I tre saggi di Veblen, qui commentati, sono stati tradotti da Francesco Mancini e saranno pubblicati nel prossimo numero della rivista.
I saggi di Thorstein Veblen che si propongono in traduzione risalgono al periodo immediatamente successivo alla prima guerra mondiale.
Il primo, pubblicato il 17 maggio 1919, riferendosi agli accordi di pace ancora in corso di stipula, ribadisce, in maniera sintetica, la concezione dell'autore circa la irrimediabile incompatibilità fra natura e funzionamento del sistema industriale, da un lato, e modalità di conduzione e regolazione dello stesso da parte degli uomini di stato del vecchio ordinamento, nell'interesse degli uomini d'affari, della finanza e delle classi parassitarie. Il secondo, pubblicato nel 1920, è una recensione, in pratica una feroce stroncatura, dell'analisi del trattato di pace fatta da John M. Keynes nel suo famoso libro The economic consequences of peace. Il terzo, risalente al 1922, è un'analisi degli effetti negativi dell'intervento bellico americano, sui paesi europei e sugli stessi Stati Uniti. Con la riproposizione di questi scritti, a tanti decenni di distanza, si vuole contribuire, ancorché in piccola misura, alla conoscenza di uno dei più importanti sociologi ed economisti del Novecento, il cui pensiero è sempre stato in gran parte misconosciuto e bistrattato, verosimilmente per le sue posizioni estremamente critiche nei confronti del capitalismo dei capitani d'industria, delle politiche militariste e della spesa per armamenti. Ma l'interesse dei saggi in argomento è anzitutto nei temi trattati, nel punto di vista espresso dall'autore, nel fatto di riferirsi e collocarsi in un punto cruciale della storia dell'Occidente e di fornirne una analisi per diversi aspetti profetica e ricollegabile alla più stretta attualità. Il primo conflitto mondiale, la cosiddetta grande guerra, segna la crisi del dominio del mondo da parte delle nazioni europee e la progressiva loro sostituzione in questo ruolo da parte degli Stati Uniti. È anche l'epoca della nascita dell'Unione Sovietica, ossia del paese che fino ai primi anni '90 del XX secolo avrebbe rappresentato il nemico e l'antagonista del governo americano nella divisione del mondo in blocchi contrapposti. Ma la prima guerra mondiale è soprattutto il momento della storia dell'umanità, del capitalismo e della cristianità, in cui, in maniera atroce e per molti del tutto inattesa, il crimine, il gusto del sangue e del massacro, il genocidio, lo scatenamento di quanto di barbaro, irrazionale ed istintuale permane negli uomini di ogni epoca e di ogni angolo del mondo tornano all'improvviso a caratterizzare i rapporti, fino ad allora in apparenza sostanzialmente pacifici, tra i popoli d'Europa, coinvolgendo buona parte del restante mondo cosiddetto civile. Sui motivi per cui i quattro cavalieri dell'apocalisse tornano a scatenarsi in grande stile sul suolo europeo proprio in quell'epoca è questione dibattuta, ma certamente tra le cause deve essere data fondamentale importanza al rallentamento od esaurimento delle ulteriori possibilità di espansione territoriale e di acquisizione di nuove ingenti risorse, senza contropartita, al di fuori dell'Europa. Come noto, dalla fine delle guerre napoleoniche, i conflitti sul suolo europeo o erano stati del tutto assenti o avevano avuto carattere poco più che di scaramucce, quantomeno se rapportati a quelli che avrebbero funestato la prima metà del Novecento. Questo non significa che si possa dire che fosse mutata la natura della civiltà occidentale o del capitalismo, cosa di cui, invece, almeno una parte dell'intellettualità europea si era illusa. Il crimine, il massacro, il saccheggio, lo schiavismo non erano cessati affatto. Era semplicemente cambiato il teatro della tragedia, essendo risultato conveniente, vantaggioso e, quindi, preferibile, per l'Occidente ed il capitalismo, esercitare la loro propensione aggressiva, predatoria e sanguinaria, in larga prevalenza, nei confronti dei popoli e dei territori di nuova espansione in Africa, in Asia, nelle Americhe ed in Oceania. A riprova, sarebbe già sufficiente rammentare che la razzia, la tratta degli schiavi, la pratica legale dello schiavismo e della compravendita di