18 Politico
di Gaetano Cataldo

L'art. 18 si difende e si estende… e può anche unire a sinistra
In tempo di guerra appare forse improprio discutere di temi altri, sebbene caratteristici della riflessione a sinistra. Tuttavia questa guerra dimostra, ancor più d'ogni dissertazione specifica, quanto le battaglie sociali non siano affatto scisse dallo scenario della guerra globale permanente. Con la recente guerra in Iraq si vuole consolidare il primato dell'unica potenza egemone a livello planetario e, in conseguenza all'affermazione militare, si vuole esportare il modello sociale neoliberista. Questa guerra rafforza, oggi più di quanto non abbiano fatto le guerre del passato, l'idea che esistono due fronti: quello estero, contrassegnato dall'idea di guerra preventiva per l'affermazione del dominio imperiale e quello interno, dove, invece, lo scontro sociale è mediato, sottile, impercettibile.

L'idea che liberismo e democrazia sia un binomio felicemente inscindibile è alla radice delle ragioni dell'attacco preventivo all'Iraq. La democrazia che si vuole esportare è fatta di liberalizzazioni, di confische di materie prime, di imposizione di modelli sociali. Lo scenario che USA e Gran Bretagna si apprestano a ridisegnare per il Medio Oriente, senza l'ONU o con una sua versione inoffensiva, ha la sua immagine riflessa in quella sottrazione costante che da tempo avviene a scapito dei diritti acquisiti e del welfare state. Si tratta di un disegno esplicito che nei documenti strategici ufficiali del Governo statunitense trovano ampia discussione: la parola guerra è sempre più legata alla dottrina neoliberista, anzi ne è la diretta conseguenza.

Proprio l'offensiva neoliberista nel nostro Paese ha da due anni la sua versione governativa: il governo Berlusconi, infatti, è un governo borghese, contrassegnato da una doppia natura genetica spesso in conflitto: da un lato liberista sfrenato dall'altro xenofobo, razzista e populista. Quando queste due nature confliggono vi sono evidenti storture e provvedimenti ibridi: si pensi allo "Scudo fiscale", cioè al rientro dei capitali illecitamente esportati con il pagamento di una minima penale e alla Bossi-Fini. Tuttavia, come ha più volte ricordato Antonio D'Amato, presidente di Confindustria e "grande elettore" del governo Berlusconi, ci sono degli impegni che vanno onorati: primo fra tutti la definitiva liberalizzazione del mercato del lavoro. Lo scorso anno sulle deleghe del Governo che contenevano gli "impegni" contratti dalla Casa delle libertà con Confindustria, vi era proprio la riforma dell'articolo 18 oltre ad altrettanto scandalosi provvedimenti che ora sono diventati la "legge Biagi", nome dell'economista assassinato dalle sedicenti nuove BR. I settori più moderati del centro-sinistra hanno ingaggiato una dura battaglia con l'attuale maggioranza per contendersi la paternità dei provvedimenti della legge Biagi, provvedimenti che si inseriscono nel solco tracciato dai precedenti governi presieduti da D'Alema e Amato. La battaglia che invece, la sinistra, il centro cattolico e popolare e le forze del paese reale dovrebbero ingaggiare con la maggioranza è un'altra ovvero l'estensione dell'articolo 18, come proposto dal referendum abrogativo del limite dei quindici dipendenti per l'applicazione della giusta causa o giustificato motivo del licenziamento.

Diciotto per tutte e tutti: si può e si deve
L'anno appena trascorso aveva segnato un risveglio epocale del movimento sindacale: l'onda lunga di Genova e della contestazione al modello capitalista e liberista di sviluppo prendeva corpo unendosi alle lotte per i diritti sul lavoro. La campagna della raccolta firme per la presentazione di sei quesiti referendari riassumeva le istanze del movimento e dei movimenti: difesa del lavoro, dell'ambiente e della scuola pubblica si spostavano dalle piazze e si imponevano al "paese legale" ovvero a quella rappresentanza istituzionale che una legge elettorale stramba ed un popolo di elettori rassegnati e alle volte creduloni ha configurato come destrorsa. Le proposte referendarie hanno aperto una porta per un cambiamento possibile, sebbene la Corte Costituzionale non abbia ritenuto ammissibili, con motivazioni abbastanza discutibili, quattro dei sei referendum (estensione a tutte le imprese delle tutele contenute nello Statuto dei lavoratori, referendum sui residui tossici nei cibi e contro gli inceneritori, referendum per la scuola pubblica). Diviene necessario superare gli ostacoli frapposti dagli interessi di parte padronale e quelli "finti" da parte dei benpensanti del lavoro, ovvero CISL e centro sinistra liberal-laburista (quale meraviglioso ossimoro). L'obiettivo è rendere effettivo un consenso diffuso ad un ragionamento di buon senso: licenziare si può purché ci sia una valida ragione.

