Capire Bari, che città è e sta diventando, appare necessario per chi voglia meditare sui temi della realtà metropolitana e delle trasformazioni in atto in questa regione meridionale (anomala?) che è la Puglia.
Per leggere e capire le città, nella loro storia sociale e urbana, la sociologia, la cultura, la politica elaborano modelli interpretativi, che sono il frutto di punti di vista più o meno ampi, di esperienze più o meno parziali. Perciò è il caso di chiedersi quale sia il modello di lettura che utilizziamo per discutere di Bari. La sinistra pugliese e ancor più barese ha coltivato per lunga assuefazione un atteggiamento contraddittorio verso la città capoluogo di regione; in essa lo sforzo, talvolta generoso, di comprendere e di operare per il cambiamento si accompagnava ad un sentimento radicato di sprezzante ripulsa e disdegno verso una città vissuta come 'altra cosa', sostanzialmente perduta, geneticamente 'di destra', immodificabile. Personalmente ricordo bene le ricorrenti dispute se Bari fosse una città inguaribilmente 'brutta' o invece dotata di una sua intrinseca bellezza e di qualche fascino. Predominava il luogo comune di "Bari città invivibile" (o, si licet, "Bari città di m
"), verso la quale era arduo concepire uno stato d'animo di identificazione, e meno che mai un'inclinazione affettiva. Non nego le ragioni fondate di una tale condizione che definirei di 'cittadinanza infelice': in essa operava anche una presa di coscienza critica, una sofferta volontà di rottura con la tradizione della 'baresità' connotata da un'anima mercantile e affarista, da una mentalità moderata e angusta; quella baresità tutta autoreferenziale e provincialistica che ogni tanto si metteva in vetrina e s'inorgogliva celebrando i suoi fasti ingannevoli nella kermesse annuale della Fiera del Levante. Nell'analisi e nell'immaginario dei comunisti, in particolare, Bari si configurava come la refrattaria città della rendita e del blocco urbano conservatore assediata dalla "campagna" dei braccianti e della nuova classe operaia pendolare, dove non di rado la sinistra pesava di più e addirittura prevaleva in non pochi comuni medi e piccoli. Tutto ciò aveva un grande fondamento di verità, e non a caso i cortei sindacali e del Pci erano accolti dal ceto medio cittadino con scetticismo irridente e con malcelata insofferenza, come invasioni di un popolo intruso che per una mezza giornata s'incamminava dall'esterno per prendersi la briga di scombussolare il quieto vivere del capoluogo.
La mentalità barese, il paradigma della baresità si potevano identificare con l'utilitarismo spinto, con la diffidenza o l'indifferenza nei confronti di ogni disegno di respiro più vasto del "particulare", con la misura dell'immediato valore di scambio applicata a ogni cosa, persona e iniziativa, con l'attaccamento all'hic et nunc; e, ancora, con l'ideologia della competizione anche scorretta, con l'elogio del "figlio di zoccola", con l'assunzione totalitaria della dimensione privatistica e la sconoscenza di qualsivoglia spazio pubblico. A Bari c'era il Palazzo, ma non c'era il suo contraltare, la Piazza, il luogo d'incontro della cittadinanza. Non c'era neppure fisicamente, almeno nel quadrilatero murattiano e nelle sue addizioni o escrescenze novecentesche.
Peraltro l'ideologia competitiva e mercantile è stata, da un certo momento in poi, sempre meno l'espressione di un presunto esercizio del rischio commerciale e della libera intrapresa, e sempre più la copertura di una pratica reale di 'privatizzazione del pubblico', cioè dell'appropriazione, a fini privatistici, delle risorse messe a disposizione dalla collettività: altro che competizione! I baresi non furono più gli eredi dei marinai avventurosi che avevano trafugato in Turchia le ossa di san Nicola: grande metafora di una possibile relazione con il bacino mediterraneo, quand'anche una relazione di rapina, che avrebbe potuto però alludere a una 'accumulazione' di capitale mercantile, premessa di una vivace dinamica economica e sociale. I baresi, invece, assomigliarono sempre di più a un ceto astutamente intento a svuotare lo spazio pubblico, attingendovi tutto ciò che potevano, e a trasformare in rendita i profitti dell'entroterra agricolo: altro che "levantini"! Essi non avevano più gli occhi rivolti al mare, bensì verso terra, in uno scambio ineguale con il territorio pugliese.