uomini perdurarono nell'Oceano Atlantico e negli Stati Uniti fino al 1861 e, dopo la guerra civile americana e fino agli anni '50 del ventesimo secolo, sono state sostituite da qualcosa di leggermente meno ignobile, la segregazione razziale, forse altrettanto degna, però, delle elevate tradizioni di civiltà, solidarietà e fratellanza universale dell'Occidente cristiano, del resto mai scomparsa del tutto nel sud degli Stati Uniti. Se ciò non dovesse bastare, si potrebbe rammentare il massacro sistematico dei nativi del Nord America e le dimensioni delle violenze, rapine e frodi perpetrate nei loro confronti, oltre alla altrettanto sistematica imposizione, da parte del potere economico, politico e militare statunitense, di condizioni di sfruttamento, assoggettamento e sovranità limitata ai paesi dell'America latina, col ricorrente ricorso al colpo di stato ed all'assassinio politico. Forte della formidabile quantità di risorse accumulate con tale pratica, quantomeno singolare, dei principi di libertà, democrazia e sovranità delle nazioni, il potere politico-affaristico, finanziario e militare al governo negli Stati Uniti si presenta, con l'intervento nella prima guerra mondiale, ad esigere i diritti acquisiti di supremazia, in sostituzione del vecchio e ormai logoro padrone britannico. Qualcuno forse ricorderà, a questo proposito, il contenuto del cablogramma che l'ex ambasciatore americano a Londra, Walter Hines Page, spedì il 5 maggio 1917 al presidente Wilson e fu seguito un mese più tardi dalla dichiarazione di guerra dell'America contro la Germania. Dopo che Page ebbe spiegato al presidente lo stato finanziario critico della Francia e dell'Inghilterra ed ebbe sottolineato che questo avrebbe portato alla completa cessazione del commercio transatlantico, continuò dicendo: "La conseguenza di un simile blocco porterebbe il panico negli Stati Uniti
Il mondo pertanto si dividerà in due emisferi, uno, il nostro, avrà oro e merci; l'altro, la Gran Bretagna e l'Europa, avrà bisogno di queste merci, ma non avrà denaro con cui pagarle. Inoltre, praticamente non avrà merci sue da scambiare con queste. Il risultato commerciale e finanziario sarà quasi altrettanto negativo per gli U.S.A. che per l'Europa. Presto saremo in queste condizioni se non ci mettiamo velocemente in moto per evitarlo. La Gran Bretagna e la Francia devono avere credito negli USA e sarà abbastanza ampio da evitare il collasso del commercio mondiale e di tutta la struttura finanziaria europea. Se gli USA dichiarano guerra alla Germania, il massimo aiuto che potremmo dare alla Gran Bretagna e ai suoi alleati sarebbe tale credito. Se adottassimo questa politica, un eccellente piano per il nostro governo sarebbe quello di fare un grosso investimento in un prestito franco-britannico. Un altro piano sarebbe di garantire tale prestito. Grande vantaggio verrebbe dal fatto che tutto il denaro sarebbe tenuto negli Stati Uniti. Potremmo continuare il nostro commercio ed incrementarlo, fino alla fine della guerra, e dopo la guerra l'Europa acquisterebbe alimenti ed enormi quantità di materiale per riorganizzare le sue industrie di pace. Così noi raccoglieremmo il profitto di un ininterrotto e forse aumentato commercio in un certo numero d'anni e avremmo i loro titoli in pagamento. D'altra parte, se noi avessimo quasi tutto il denaro e l'Europa non potesse pagare per riorganizzare la sua vita economica, potrebbe esserci un panico a livello mondiale per un periodo indefinito. Naturalmente non possiamo estendere tale credito a meno che non facciamo la guerra alla Germania" (1). Prima di fare affermazioni francamente idiote circa una pretesa minore propensione al colonialismo ed all'imperialismo da parte delle istituzioni affaristiche, finanziarie, politiche e militari degli Stati Uniti, si dovrebbero ricordare, oltre a quanto già sottolineato, i modi ed i mezzi con cui furono occupate e sottratte, tramite l'azione dei coloni - termine che verosimilmente ha qualcosa a che fare con le parole colonia e colonizzazione - ai popoli nativi gli immensi territori del Nord America e furono combattute le guerre contro il Messico e la Spagna, a fini di espansione territoriale e di acquisizione di ulteriori fonti di risorse, zone