Lotta economica e lotta politica:una dicotomia inesistente.
"I sindacati compiono un buon lavoro come centri di resistenza contro gli attacchi del capitale; in parte si dimostrano inefficaci in seguito a un impiego irrazionale della loro forza. Essi mancano in generale, al loro scopo, perché si limitano ad una guerriglia contro gli effetti del sistema esistente, invece di tendere nello stesso tempo alla sua trasformazione e di servirsi della loro forza organizzata come di una leva per la liberazione definitiva della classe operaia, cioè per l'abolizione definitiva del sistema di lavoro salariato"
K. Marx - SALARIO, PREZZO, PROFITTO

Si può ritenere la proposta referendaria un indebito sconfinamento di competenze da parte di partiti e associazioni? Quanto scritto più di un secolo fa serve solo a rendere l'idea di quanto strumentale possa essere la posizione di chi da destra richiama precetti leninisti di rigida divisione tra lotta economica e lotta politica. C'è stato infatti chi ha definito improprio il compito di proposizione dei referendum sociali svolto da partiti e associazioni nonché dalla FIOM che è sicuramente parte significativa del mondo del lavoro. La distinzione tra lotta economica e lotta politica, pur valida teoricamente, non ha attualmente nel movimento alcuna utilità poiché questi referendum sono la concretizzazione di un percorso fecondo di riappropriazione della politica svolto dai movimenti e che ha finito con il coinvolgere anche il più grande sindacato italiano. Ora la CGIL è nel Forum Sociale Europeo ed ha assunto la critica nei confronti dell'attuale sistema economico; inoltre il sindacato fa giustamente politica perché quando si è limitato rigidamente ai propri compiti vertenziali non è riuscito a svolgere un ruolo che poteva essere determinante e critico nei confronti di un "governo amico".

Il mondo del lavoro: terre emerse
In Italia il numero degli occupati si stima attorno ai 23.494.600 (anno 2000) il cui 62% non è coperto dall'articolo 18 (ovvero occupato in imprese al di sotto della soglia dei 15 dipendenti oppure impiegato in maniera irregolare oppure a termine oppure autonomo). In questo sistema sono tuttavia fuori luogo le considerazioni dei detrattori per i quali la vittoria dei "Si" ingesserebbe nuovamente, dopo numerose riforme, il mercato del lavoro. Se limitiamo l'osservazione al mondo del lavoro nelle imprese medie e grandi composto da circa nove milioni di lavoratori e lavoratrici l'esito positivo del referendum non sortirebbe alcun effetto. L'art. 18 della Legge 300 del 1970 si riferisce infatti ai soli casi di licenziamento individuale ovvero quei casi in cui sussistano motivi gravi di inadempienza del lavoratore rispetto all'obbligo contrattuale o ai casi di impossibilità di ulteriore prosecuzione del rapporto di lavoro. Il licenziamento non è illegale ma deve essere subordinato a cause reali oggettive (inerenti l'azienda) o soggettive (inerenti il lavoratore) perché abbia corso. Per le imprese con più di 15 dipendenti il reintegro o l'indennizzo d'importo equivalente al reintegro è obbligatorio ed è stabilito dal giudice del lavoro.

Passando alle imprese al di sotto della soglia dei 15 dipendenti si tratta solo di inibire il licenziamento: ora il licenziamento senza giusta causa produce, laddove è riconosciuta la mancanza di un motivo, solo l'indennizzo da 2,5 a 6 mensilità oppure il reintegro ma la scelta tra le due è delegata al datore di lavoro.

Il mondo del lavoro: terre sommerse
La vittoria del "Si" è tuttavia un vittoria parziale. Infatti mancherebbero le tutele per quella parte non tutelata che è maggioritaria nel nostro paese. I provvedimenti governativi hanno prodotto, in materia di emersione, dei clamorosi fiaschi mentre per l'arcipelago dei nuovi contratti non ci sono pressoché tutele. Lavorare in affitto, part-time, con collaborazioni continuative significa non poter scioperare; essere un lavoratore "atipico" vuol dire diverso rispetto agli altri che le tutele hanno potuto conquistarle. La vittoria del "Si" a questo referendum è solo un'anticamera perché possano avanzare richieste nuove come quella del salario minimo intercategoriale (ovvero pari retribuzione a pari mansione svolta indipendentemente dal tipo di rapporto di lavoro intercorrente), quella dimenticata della riduzione d'orario a parità di salario o quella del salario sociale (volto a garantire una possibilità d'inserimento o almeno un reddito per chi non riuscisse a trovare lavoro). Il "Si", dunque, diviene un motivo in più per avanzare sul piano dei diritti e dello stato sociale.