Una variante di questa idea di Bari si può rintracciare nell'immagine di una coalizione omologata di 'ceto medio'. E' un fatto che i gruppi dominanti baresi siano riusciti, a lungo, a compattare intorno al proprio modello sociale un largo e frastagliato arcipelago di ceti, di quella che per comodità chiameremo "piccola borghesia" (naturalmente dotata di sensibili gerarchie interne); questa per tutto il Novecento si è estesa grazie anche a un intenso inurbamento di famiglie provenienti dall'entroterra. Il nucleo fondamentale del modello barese è stato costituito fino a pochi anni fa dall'asse fra l'impresa di costruzioni (con il suo indotto), le banche e il commercio, con gli enti pubblici a fare da supporto. La struttura dell'impresa edilizia si è configurata attraverso la catena di appalti e subappalti delle piccole e piccolissime imprese familiari, in modo da rendere precaria la forza lavoro, scaricare i costi sociali e infrangere la concentrazione operaia; il settore del commercio ha costruito la sua forza aggregando e orientando la massa di piccoli negozianti; l'attività finanziaria connessa ha esteso gli sportelli bancari e il relativo numero di addetti; la variegata attività di intermediazione ha alimentato un ceto di professionisti (avvocati e notai) e coinvolto la magistratura; la crescita degli enti pubblici (dalla Regione all'Università alle scuole alle poste agli ospedali) ha assicurato, da un lato, le commesse pubbliche, e dall'altro ha garantito una tenuta dei livelli occupazionali e un sostegno alla domanda e al potere d'acquisto. L'intreccio di tali interessi, capace di rappresentarsi politicamente nelle istituzioni locali e finanche nazionali, ha reso efficace il modello barese fino alla crisi della spesa pubblica negli anni '80-90. Dopo di che ha avuto inizio un'altra storia, quella che stiamo vivendo.
Intanto, però, occorre puntualizzare che l'idea della città come coalizione omologata di ceto medio non è mai stata vera fino in fondo. Sono fra coloro che hanno sempre ritenuto di dover leggere Bari, piuttosto, utilizzando un altro modello interpretativo, certamente schematico ma più vicino al vero: quello delle "due città". Due, a partire dalla configurazione fisica e urbanistica: il borgo antico, residenza dei ceti popolari e non abbienti, e il borgo murattiano, luogo geometrico della 'modernità' borghese-affaristica. La separazione e, talora, la contrapposizione aperta fra le due città si sono protratte per tutta la storia del Novecento. Finché, nell'ultimo quarantennio, non è incominciata una 'partita' più complessa: da un lato lo svuotamento di Bari Vecchia e la dispersione dei suoi abitanti nelle periferie; dall'altro la fuoriuscita dalla gabbia del moderatismo da parte di fasce consistenti di piccola borghesia: il che avvenne a partire dagli anni '70, grazie alla scuola di massa e alla radicalizzazione dei giovani. Di qui prese le mosse quella capacità di visione critica della città che, scontrandosi con il muro del moderatismo, produceva in molti il sentimento di 'cittadinanza infelice' di cui ho parlato. La linea di confine fra le "due città" si è allungata insinuandosi in tutto il territorio urbano. Bari Vecchia 'rossa e proletaria' si avviava a scomparire, ma d'altro canto incominciava un lungo - e incerto - cammino nel corso del quale un'altra cittadinanza e un altro popolo potevano prendere forma.