di influenza c basi militari in territorio straniero (2). Alcuni territori, come la Louisiana, l'Alaska e le Hawaii furono ottenuti con mezzi politici e finanziari sostanzialmente pacifici, ma ciò sta solo a confermare che talora l'imperialismo può presentare un volto incruento. Ciascuno è padrone di definire o meno imperialismo ciò che gli pare, ma l'esclusione del governo degli Stati Uniti da un tale contesto sembra davvero presentare tutti i caratteri della partigianeria e faziosità. Come si sarà potuto notare, quanto fin qui esposto non è frutto di opinione o di un punto di vista particolare; si tratta, invece, di fatti storici certi, non contestati o contestabili da nessuno, che sia, ovviamente, in buona fede, non eccessivamente ignorante ed in accettabili condizioni di salute mentale. È possibile e verosimile, però, che una certa tendenza patologica, forse una prosecuzione, evoluzione o accentuazione della forma di demenza descritta da Veblen nel suo saggio del 1922, si traduca nell'età contemporanea anche in uno scadimento della memoria, oltre che delle facoltà logiche. Tale patologia sembra esprimersi in una diffusa sostanziale incomprensione della natura e del funzionamento della società occidentale, del suo sistema socioeconomico e delle sue istituzioni politico-affaristico-finanziarie. Ciò comporta una palese sottovalutazione dei loro aspetti criminali, irrazionali e, in ultima analisi, suicidi, oltre che una inquietante indisponibilità ed inettitudine a percepire l'ovvio e l'evidente e ad esercitare le regole del buonsenso. Un esempio illuminante dovrebbe essere rappresentato - ma evidentemente non lo è - dai cosiddetti paradisi fiscali, ove vengono riciclati e ripuliti i capitali, accumulati con la corruzione politica, i traffici di droga, di armi, di valuta, di organi, di uomini, di donne e bambini ridotti alla schiavitù e/o sfruttati sessualmente e, in genere, le attività malavitose, per essere utilizzati, fra l'altro, per finanziare guerre, guerriglie e terrorismi in ogni parte del mondo. Questi fenomeni criminosi raggiungono le loro impressionanti dimensioni, proprio per la "comodità" di farne sparire gli ingenti profitti in qualche paese compiacente. Eppure, non risulta che sia stata neanche minimamente ventilata la possibilità di inserire tali paesi tra i cosiddetti stati canaglia. A pensarci, sarebbe una ben strana e incomprensibile dimenticanza, se fosse vera. Considerazioni strettamente analoghe valgono per la pioggia di scandali finanziari - Enron, WorldCom, Quest, Global Crossing, Aol Time Warner, Lucent Technologies, Kmart, Xerox ecc. ecc. - che per le loro modalità e dimensioni hanno prodotto danni e perdite all'economia, ai lavoratori, ai pensionati ed ai risparmiatori del tutto paragonabili a quelli causati da guerre ed escalation degli armamenti. Anche in questo caso, la mancanza o inefficienza dei controlli appare, più che sospetta, incredibile ed inverosimile, sia per le dimensioni colossali delle truffe poste in atto, sia, soprattutto, per l'infimo livello dei trucchi contabili e degli espedienti di bassa macelleria utilizzati allo scopo. Anche in tale contesto, non ci sono state conseguenze significative, in termini di consenso popolare ed elettorale, per l'amministrazione governativa, il cui sostegno ai managers truffatori è stato corposo e decisivo a tutti i livelli, compreso quello legislativo. Nulla di nuovo sotto il sole: già negli scritti di Veblen si parla di malefatte governative volte a favorire imprese nazionali e della patologica credulità del pubblico. Veblen, come già si è accennato, mette in luce nelle sue opere di contenuto economico il contrasto insanabile fra la natura del sistema economico moderno e gli interessi e i moventi di chi ne detiene la direzione e il controllo. L'autore sottolinea la natura meccanicistica di tale sistema, assimilabile, cioè, a quella di una macchina, per il fatto che tutte le sue parti componenti sono connesse e solidali fra loro e legate da un rapporto di reciproca dipendenza e mutuo servizio. All'opposto, gli interessi particolari agenti nell'ambito di tale sistema in favore del profitto, della rendita e dei proventi finanziari tendono costantemente ad ottenere, negli