Walter Benjamin
di Marino Centrone

Nella notte fra il 26 e il 27 settembre 1940 Walter Benjamin, uno dei grandi intellettuali del secolo Ventesimo e delle sue sciagure, si suicidava a Port Bou, una piccola località sul confine franco-spagnolo, mentre cercava di sfuggire ai nazisti che stavano occupando la Francia.

La morte di Benjamin - una personalità sottile fino alla tortuosità ermetica, un'intelligenza abituata a scrutare l'infinita complessità della vita illuminando con intuizioni lampeggianti i suoi meandri più oscuri e quasi mimandone l'oscurità indecifrabile - ha la semplicità classica di una tragedia elementare, la sofferenza di un uomo schiacciato da una violenza bruta. Quando si viene al dunque, il nazismo non permette più alcuna sottigliezza né alcuna complessità, ma mette di fronte alla nuda bestialità. Forse questo è uno dei suoi involontari pregi, perché favorisce la chiarezza morale, facendo capire dov'è e quale è il male e facendo capire dunque la necessità di abbatterlo. Per tali ragioni Thomas Mann diceva che, dal punto di vista morale, il nazismo era stato un'epoca invidiabile, in cui era facile vedere da che parte stava il male e quindi scegliere. Nato a Berlino nel 1892 da una facoltosa famiglia ebraica, Benjamin è un singolare, originalissimo rappresentante di quella cultura o meglio di quella simbiosi culturale ebraico-tedesca che è stata uno dei grandi capitoli della civiltà europea e che il nazismo ha distrutto con barbarie imbecille e suicida, perché con essa ha distrutto gran parte della più grande Germania. Dal Talmud, modello mai abbandonato nemmeno dopo l'adesione sia pur problematica al materialismo storico, Benjamin aveva imparato che la comprensione e l'intelligenza della realtà sono una continua lettura e interpretazione delle cose, una decifrazione di quel senso nascosto del mondo scritto, come un anagramma, non solo nella Bibbia ma negli oggetti, nei fenomeni, nelle figure anche minime e fugaci dell'esistenza. Benjamin insegna a leggere la realtà, a cogliere i suoi significati metafisici nella cronaca più spicciola e nelle apparenze più effimere; cerca l'Eterno e la Storia nel minimo, nell'infimo, nel momento più insignificante; dietro la lingua quotidiana insegue, secondo la tradizione cabbalistica, l'originaria e sepolta lingua adamica, che dice le cose stesse. Il suo modello è il vagabondo che passeggia per le vie della metropoli cogliendo, come Baudelaire, nei fregi e nelle crepe dei palazzi e dei monumenti la grandezza e la caducità del Moderno, la legge inesorabile e nascosta del suo tumultuoso proliferare e del suo rapido tramontare. Nel marxismo, professato con eretica e sibillina originalità, Benjamin vide l'espressione concretamente storica di quell'anelito alla redenzione annunciato dalle Sacre Scritture; la Rivoluzione, per lui, è indistinguibile da questo spirito messianico, dall'esigenza di riscattare la creazione dal dolore. Intrecciando marxismo e teologia, egli cerca una salvezza che non è solo storica; la Storia - come dice il saggio Le origini del dramma tedesco - gli appare un sanguinoso trionfo dei vincitori, seguito dal doloroso corteo dei vinti; gli appare dunque un'oscura allegoria barocca che non rimanda ad alcun universale, bensì alla caducità, alla malinconia, al lutto. Accanto ad Adorno e a Horkheimer, in una posizione più anomala e irregolare, Benjamin è uno dei padri di quel "pensiero negativo" che ha contestato le filosofie ottimisticamente fiduciose nel progresso; quest'ultimo, per lui, è anche un cumulo di rovine che l'angelo della storia si lascia alle proprie spalle nella sua corsa. La critica del progresso è oggi più che mai necessaria, dinanzi a tante catastrofi e regressi chesmentiscono ogni fede nella sicura marcia verso il bene e ogni superba certezza che oggi sia meglio di ieri e domani meglio di oggi. Ma è necessaria una critica progressiva, non reazionaria del progresso; una critica che dalla consapevolezza della possibile ricaduta - in ogni momento - nella barbarie, tragga forza per contribuire al miglioramento reale dell'umanità intera. Solo l'Illuminismo, solo la ragione, possono legittimamente criticare gli errori e le colpe di un certo ingenuo o autoritario progressismo illuminista. L'intreccio di teologia e materialismo storico costituisce il fascino e spesso la difficoltà delle pagine di Benjamin; era un'anima nata per cantare, per essere poeta, ma incapace di esserlo veramente e perciò talvolta vittima di una poeticità compressa in astrusi cortocircuiti concettuali. Ma ha insegnato a leggere la realtà come un graffito, a captarne i messaggi, spesso annunci di disastri di cui non ci si vuole accorgere."La progressiva proletarizzazione degli uomini d'oggi e la formazione sempre crescente di masse sono due aspetti di un unico e medesimo processo.Il fascismo cerca di organizzare le recenti masse proletarizzate senza intaccare i rapporti di proprietà di cui esse perseguono l'elininazione. Le masse hanno diritto a un cambiamento dei rapporti di proprietà; il fascismo cerca di fornire loro una espressione nella conservazione delle stesse.Il fascismo tende conseguentemente ad una estetizzazione della vita politica." (W.Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966; p.46).Alla violenza esercitata dal duce sulle masse corrisponde l'asservimento delle membra, dei corpi alla potenza degli strumenti tecnici, all'imperialismo della tecnica. Il momento estremo di realizzazione di questo drammatico rapporto é la guerra; non più vista come distruzione delle risorse, ma come massima espressione della potenza della tecnica e del protagonismo suicida delle masse. Nella ricostruzione presentata con acuta lucidità da Benjamin, il manifesto di Marinetti e dei futuristi per la guerra coloniale in Etipia contiene a chiare lettere gli enunciati di quel processo di estetizzazione della guerra perseguita da masse incomposte di uomini agli inizi del secolo.