Non è questo il luogo per analizzare come la sinistra politica abbia risposto all'esigenza di rinnovamento e di radicale trasformazione del modello cittadino. Osservo solamente che l'altra faccia di quel sentimento di impotenza nei confronti del blocco moderato, di cui s'è detto, proponeva - ahimè più d'una volta - la tentazione di scendere a patti con esso: di assomigliare a quello, in un confronto che avrebbe provato come la sinistra fosse più competente - e , s'intende, prudentemente innovativa - nella gestione degli interessi e della città così com'era. Ma è anche giusto ricordare che, per converso, alcuni momenti alti nella vicenda di un''altra cittadinanza' si sono verificati nella storia di Bari, e non sono trascorsi senza lasciare segni ed eredità, per quanto invisibili e sotto traccia. Penso alla durissima lotta operaia del 1962, che sul versante sociale accompagnò - per certi versi impose - la svolta politica e istituzionale che vide insediarsi la prima amministrazione di "centrosinistra organico" al comune, dopo un decennio di governi monarchici o democristiani: riflesso indubbiamente parziale e insufficiente, presto riassorbito in una dinamica interna alle tradizioni della classe dirigente barese. E penso all'inedita mobilitazione popolare, sindacale, studentesca, intellettuale, che attraversò Bari all'epoca del delitto Petrone, al culmine di anni di crescita di una sinistra sociale e intellettuale; una vicenda che dette una scossa anche al mondo del giornalismo fino a quel momento condizionato da troppe cautele e acritici allineamenti, trovando eco infine tra i banchi del consiglio comunale, prima di scontrarsi con la forza dissolvente del procedimento giudiziario, che restaurò l''ordine' del continuismo moderato.
L'ultimo decennio di vita barese è apparso, sul versante politico, la desolante riprova di un destino immodificabile. Alla fine del duopolio Dc-Psi, determinata dalla crisi politica nazionale (e dopo la parentesi episodica della giunta di sinistra guidata dall'avvocato Laforgia, che nasceva più dall'incertezza del quadro politico complessivo che da uno slancio dei partiti di sinistra) si verificava l'inarrestabile avanzata degli ex fascisti di An, diretti eredi di quella destra missina che per decenni aveva guardato la 'retrovia' del sistema democristiano. La destra "in doppiopetto" che a Bari aveva sempre pesato nell'opinione pubblica moderata, condizionando così la vita cittadina, ora assumeva direttamente il governo della città; e trovava una facile intesa con gli interessi dominanti, ben rappresentati dal sindaco Di Cagno Abbrescia, grande proprietario immobiliare, già esponente del partito repubblicano e possibile candidato del centrosinistra. Cosicché per due volte (nel '95 e nel '99) le coalizioni di centrosinistra hanno perso le elezioni comunali con largo svantaggio.
Il 'modello Bari' era però oramai entrato in crisi. Negli anni scorsi il tema del declino di Bari è stato dibattuto ed elaborato prevalentemente intorno alla categoria della "perdita di centralità". I settori economici più trainanti non sono più dislocati a Bari, a cominciare dal "polo del salotto" murgiano. I processi di deindustrializzazione hanno colpito l'area barese svuotando le fabbriche medio-grandi a capitale pubblico e rimodellando la zona industriale con l'immissione di forza lavoro flessibile e precaria, dentro produzioni che rappresentano un anello gerarchicamente subordinato nella catena dell'economia globalizzata. Il sistema bancario ha trasferito gran parte del suo dinamismo in altri territori pugliesi o è diventato preda di operazioni speculative di società finanziarie del Nord (la vicenda Carime insegna). La stessa edilizia e il commercio - zoccolo duro del 'modello Bari' - hanno conosciuto battute d'arresto e momenti di difficoltà. In una società pugliese