scambi, il massimo per il minimo e, a tal fine, ostacolano, bloccano e, comunque, condizionano il flusso delle risorse umane, materiali e finanziarie. Essi hanno, cioè, carattere intrinsecamente predatorio e si realizzano tramite il sistematico sabotaggio e danneggiamento dell'efficienza complessiva del sistema produttivo, riducendone drasticamente o annullandone l'idoneità a soddisfare i bisogni della gente comune. Il pensiero di Veblen è stato bollato come estremista. Gli sono stati rinfacciati il sostegno e la comunanza di idee con i sindacalisti rivoluzionari I.W.W., gli anarchici, i comunisti, i pacifisti, gli obiettori di coscienza e antipatriottici di ogni genere. Tutto questo è vero, naturalmente, così come è giusto porre in luce l'inconsistenza e la velleitarietà di buona parte delle proposte vebleniane di riforma del sistema socioeconomico (tra cui la costituzione di un fallimentare soviet degli ingegneri). E tuttavia questo non significa affatto che la sua concezione della società e delle istituzioni capitalistiche (impresa, profitto, monopolio, sistema bancario, società per azioni, ecc.) definita "selvaggia", ad esempio, da Heilbroner nella sua storia del pensiero economico, sia da ritenere manifestamente infondata o peregrina. Alla luce della evoluzione dei sistemi socio-politico-economici successiva all'epoca di Veblen, la possibilità che le istituzioni capitalistiche abbiano contenuto e funzionamento strutturalmente predatori ed irrazionali e pesanti risvolti ed implicazioni criminali merita di essere opportunamente approfondita e verificata. Non manifestamente infondata è da considerarsi, peraltro, l'ipotesi che il ruolo avuto dalla borghesia nella edificazione del sistema di produzione basato sulla fabbrica e sul lavoro salariato possa considerarsi del tutto episodico e transitorio. Non sono passati tanti anni, dopotutto, dalla rivoluzione industriale e il sistema socioeconomico che ne è derivato non può tuttora considerarsi sufficientemente e positivamente sperimentato, né ha mai dimostrato di essere stabile e in grado di tirare avanti senza guerre, armamenti, massacri, saccheggi, frodi, ruberie, riduzioni in schiavitù e altri crimini vari. La finanziarizzazione sta spazzando via quello che resta del sistema della fabbrica e del lavoro salariato, perfettamente in linea con l'assunto di Veblen, per cui scopo dell'uomo d'affari è far soldi, non produrre beni o soddisfare bisogni. In ogni caso, benché ritenuto, in vita, un irresponsabile e non rispettabile antipatriottico e disfattista, come tale indegno di riconoscimenti scientifici ed accademici, Veblen ha avuto una influenza assai rilevante nel successivo sviluppo delle idee sociologiche ed economiche. Egli è, fra l'altro, universalmente considerato e riconosciuto come l'iniziatore e precursore della scuola istituzionalista e neoistituzionalista, in cui si sono riconosciuti alcuni fra i più grandi economisti del Novecento, sia di destra che di sinistra, fra cui John K. Galbraith, riconosciuto maître à penser della sinistra liberal americana, Oliver E. Williamson, Friedrich A. Von Hayek, James McGill Buchanan, Ronald H. Coase, Douglass C. North, dei quali gli ultimi quattro sono stati insigniti del premio Nobel per l'economia, rispettivamente, negli anni 1974, 1986, 1991 e 1993. Circa i possibili collegamenti degli scritti vebleniani con l'attualità, è sufficiente riflettere sull'analogia tra le modalità e le motivazioni della repressione di pacifisti, obiettori di coscienza e militanti della sinistra rivoluzionaria e sindacale negli Stati Uniti ai tempi dell'autore e quelle sulla cui base ultimamente vengono, anche in Italia, inquisiti o arrestati i militanti del movimento antiglobalizzazione, ambientalisti, terzomondisti e del sindacalismo di base, accusati, nientemeno, "di sovvertire violentemente l'ordinamento economico costituito dello stato, di sopprimere la globalizzazione dei mercati economici, di sovvertire l'ordinamento del mercato del lavoro e di caratterizzare progressivamente tutto il movimento per farlo diventare un'associazione sovversiva", ossia soprattutto di opinioni, ancorché in inconciliabile dissenso con quelle dominanti. È un fatto, invece, evidente e incontestabile, che