"La guerra é bella perché perché inaugura la metallizzazione del corpo umano.La guerra é bella perché riunisce in una sinfonia il fuoco di fucili, le cannonate, le pause tra gli spari, i profumi e gli odori della decomposizione.La guerra é bella perché crea nuove architetture, come i grandi carri armati, le geometriche squadriglie aeree, le spirali di fumo elevantisi da villaggi bruciati e molto altro ancora." La guerra imperialistica rappresenta il culmine delle contraddizioni del sistema capitalistico perché uomini e mezzi, strumenti produttivi e forze addette alla produzione vengono distrutte e dissipate. L'estetizzazione della violenza rappresenta l'espropriazione totale delle masse dalla fruibilità dei mezzi tecnici della produzione. Per questo Benjamin propone una riappropriazione dell'oggetto estetico, una politicizzazione dell'arte, una riconquista di essa da parte della multitudo, della gente, dei popoli.Agli inizi della civiltà l'arte esprimeva un valore sacro e simbolico connesso ai riti religiosi.Nei graffiti e nelle icone si rappresentava l'assoluto, l'assolutamente inesprimibile. Questo momento viene caratterizzato da due luoghi semantici il concetto di aura e l'hic et nunc; le opere d'arte contengono un valore che le trascende, l'aura, il rapporto con l'assoluto e la sua non riproducibilità, l'hinc et nunc. Questo quadro teorico sorveglia la produzione estetica fino agli inizi dell'era moderna, quando con l'avanzamento delle pratiche di riproduzione si assiste ad una nuova definizione delle produzioni artistiche. L'oggetto diventa riproducibile e fruibile in luoghi diversi da quello in cui é stato creato. Nella società di massa con l'avvento della fotografia e della cinematografia la riproducibilità diventa un aspetto essenziale nella creazione di un opera d'arte. Fotografie e pellicole cinematografiche possono essere moltiplicate all'infinito aprendo nuovi spazi di fruibilità, sconosciuti in epoche lontane. Benjamin si chiede se questa moltiplicazione di piani debba essere interpretata come sterile estensione dei meccanismi di cattura dell'industria culturale o come possibilità di intervento dei soggetti nel processo di appropriazione dell'oggetto estetico. "Ciò che vien meno é insomma quanto può essere riassunto con la nozione di «aura»; e si può dire ciò che vien meno nell'epoca della riproducibilità tecnica é l'aura dell'opera d'arte." È vero l'arte, diventando riproducibile perde la sua aura; residuo elitario, aristocratico, magico e religioso, ma si apre ad una possibilità incontrollabile di nuove espressioni ed articolazioni, si dispone nel flusso vitale che milioni di individui sono chiamati ad esprimere, sollecita tensione creativa rispetto a nuovi valori, il valore dei valori, il valore della libertà; quella che Benjamin chiama una riconquista politica dell'arte. L'unicità dell'oggetto artistico rimanda al ruolo della tradizione e della conservazione, mentre la possibilità di pluralizzarlo produce un nuovo atteggiamento delle classi rispetto alla realtà. Il ruolo magico esercitato dall'oggetto artistico nel periodo antico e nel Medioevo si disperde nell'oggetto riprodotto nella società di massa, anche se il pensiero borghese tende a preservare il dissiparsi dell'essenza dell'oggetto nella filosofia dell'arte per l'arte, una nuova forma di una teologia dell'arte. Anche la fotografia quando per la prima volta si é presentata come forma di arte ha tentato di preservare l'aura, concentrando l'obiettivo sul volto umano, solo in seguito sono apparsi paesaggi silenziosi, squallidi dormitori collettivi, le camere di Auschwitz, le strade solitarie."Nella fotografia il valore di esponibilità comincia a sostituire su tutta la linea il valore culturale. Ma quest'ultimo non si ritira completamente. Occupa un'ultima trincea, che é costituita dal volto dell'uomo. Non a caso il ritratto é al centro delle prime fotografie: nell'espressione fuggevole di un volto umano, dalle