caratterizzata da molte polarità socio-economiche e territoriali la città capoluogo ha fallito l'obiettivo di affermare una sua centralità dominante. Ed è un bene che sia così: ma la sconfitta di un monocentrismo illusorio non ha generato un decentramento equilibrato e virtuoso. Bari, città monocentrica per eccellenza (pensata e costruita come tale dalla sua classe dirigente), ha perso la qualità di aggregato sociale 'equilibrato', nel quale il moderatismo si presentava come coesione e consenso del ceto medio attorno a un modello prevalente. Bari oggi assomiglia a un grande disgregato tutt'altro che policentrico. E' cresciuto il degrado dei grandi quartieri periferici, vere e proprie città nella città, isole di precariato e di latitanza di servizi, senza che la destra di governo abbia offerto alcuna soluzione a questo problema. Soltanto la demagogia post-fascista, l'uso spregiudicato delle risorse tuttora disponibili, l'ambiguo atteggiamento di esponenti di spicco della destra verso i clan malavitosi (mediatori di quote di consenso) e verso le forme di illegalità diffusa hanno potuto aver presa sui disgregati popoli delle periferie, in assenza di alternative credibili. Le amministrazioni di centrodestra in verità non hanno fatto che gestire il declino della città, con i suoi fenomeni di peggioramento della qualità urbana, limitandosi ad azioni prevalentemente di facciata. L'idea di Bari costantemente riproposta è stata una coazione a ripetere. Le opere di riqualificazione tanto vantate dall'amministrazione Di Cagno Abbrescia (peraltro discusse) hanno riguardato soltanto il centro cittadino: il lungomare, qualche edificio, le parti esterne del borgo antico. Il progetto di "nodo ferroviario" non risolve la prioritaria questione della mobilità urbana, ma in compenso ingolfa di cemento l'area centrale attorno alla stazione. I parcheggi sotterranei concepiti per il murattiano (buon affare per le imprese di costruzioni) attireranno il traffico automobilistico privato verso il centro, invece di scoraggiarlo. L'antico equilibrio del ceto mercantile è messo a dura prova dal nuovo asse fra imprenditori edili e grande distribuzione (fra poco nell'area della città metropolitana vi saranno dieci ipermercati). L'ispirazione è fondamentalmente la stessa di sempre: impianto monocentrico e monocoltura dell'edilizia. Anche l'ipotesi di "città metropolitana" disegnata dall'attuale sindaco non si spinge al di là di un rapporto di sostanziale colonizzazione fra il capoluogo e i comuni satelliti della cintura barese.
Ma nel frattempo il cammino dell''altra cittadinanza' ha conosciuto un impulso in profondità nell'ultimo decennio. La novità, se pensiamo alla storia dei movimenti sociali a Bari, se pensiamo - per così dire - alla 'archeologia' delle "due città", è stata l'emergere di un'opposizione civile e di massa contro la 'privatizzazione del pubblico', e di una rivendicazione consapevole dello spazio pubblico come connotato di fondo di una città 'altra': insomma, di una sensibilità e di una cultura della città che, pronunciandosi su grandi questioni di merito che attengono alla qualità della vita urbana, si dichiaravano radicalmente incompatibili con il 'modello Bari' quale si è storicamente affermato e stancamente perpetuato. Quando parlo di fenomeno "di massa" non vorrei essere frainteso. Non intendo dire né che questo movimento sia stato o sia oggi maggioritario, né che esso si sia espresso prevalentemente nelle forme tangibili e vistose delle mobilitazioni di massa (per quanto abbia dato vita ad alcune manifestazioni di piazza tutt'altro che trascurabili). Intendo dire che settori significativi di società si sono mossi con spirito radicale su temi - concreti e insieme altamente simbolici - della vita cittadina, e questa sensibilità è penetrata in profondo in una parte dell'opinione pubblica.