la repressione è intervenuta proprio all'indomani del clamoroso successo della imponente manifestazione di Firenze del 9 novembre, totalmente e festosamente pacifica, che - occorre sottolinearlo - si è anche e soprattutto caratterizzata per l'opposizione intransigente alla guerra, preventivata dall'attuale governo degli Stati Uniti contro l'Iraq. Potrebbe essersi trattato di una coincidenza, naturalmente, e quindi sarebbe stata una coincidenza anche il fatto che gli arresti decisi dalla procura di Cosenza abbiano fatto immediato seguito al discorso tenuto dal papa al parlamento italiano contro il neoliberismo, il consumismo, l'ineguale ripartizione della ricchezza, le restrizioni all'immigrazione e, soprattutto contro la guerra e gli armamenti. Al di là di opinioni e polemiche, è pure un fatto - anch'esso incontestabile - che l'argomento degli arresti abbia spazzato via dai mezzi di comunicazione di massa l'importante dibattito avviatosi sullo storico intervento del papa. Non è da dubitare, al riguardo, che l'establishment politico-economico tema ben di più il possibile insorgere di una opposizione alla guerra, agli armamenti ed alla NATO tra i benpensanti, moderati e patriottici, tradizionalmente sensibili ai discorsi del papa e portati ad uniformarsi alle posizioni del Vaticano, piuttosto che il dissenso pacifista delle sinistre, ritenuto rituale e scontato. Veblen, che in tutti i suoi scritti manifesta sempre la sua totale avversione alla guerra, ne evidenzia le pesanti conseguenze sul popolo americano in termini di costi umani e finanziari (aumento delle imposte, del deficit e del debito pubblico), oltre che di perdita di libertà e diritti civili (arresti di massa, sospensione delle garanzie per gli imputati di sovversione, persecuzioni ed esecuzioni di sindacalisti rivoluzionari, pacifisti, comunisti e, in genere, esponenti politici dissenzienti, anche ad opera di organizzazioni più o meno paramilitari ed extralegali) e, perfino, di scadimento del livello di salute mentale. L'autore sottolinea, infatti, contestualmente alla crescita del tasso di patriottismo, militarizzazione e repressione, prima, durante e dopo la cosiddetta grande guerra, un inquietante aumento della credulità popolare e di uno stato di eccitata inquietudine, tale da mettere in seria difficoltà le facoltà logiche e perfino le semplici regole del buon senso. Non sembra che il tempo trascorso abbia migliorato la situazione sotto questo aspetto. L'elevato tasso di credulità, sembra, anzi, aver investito nel frattempo buona parte dei popoli europei, oltre a quello americano. In consistente parte, essi sembrano credere che i loro capi di stato e di governo siano realmente occupati a salvaguardare la libertà, la civiltà, la democrazia, i principi cristiani e perfino la pace, ovviamente tramite il rafforzamento degli armamenti e delle relative spese e forniture e, quando occorre, anche tramite la guerra, beninteso sempre rigorosamente giusta ed umanitaria. Nel trattare la vicenda storica della prima guerra mondiale e in particolare le modalità della sua conclusione, Veblen evidenzia un aspetto che sarà poi una costante della politica del governo degli Stati Uniti: la tendenza a salvaguardare e garantirsi la presenza, possibilmente permanente, di un qualche nemico, da qualche parte nel mondo. Questo nemico va opportunamente reso, tramite la propaganda, sufficientemente terribile, pericoloso e barbaro, da poter essere presentato come una minaccia abbastanza grave alla civiltà dell'Occidente cristiano, tanto da giustificare l'escalation degli armamenti e dei profitti dei capitani d'industria e dei banchieri che ne controllano la produzione e la finanziano, ovviamente, con i soldi dei contribuenti e dei risparmiatori. In anni recenti, dopo il tracollo del blocco sovietico, i profitti ed il potere del complesso militare-industriale americano sono stati oggetto di seria minaccia, per la mancanza di un nemico abbastanza temibile da sostituire a quello appena dissoltosi. Non erano pochi quelli che già cominciavano a parlare della opportunità di conseguire il dividendo della pace, ossia, in altri termini, di disarmare e ridurre gli stanziamenti alla produzione ed alla ricerca nel settore degli