Un referendum strategico
Sulle implicazioni politiche possibili in caso di vittoria si può solo ben sperare. Si tratta di un'analisi ardua poiché vi sono state in questi mesi di pre-campagna elettorale solo notazioni negative dimenticando che la vittoria del referendum sarebbe per il governo un fortissimo colpo alla sua politica liberista in tema di lavoro.
In negativo si è detto di tutto e non sempre da destra sono venute le critiche più ingenerose. Si è detto che questo referendum, laddove fosse vittorioso strangolerebbe le piccole e medie imprese. Si può obiettare a questi strenui difensori dei ceti medi produttivi che un ragionamento di questo tipo è pericoloso e lesivo delle categorie che si vogliono difendere poiché equivale a dire che le piccole e medie imprese senza licenziamenti ingiusti non possono vivere. Gioverebbe ricordare che l'art. 18 non riduce concorrenzialità e competitività ma semplicemente regolamenta e rende più trasparente il licenziamento individuale.

Si è aggiunto che questo referendum laddove fosse perdente, aprirebbe il varco alle riforme liberiste del Governo. Si può aggiungere che il varco è stato già abbondantemente aperto dai precedenti governi che in tema di lavoro hanno delegato alla mano invisibile della deregolamentazione. I precedenti governi hanno addirittura finto di ragionare su un'ipotesi di riduzione dell'orario ma su questo si consumò la rottura del progetto di centro-sinistra con Rifondazione.

Si è proseguiti nel pensiero pessimistico delineando possibilità rosee, che possibilità non sono, ovvero si è fantasticata la possibile rivisitazione della proposta di legge 848bis (Riforma del mercato del lavoro) dopo incontri concertativi tra le parti (Governo - Sindacati - Confindustria). La strada intrapresa dall'attuale maggioranza governativa è fin troppo in contrasto con qualsivoglia proposta di miglioramento dell'esistente. Rimane quindi solo una beata illusione ogni intento migliorativo dei provvedimenti proposti dal Governo e portati al voto in Parlamento.

Si è infine concluso che quale che fosse l'esito, questo referendum è un indebito sconfinare della politica in temi sindacali. La politica, quella nuova intesa in senso dinamico così come fanno i movimenti da alcuni anni a questa parte, ha aiutato il sindacato a risvegliarsi dal torpore concertativo.

In positivo si può dire molto di più, ma a sinistra, per un'insana abitudine pessimistica, non si dice. Il "coraggio" del Comitato per il "Si" sta proprio nel pensiero positivo. L'offensiva contro i diritti lanciata più di un anno fa e conclusasi con la firma separata di CISL e UIL del Patto per L'Italia, verrebbe sconfessata e respinta dai cittadini. La vittoria del "Si" potrebbe significare una rinata capacità dell'opposizione, nel senso più ampio ed includente del termine, di costruire vertenze e vincerle partendo dal malcontento diffuso ed ostile verso l'attuale Governo di destra. Questo referendum è l'occasione, mancata più volte e per vari colpevoli, della tanto vagheggiata unità della sinistra. Per una volta l'unità della sinistra non si deve evocare ma si deve fare perché il mancato ascolto della propria gente produce il letargo di quest'ultima. Letargo che a sua volta genera mostri come Berlusconi e complici.

15 giugno 2003: un appuntamento per i diritti
La data prescelta è stata volutamente posposta alle elezioni amministrative che si concluderanno, infatti, la settimana precedente con gli eventuali ballottaggi. La scelta del Governo di scindere le consultazioni, duplicando inutilmente i costi, è ovviamente non casuale: aumentando gli appuntamenti elettorali è ovvio che nelle città o province al voto i cittadini propenderanno per l'appuntamento più importante. E' in atto il boicottaggio della consultazione popolare. Dunque la campagna referendaria avrà come l'obiettivo di raggiungere il quorum ovvero la vittoria certa del Si.

Il 15 giugno potrebbe essere i giorno in cui si cominciano a muovere i primi piccoli passi per una riaffermazione dei diritti sul lavoro e per una seria tutela della nostra salute e dell'ambiente in cui viviamo. Il quesito sull'elettrodotto coattivo non deve essere solo retoricamente menzionato perché con questo secondo referendum si abrogherà la servitù di elettrodotto, ovvero la possibilità di esproprio senza indennizzo di suolo agricolo per destinarlo alla costruzione di un impianto elettromagnetico. Questa norma è stata vitale per l'elettrificazione del nostro paese ma ora è solo utile al proliferare selvaggio di antenne in ogni parte del nostro territorio. Anche in questo caso l'attuale Governo ha brillato per la sua partigianeria: ha preso immediatamente le parti dei gruppi di telefonia approvando una legge, che prende il nome del Ministro delle Telecomunicazioni Gasparri, che innalza di ben 25 volte il limite di campo magnetico stabilito dalla legge precedente (che è stata una delle migliori approvate dal centro sinistra!) evitando per le aziende che possiedono elettrodotti il faticoso e costoso compito di risanamento della linea elettrica.

Il 15 giugno l'opinione pubblica, scesa in piazza più volte per rivendicare i propri diritti e le proprie volontà, può dire "No" alle politiche neoliberiste di questo Governo con un "Si". Perché ostinarsi a ragionare sul "Se si perdesse il referendum …" quando si può vincere, solo volendolo?

maggio - agosto 2003