Vorrei proporre soltanto alcuni esempi. All'inizio del decennio '90, l'incendio del Petruzzelli suscitò una decisa protesta contro l'immediato delinearsi di progetti speculativi che - dietro il pretesto del rilancio di un simbolo della baresità - si prefiggevano di sfruttare il nudo marchio del Teatro, svincolato dall'immobile distrutto, e di consegnare nelle mani di un blocco di interessi potenti il corposo business della ricostruzione: una classica operazione di espropriazione e privatizzazione di un bene che, nelle condizioni date - sicuramente anomale: un teatro di proprietà privata su suolo pubblico concesso - aveva però funzionato come uno dei luoghi riconosciuti della cittadinanza (della borghesia e del ceto medio, ma anche di strati popolari). Nel primo anniversario dell'incendio si tenne una manifestazione davanti al teatro che, per numero e qualità delle adesioni popolari e intellettuali, rappresentò a mio avviso uno dei primi, rilevanti segnali del costituirsi di un''altra cittadinanza'. Le vicende e le campagne politiche successive hanno in gran parte scongiurato il pericolo iniziale: restano tuttora aperti sia l'iter giudiziario per l'individuazione delle responsabilità del crimine sia il percorso di ricostruzione del Teatro e di definizione del soggetto gestore.
Il caso di Punta Perotti costituisce in qualche modo uno spartiacque nella storia dello spirito pubblico barese. Si contano numerosi, nel passato della città, gli episodi di inserimenti architettonici dissonanti, le espropriazioni speculative ai danni della fruizione pubblica dello spazio urbano. Basti pensare allo stravolgimento del centro murattiano negli anni Sessanta, che ha distrutto le equilibrate geometrie degli spazi condannando il quartiere centrale a un'irreparabile disarmonia. Eppure solamente poche voci - prevalentemente intellettuali - si erano levate contro il succedersi di queste operazioni, assolutamente 'organiche' al modello dominante. Con la speculazione di Punta Perotti tutto cambia. Due torri destinate ad abitazioni di prestigio, erette, grazie alla accondiscendenza della pubblica amministrazione, da un pool di costruttori che incarna limpidamente le ragioni dei 'poteri forti' baresi; un massiccio complesso residenziale rivolto diagonalmente verso il lungomare, sì da consentire ai proprietari degli appartamenti di godere della vista dello skyline urbano, ma sbarrando brutalmente alla cittadinanza la vista del mare e dell'orizzonte. Questa volta l'arroganza ha colmato la misura: e i cittadini hanno odiato immediatamente i palazzi di Punta Perotti. Le innumerevoli iniziative di protesta, le manifestazioni, le denunce e i ricorsi alla magistratura e gli interventi della magistratura stessa non sarebbero stati possibili senza una diffusa e corale presa di coscienza che si è fatta senso comune. Ciò non significa, ovviamente, che la vittoria della cittadinanza sia a portata di mano. Si è visto come quei 'poteri forti' si stiano attivando per salvare almeno in parte i profitti sperati, impedendo l'unica soluzione accettabile per la città: l'abbattimento delle torri. Il 'buon senso' dei moderati, il rimpallo delle competenze politiche e burocratiche, il ricatto delle spese che la demolizione richiederebbe, sono altrettante trappole in agguato, volte a fiaccare la protesta e a far rifluire l'opinione pubblica verso lo scetticismo e la rassegnazione: un copione già recitato, e con successo, nella storia di Bari. Per questo la 'partita' è decisiva: la caduta dell'"ecomostro" lascerebbe un'impronta indelebile nel simbolico e nell'immaginario collettivo; sarebbe l'inizio tangibile di un'altra storia della città. Ma ha già un inestimabile valore il fatto che uomini e donne di Bari abbiano avvertito che non è lecito attentare indefinitamente a quanto di bello possiede la città; e che questa non è condannata a un destino inarrestabile di bruttezza. E' il primo passo per uscire dalla condizione di 'cittadinanza infelice'.