armamenti, oltre che della inutilità del permanere di una organizzazione militare, la NATO, sorta per far fronte al blocco sovietico durante la guerra fredda. La messa a punto del guerrorismo, ad opera dei famosi e - a spese dei contribuenti - ricchissimi servizi segreti americani, ha consentito di scongiurare, per un tempo indefinito, forse per sempre, il pericolo di un crollo dei profitti dei produttori e mercanti d'armi e, in genere, degli uomini d'affari e finanzieri che controllano l'industria pesante, ivi compreso, naturalmente, il settore energetico e petrolifero. Il periodo in cui scriveva Veblen e quello attuale sono momenti di svolta epocale nella storia dell'Occidente e dell'umanità: rispettivamente la nascita e la fine dello stato sovietico. Al primo evento si associò la nascita del nemico e del terrore rosso; al secondo è stata abbinata l'invenzione nuova di zecca del guerrorismo, ossia del legame, strumentalmente presentato come un nesso causale, fra terrorismo e guerra. In pratica, la guerra, con connessa espansione della spesa per armamenti, viene ora presentata all'opinione pubblica occidentale come la risposta necessaria e inevitabile al terrorismo islamico, al cui sorgere ha tuttavia in misura decisiva contribuito il sostegno politico, finanziario e militare accordato al fondamentalismo religioso fin dai tempi della guerra fredda. Nel primo conflitto mondiale, l'intervento americano ottenne il risultato di salvare, nella sostanza, anche se non nella forma e in contrasto con le dichiarazioni di principio, l'imperialismo tedesco e di lasciare irrisolti i motivi di conflitto, che già una volta avevano funzionato e presto sarebbero tornati ad operare come casus belli. Nell'epoca attuale, la scelta del nemico è assai opportunamente caduta sul terrorismo fondamentalista islamico, per motivi divenuti ormai del tutto evidenti: da un lato, un nemico terrorista islamico può essere collocato in tutta una vasta gamma di possibili posti, per lo più strategicamente rilevanti per i settori della produzione e del trasporto del petrolio, cui notoriamente l'attuale dirigenza americana è fortemente interessata; d'altro lato, presenta l'ulteriore vantaggio della invisibilità e della riproducibilità e durata praticamente infinite, non rintracciabile in uno stato tradizionale, che in ogni momento può sparire dalla faccia della terra. Il fatto che i servizi Usa abbiano direttamente e indirettamente finanziato, addestrato ed armato i futuri terroristi, per quanto notorio, è, agli effetti pratici, irrilevante. Chi non dà per scontato che l'opinione pubblica di tutto il mondo creda alla versione ufficiale del governo americano sulle circostanze dell'abbattimento delle torri gemelle è destinato ad essere immediatamente tacciato di antiamericanismo e complicità con il nemico terrorista. Eppure sono sempre più numerosi, pesanti e concordanti gli indizi di una benevola negligenza nei confronti degli attentatori dell'11 settembre 2001. D'altra parte, quand'anche non ci fosse stata connivenza o complicità, ma "solo" inefficienza o inettitudine nei controlli e nella prevenzione e repressione del terrorismo, come si tiene a far credere, sarebbe stata comunque dimostrata nella maniera più chiara quantomeno la radicale incapacità ed inidoneità delle scelte strategiche politiche e militari del governo Usa a garantire e difendere l'integrità fisica del popolo americano. Insomma, l'evidenza è che quest'ultimo sia stato in ogni caso vittima delle azioni ed omissioni del proprio governo, per malafede o, nel più benevolo e meno verosimile dei casi, per pura, ma inaccettabile, cialtroneria. Piaccia o meno, affermare di essere convinti e preoccupati per il fatto o la possibilità che il popolo americano sia vittima delle connivenze o del comportamento idiota del proprio governo verso i terroristi, non significa essere antiamericani, ma l'esatto contrario. In altri termini, si tratti di dolo o di colpa grave, le responsabilità dell'amministrazione americana negli attentati sono evidenti ed innegabili. È però verosimile, come si diceva, che la demenza - precoce, matura o senile che sia - abbia fatto nel frattempo grandi progressi. Attualmente, essa sembra prediligere la forma di una diffusa