prime fotografie, emana per l'ultima volta l'aura. È questo che ne costituisce la malinconia e incomparabile bellezza. Ma quando l'uomo scompare dalla fotografia, per la prima volta il valore espositivo propone la propria superiorità sul valore culturale."Lo stesso rapporto può essere impostato fra una rappresentazione teatrale e le riprese cinematografiche. L'attore che interpreta il Macbeth esprime ancora un'aura che trasmette al pubblico presente, si crea una comunicazione intensa fra attore e spettatori che preserva quell'aria di sacralità che proviene dalle opere del passato. Nelle riprese di una sequenza cinematografica invece il rapporto si instaura fra attore ed apparecchiatura; l'aura scompare e si aprono infiniti livelli di fruizione del prodotto cinematografico."Per la prima volta l'uomo viene a trovarsi nella situazione di dover agire con la sua persona vivente, ma rinunciando all'aura. Poiché la sua aura é legata all'hic et nunc. L'aura che sul palcoscenico circonda Macbeth non può venir distinta da quella che per il pubblico vivente avvolge l'attore che lo interpreta. La peculiarità delle riprese negli studi cinematografici consiste però in questo, che esse pongono l'apparecchiatura al posto del pubblico. L'aura che circonda l'interprete deve così venir meno e con ciò deve venir meno anche quella che circonda il personaggio interpretato". Lo stesso rapporto si può delineare fra pittura e cinematografia; i livelli di fruibilità simultanea dei dipinti non sono quelli di un film perché l'accesso ai dipinti é sempre selettivo e in alcune circostanze del passato basato su gerarchie. In alcune chiese del Medioevo solo i sacerdoti potevano entrare nelle sale delle icone che venivano esposte al pubblico in circostanze particolari. Nell'era della riproducibilità tecnica il rapporto fra pittura e arte può essere espresso dal rapporto intercorrente fra un Picasso e un film di Chaplin. "La riproducibilità tecnica dell'opera d'arte modifica il rapporto delle masse con l'arte. Da un rapporto estremamente retrivo, per esempio nei confronti di un Picasso, si rovescia in un rapporto estremamente progressivo, per esempio nei confronti di un Chaplin".Il cinema secondo Benjamin può rappresentare una dilatazione degli spazi e del tempo che moltiplica le possibilità creative dei soggetti. "Le nostre bettole e le vie delle nostre metropoli, i nostri uffici e le nostre camere ammobiliate, le nostre stazioni e le nostre fabbriche sembravano chiuderci irrimediabilmente. Poi é venuto il cinema e con la dinamite dei decimi di secondo ha fatto saltare questo mondo simile ad un carcere; così noi siamo in grado di intraprendere tranquillamente avventurosi viaggi in mezzo alle sue sparse rovine. Col primo piano si dilata lo spazio, con la ripresa al rallentatore si dilata il movimento".

Questo messaggio va indubbiamente collocato nel contesto culturale in cui venne lanciato; intendiamo riferirci al dibattito sul realismo socialista e alla conseguente polemica che la sua involuzione in forme dogmatiche e sclerotiche produsse subito dopo la Rivoluzione di Ottobre, ma presenta forti elementi di attualità nell'analisi della società contemporanea e sulle possibili linee di fuga, fra cui la musica, l'arte, il ruolo delle etnie, il popolo del blues, il suo esprimersi nella musica possono esercitare per una critica della società blindata, del suo pensiero unico, della tenace politica di riduzione dei soggetti a variabili controllate, l' avvento del Grande Fratello. L'erranza creativa, il nuovo pensiero nomade, la comunicazione molecolare fuori dal controllo dei media, i passi di danza visti nelle strade di Firenze, la creazione dei brani musicali nei sotteranei delle metropolitane o nei sobborghi dei quartieri londinesi, nei ghetti e nelle favelas possono rappresentare tenui percorsi di liberazione dei popoli, l'avvio di pratiche tese alla scomparsa della povertà e della miseria.

gennaio - aprile 2003