Eloquente e ricco di implicazioni è, inoltre, il caso Fibronit. Innanzitutto una straordinaria storia operaia, di lotta e di resistenza: contro una fabbrica di amianto la cui pericolosità era già nota a più d'uno negli anni Sessanta, e che fu intuita dagli stessi lavoratori, i quali incominciarono una lunga vertenza. L'impressionante sequenza di ammalati e di morti, subìta in primis dai lavoratori, quindi dagli abitanti del quartiere Iapigia, documentata dalle ricerche dei medici del lavoro, ha sollecitato la nascita di associazioni di cittadini per combattere contro il rischio amianto. E' nato un comitato cittadino che è stato momento di raccordo di molti soggetti e di molteplici iniziative di sensibilizzazione, di denuncia, di intervento istituzionale. La manifestazione di strada, tenutasi nel 2001 per chiedere la messa in sicurezza definitiva del sito Fibronit, è stata uno dei momenti alti - ai quali mi riferivo - nel cammino dell''altra cittadinanza' barese. I baresi hanno scoperto con sgomento che un impianto industriale altamente nocivo, sito nel cuore della città, ha potuto, impunemente per decenni, attentare alla vita di uomini e donne. Non c'è solo la causa contro i responsabili dell'azienda: c'è la rivendicazione di una soluzione sicura e definitiva (la copertura irreversibile del sito con l'istituzione di un parco cittadino) e c'è la lotta contro gli agguerriti tentativi di sfruttare l'area per ulteriori operazioni di speculazione, che eludono cinicamente il tema della messa in sicurezza. Perciò il rudere industriale della fabbrica di amianto, dislocato al confine fra i popolosi quartieri di Iapigia e di San Pasquale, è diventato l'emblema di un territorio urbano disseminato di siti nocivi per la salute, se pure non comprovatamente assassini alla stessa stregua della Fibronit. In questa vicenda si intrecciano virtuosamente lotta operaia, tutela della salute, difesa dell'ambiente, critica radicale di un modello urbano, movimento di cittadini e cittadine; e alludono a un cammino e a una prospettiva.
Ricordo, infine, la commossa e indignata partecipazione popolare ai funerali del giovanissimo Michele Fazio (ancora nel 2001), ucciso 'per errore', a Bari Vecchia, dal killer di un clan malavitoso. Non c'era solo il "ceto medio riflessivo" del quartiere Murat o di Poggiofranco, ma c'erano anzitutto donne e uomini della città antica. Allora si è colto il segno della possibile rinascita civile di Bari Vecchia, dopo anni di controllo del territorio nelle mani della criminalità organizzata: altro che pub e rendita immobiliare! Allora ha avuto inizio una diversa storia di Bari Vecchia, con la maturazione di un dibattito e di una iniziativa che hanno riconquistato un posto di primo piano nell'impegno per cambiare la città. Il popolo del borgo antico resta il cuore di una Bari che voglia ripensare se stessa in termini di unità policentrica; e non soltanto perché quel popolo testimonia valori storici e culturali di assoluto rilievo, ma perché la sua presenza in un nuovo movimento di cittadinanza è essenziale, per il legame che si è stabilito con i soggetti attivi e consapevoli dei quartieri moderni del centro, ma soprattutto per le relazioni familiari e amicali che gli abitanti di Bari Vecchia conservano con tanta parte dei popoli delle periferie, esiliati nei decenni scorsi in quei territori senza storia e senza tessuto civile.