incapacità di percepire l'ovvio, i fatti, la realtà e nella disposizione a prendere per vere le più inverosimili e stravaganti dichiarazioni degli uomini politici, dei servizi segreti e dei mezzi di comunicazione di massa. Ciò accade, in inquietante misura, anche quando tali affermazioni contrastano in maniera stridente e plateale con le regole della logica, col mero buonsenso e perfino con gli stessi dati della propria memoria personale. Ad esempio, non c'è - o non ci dovrebbe essere - bisogno di leggere gli scritti di Noam Chomsky, per capire che il comportamento della superpotenza superstite è quantomeno illegale, se non si vogliono usare termini più appropriati, per le ripetute e sistematiche violazioni delle norme internazionali e delle risoluzioni dell'ONU, tali da farla rientrare a pieno titolo nell'elenco degli stati canaglia, che dice di essere impegnata a combattere. Analogamente non ci sarebbe stato bisogno delle dichiarazioni dell'ex ispettore ONU Scott Ritter - "Se io dovessi quantificare la minaccia rappresentata dall'Iraq in termini di armi di distruzione di massa, essa equivale a zero" - quando basta il semplice buonsenso per capire che il regime di Saddam Hussein, per quanto odioso, non può costituire una minaccia per nessuno. Non c'è d'altra parte bisogno di essere un esperto di arte militare, per rendersi conto che quella del 1991 contro l'Iraq non è stata una guerra, ma un crimine contro l'umanità; non si può chiamare guerra, evidentemente, una carneficina, in cui da una parte sono stati uccisi 150.000 uomini e dall'altra 150, peraltro tutti o quasi uccisi dai loro stessi commilitoni, da quello che, con orribile espressione, viene denominato "fuoco amico". Ma c'è di più: la cosiddetta seconda guerra del Golfo fu all'epoca combattuta - si disse - contro il regime di Saddam Hussein. Ciò è evidentemente e incontestabilmente falso: la guerra è stata combattuta contro il popolo irakeno. Se devono contare i fatti e non le chiacchiere, allora si deve ammettere che quel massacro e l'embargo sono atti contro il popolo irakeno, che ha subito e sopporta ancora lutti e sofferenze indicibili, mentre il dittatore, la sua famiglia, i suoi tirapiedi, le sue milizie, dopo tanti anni sono ancora al loro posto e continuano ad impinguare i propri conti nei paradisi fiscali a spese dei loro connazionali. Discorso largamente simile vale per il conflitto afghano. Il pretesto della guerra è stato in questo caso la protezione accordata dal governo afghano a quel tale bin Laden, su cui, però, lo stesso governo americano si era rifiutato di mettere le mani, quando, a luglio 2001, era stato ricoverato in un ospedale americano ad Abu Dhabi e che adesso si sarebbe volatilizzato, tanto da non potersi neanche sapere se sia vivo o morto. Ma l'impermeabilità all'ovvio, al buonsenso ed alla logica non si ferma a questi aspetti particolari. Più in generale essa non consente di rendersi conto che nell'età contemporanea un unico gruppo di potere affaristico-politico-militare detiene direttamente o indirettamente il controllo pressoché totale del pianeta. Il mondo successivo al disfacimento del blocco sovietico si caratterizza per la presenza di un'unica grande potenza, che domina sulla terra, oltre che tramite il proprio sistema imprenditoriale, monetario e finanziario, anche per effetto di una pervasiva presenza di proprie basi militari praticamente in ogni parte del pianeta. L'ONU conta 188 stati-membri e in 100 di essi vi è una presenza militare USA. "
dieci anni dopo la fine della guerra fredda, centinaia di migliaia di militari americani equipaggiati con le armi più sofisticate del mondo, tra cui spesso anche armi nucleari, sono stazionati in oltre sessantuno basi militari disseminate in diciannove paesi, per limitarci solo a quelli che il dipartimento della difesa definisce "installazioni principali"; se infatti si aggiungessero tutte le strutture che ospitano rappresentanti delle forze armate americane, il numero complessivo ammonterebbe a oltre ottocento". (3) Non si capisce come si possa affermare che un tale formidabile spiegamento di forze non sia una obiettiva minaccia e limitazione alla sovranità ed all'indipendenza delle altre nazioni. Il governo americano