paesi occidentali non lasciavano margini al dubbio.

Il complesso affaristico, militare e spionistico di qualunque paese è un nemico mortale e implacabile del proprio popolo e, come già messo in luce, anche dei propri soldati, prima che delle nazioni straniere di volta in volta erette a nemico. Come un cancro, si espande e si rafforza divorando innanzitutto il corpo sociale di cui fa parte, svuotandone e snaturandone le libertà e le regole democratiche, distruggendone l'economia, il benessere, la speranza in un futuro migliore. Ciò vale a maggior ragione per la nazione ed il popolo degli Stati Uniti, il cui mortale nemico è di gran lunga il più potente di tutti, quantomeno a partire dall'intervento nel primo conflitto mondiale.

Il popolo degli Stati Uniti non è sull'orlo del baratro; vi sta precipitando già da un pezzo. L'operazione avviata con l'occupazione del Kuwait nel 1990, a distanza di tredici anni sta progressivamente determinando il controllo dell'area del Golfo Persico e dell'intera Eurasia da parte del complesso affaristico militare spionistico dominante negli Stati Uniti; non vi sono seri dubbi, ormai, che un tale risultato ne costituisse uno dei fini principali. Il perseguimento di un tale obiettivo, finora solo parzialmente conseguito, ha comportato una rapina di proporzioni colossali ai danni dei popoli americano ed irakeno, oltre che dei tedeschi, giapponesi e di tutti i paesi che hanno partecipato militarmente e/o finanziariamente alle guerre succedutesi nell'area.

Già in altri interventi si è dimostrato quanto falso sia, in generale, l'assunto secondo cui l'economia di un qualunque popolo o paese possa trarre vantaggio dalla distruzione di ricchezza attuata tramite la fabbricazione e l'impiego bellico degli armamenti. Per ciò che concerne in particolare gli Stati Uniti, si è assistito, nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, alla progressiva rovina del popolo e dell'economia, sempre più soffocati e impoveriti dalla colossale espansione del debito pubblico, attualmente al ritmo di due miliardi di dollari al giorno (4), e di quello delle famiglie e delle imprese, con il conseguente sempre più gravoso carico di interessi per i cittadini ed i contribuenti. Tale aspetto, insieme ad altri (crescente deficit del bilancio pubblico e della bilancia commerciale, svalutazione del dollaro, peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e delle categorie più deboli, riduzione dell'onere fiscale a carico del grande capitale) sembrano stranamente sottovalutati o sfuggiti all'attenzione di molti economisti, che continuano per lo più a blaterare a sproposito di successo e superiorità del cosiddetto modello americano.

Chi ha tratto profitto da questo disastro dell'economia e della democrazia, l'autore della rapina del secolo ai danni del popolo americano e di tutti i popoli della terra, è stato innanzitutto l'apparato affaristico, militare e spionistico statunitense, che, per gli affari relativi al Golfo Persico, ha sempre potuto contare, a partire dagli anni sessanta, sulla collaborazione e la sollecitudine del compare Saddam Hussein. Il legame di complicità fra i due clan risultò evidente nel 1991, allorché il presidente degli Stati Uniti, padre dell'attuale, richiamò indietro il proprio esercito quando era a 160 chilometri da Baghdad, graziando il dittatore irakeno e consentendogli di eliminare, del tutto indisturbato, gli oppositori interni kurdi e sciiti. Quel massacro non fu ritenuto all'epoca motivo sufficiente per un intervento finalizzato alla deposizione del rais. Al contrario, nel marzo 2003, per giustificare l'attacco all'Irak, i fautori dell'intervento bellico si sono arrampicati sugli specchi alla ricerca di un qualunque pretesto, inventandosi inesistenti armi di distruzione di massa. Inutilmente gli ispettori dell'ONU hanno a più riprese ribadito che non vi erano prove del possesso di tali armi da parte del regime irakeno e che esso non costituiva una minaccia per nessuno, men che mai per la superpotenza americana. A posteriori, l'andamento della cosiddetta guerra ha dimostrato ampiamente la fondatezza di tali affermazioni, ma su tale aspetto ci si è soffermati poco e niente nell'euforia della grande vittoria.

Si è detto che Bush padre, in occasione della prima cosiddetta guerra, avrebbe dimostrato, diversamente dal figlio, un rispetto rigoroso delle risoluzioni dell'ONU, che, come noto, limitavano l'intervento militare alla liberazione del Kuwait. Va correttamente rammentato che l'allora Presidente non fece altro che obbedire a se stesso ed a quello che riteneva il proprio interesse, dal momento che la risoluzione ONU fu condivisa dal rappresentante degli Stati Uniti. Semplicemente, all'epoca sembrò utile lasciare in sella un comodo nemico da bombardare a piacimento, per la gioia delle multinazionali del petrolio e degli armamenti, e da tenere di riserva, per quando fosse stato necessario premiarle per i finanziamenti alle elezioni presidenziali.

Ma non c'è problema: l'opinione pubblica sembra digerire tutto e non accorgersi di niente. Perfino in occasione della conclusione-farsa di quest'ultima vicenda bellica, ne ha accettato - si direbbe senza batter ciglio - gli aspetti grotteschi, impossibili e incomprensibili. Come bin Laden e il mullah Omar, Saddam Hussein, i suoi familiari e i suoi tirapiedi, cioè centinaia di persone, si sono dissolti nel nulla. Ci sono diverse possibili spiegazioni per tali misteriose sparizioni: opera di Mandrake o di Superman o degli extraterrestri o dei servizi segreti americani. Una sola di queste risposte è sbagliata e comporta l'immediata classificazione nel novero delle cassandre, le cui profezie, come noto, sono automaticamente inserite nella categoria dei vaneggiamenti e non consentono neanche la magra soddisfazione del "ve l'avevo detto".

NOTE:
(1) Cfr., p.e., Magdi Allam, Saddam Storia segreta di un dittatore, Mondadori, in particolare il primo capitolo della parte terza intitolato "L'agente segreto", pagg. 131-141;
(2) Cfr. Paul Harris, Cosa succederebbe se l'OPEC passasse all'Euro?, da Soberania.info - traduzione di Tito Pulcinelli, tratto da www.informationguerrilla.org;
(3) Rivista Emergency n. 23 giugno 2002, riquadro pag. 25 "Seconda guerra del Golfo in cifre", a cura di Paolo Busoni; il finanziamento della guerra del Golfo del 1991 da parte della Germania e del Giappone è, richiamato, tra gli altri, anche da Gore Vidal a pag. 38 del suo libro "Le menzogne dell'impero e altre tristi verità", Edizione Fazi del settembre 2002;
(4) Gore Vidal, op. cit., pag. 38

maggio - agosto 2003