Non è questo un elenco di episodi, di sparsi frammenti: è perfettamente leggibile il filo rosso di un percorso che coinvolge spesso gli stessi soggetti e che rivela tratti comuni. La cartina di tornasole è la profonda estraneità della classe dirigente politica e amministrativa del centrodestra rispetto a tutti questi movimenti della nuova cittadinanza barese: una lontananza e un'alterità acutamente percepite dal movimento stesso. Un'altra riprova è l'intreccio fecondo del movimento di 'altra cittadinanza' con i movimenti sociali e politici generali: quello sui diritti (a partire dai diritti dei lavoratori e dalla difesa dell'articolo 18) e quello contro la guerra. Anche a Bari le bandiere della pace appese ai balconi sono diventate una nuova icona del paesaggio urbano. E anche a Bari il mondo cattolico è percorso da fermenti prima sconosciuti. Non è un mondo omogeneo: vi sono parrocchie e realtà ecclesiali impegnate in prima fila sui temi della Fibronit, di Punta Perotti, della rinascita di Bari Vecchia, della pace, dell'alternativa alla globalizzazione neoliberista; e vi è una parte non piccola del mondo cattolico ancora condizionata dall'illusione moderata, dal pregiudizio della estraneità alla politica, dalla relazione con i 'poteri forti'. E' un movimento che manifesta ancora dei 'difetti', se così si può dire, e dei limiti: primo fra tutti, a mio parere, un mancato o insufficiente raccordo - non escluso in linea di principio, anzi reso necessario dalla cultura dei diritti, ma di fatto non realizzato - con le numerose e sparse vertenze che riconducono al tema della precarietà del lavoro nel nostro territorio (licenziamenti, messa in mobilità, chiusura di settori produttivi e di servizi): una costante della geografia sociale barese, alla quale si rischia di fare l'abitudine, poiché le vertenze riproducono i caratteri di frantumazione esasperata della condizione lavorativa. Alla lotta contro la privatizzazione del pubblico, dunque, dovrebbe unirsi, come inscindibile altra faccia della medaglia, la lotta contro la precarizzazione del lavoro, dei diritti e dei servizi. Del resto, già le donne di Bari Vecchia sono scese in piazza contro il taglio dell'erogazione dell'acqua: una semplice avvisaglia di ciò che potrebbe accadere se e quando l'Acquedotto Pugliese verrà privatizzato.
Il movimento di cittadinanza che è in atto può incontrarsi utilmente con la sfera della politica istituzionale, può proporsi di incidere nel cambiamento dei gruppi dirigenti amministrativi, per cambiare la città? Sono convinto di sì, e ritengo che le forze politiche di sinistra e di centrosinistra debbano ripartire da questo movimento, non possano permettersi di prescinderne; anzi, che non siano e non possano essere altro da esso. Ma il cammino intrapreso non si esaurisce in una elezione comunale; il suo tempo e il suo orizzonte non sono limitati a una scadenza, pur importantissima. Ciò che ha avuto inizio in questi anni è la costruzione di una società civile strutturata, che pensa alla città come a uno spazio pubblico non privatizzabile, condiviso e partecipato. Questo movimento può crescere, intorno alle vertenze che ha aperto e ad altre ancora che sono necessarie, se sarà capace di non smarrire la sua radicalità, di non scendere a compromessi con i sostenitori del vecchio modello, monocentrico e monoculturale; di non venire a patti neppure "per vincere": illusione che, altrove, ha disperso più d'una esperienza amministrativa inaugurata con grandi speranze. La sua forza è in questa alterità, in questa radicalità. C'è bisogno di una idea di Bari policentrica, promotrice di lavoro buono e dei diritti sociali, della salute, dell'ambiente; saranno soltanto parole se non entreranno in conflitto con i 'poteri forti': per esempio con quelli che praticano e teorizzano la deregolamentazione degli strumenti urbanistici; che impediscono l'equità fiscale e la tassazione proporzionale al reddito; che ragionano in termini di 'snellimento' o privatizzazione dei servizi, consegnando questi ultimi al business privato e dirottando altrove la spesa pubblica. S'intende, non penso a un movimento che rifiuti le "alleanze". Ritengo però che la forza e la tenacia del conflitto, democratico e partecipato, sia l'unica via praticabile per conquistare al cambiamento settori più vasti di opinione pubblica, per continuare a disgregare il blocco del moderatismo, per sollecitare interlocuzioni anche da altri punti di vista e possibili profili di mediazioni alte; soprattutto, per conquistare l'adesione dei popoli delle periferie, del mondo del lavoro e del precariato al progetto di una città vivibile. E' quest'ultima la prima "alleanza" che il movimento di 'altra cittadinanza' deve saper guadagnare.
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maggio - agosto 2003 |