è impegnato a garantire, con appositi accordi internazionali, l'impunità dei propri militari. Già si è avuto esperienza della giovanile giocherellona baldanza ed arroganza di questa gente - anch'essa a suo tempo sottolineata da Veblen - come nel caso dei venti morti della tragedia del Cermis e della successiva scarsa o nulla propensione ad irrogare provvedimenti punitivi di una qualche apprezzabile serietà. Del resto, anche l'unica attuale superpotenza è a sua volta, al proprio interno, pesantemente condizionata e dominata da un apparato affaristico-militare-spionistico, che controlla soprattutto la cosiddetta industria pesante - ossia principalmente la produzione e la ricerca nel campo degli armamenti ed il settore petrolifero e in genere energetico - e che in un decennio ha espresso due presidenti, l'uno figlio dell'altro, caso unico nella storia dei capi di governo delle democrazie occidentali, finora ritenuto tipico degli stati dinastici e di talune cosiddette repubbliche delle banane. L'apparato industriale-militare, niente affatto rassegnato alla perdita di potere e di profitti conseguente alla fine della guerra fredda, successivamente agli attentati dell'11 settembre ha quantomeno recuperato gran parte del terreno perduto in termini di potere e di profitti, tramite l'aumento degli stanziamenti statali per difesa, armamenti e sicurezza e l'introduzione di misure protezionistiche in favore dell'industria pesante e della produzione di acciaio. Queste classi mantenute e parassitarie sono sostanzialmente simili a quelle di cui parla Veblen, salvo che nella maniera esteriore di presentarsi. Le classi mantenute - kept classes - dell'era contemporanea, come le vecchie, non sono né per la globalizzazione, né per la sovranità del mercato, né per la libera iniziativa privata, ma per il privilegio, il monopolio, il favoritismo, l'intrallazzo, la truffa e, quando occorre, il crimine, dietro la falsa facciata del patriottismo e del fondamentalismo cristiano, indispensabili per tenersi buono quel 10-15% di gonzi determinante nelle elezioni. Incidentalmente si osserverà che, invece, proprio Veblen rilevava il carattere intrinsecamente internazionale del sistema industriale moderno, laddove mette in luce come gli interessi nazionali ne danneggino la funzionalità ed efficienza. Ora come allora, gli interessi costituiti ed i poteri politici ad essi legati impongono un onere pesantissimo al mondo intero, ma anche al popolo americano, in termini economici e sociali - previdenza, assistenza, sanità, pubblica istruzione - e di recente anche di libertà e diritti individuali, nonostante le immense risorse che da tutto il mondo affluiscono al sistema delle imprese americane. Nei fatti, anche se non, forse, nelle intenzioni, lo spreco e la distruzione di risorse causati dal complesso affaristico-militare Usa non solo immiserisce e minaccia la sopravvivenza dell'umanità, ma ha effetti strettamente analoghi anche sul popolo americano. L'apparato affaristico-militare, le classi mantenute ed il potere politico loro complice sono, nei fatti, il vero nemico dell'umanità e del popolo americano. Finché essi domineranno il mondo l'umanità non sarà mai al sicuro. L'incapacità di rilevare l'ovvio e di esercitare il buonsenso ed autonome facoltà di giudizio riguarda, come prevedibile, anche le opinioni nel campo dell'economia. Uno degli errori più ricorrenti, pressoché generale, è quello di confondere gli affari con l'economia. Da questa confusione deriva l'idea, stupida ma assai diffusa, che la guerra e la produzione di armamenti possano, almeno in talune particolari condizioni, far bene all'economia, cioè, in parole povere, migliorare le condizioni di vita del gruppo umano che vi fa ricorso. In realtà, in poche questioni ci si può fidare del buonsenso come per questo argomento. Il buonsenso suggerisce che le armi e le guerre distruggono ricchezza e non producono beni e servizi acquistabili e utilizzabili per il soddisfacimento dei bisogni quotidiani. Pure banalmente esatta è l'osservazione che risorse sprecate e distrutte in produzioni e attività belliche, potrebbero più proficuamente essere impiegate in produzioni e attività utili o perfino inutili, ma non dannose e distruttive. In altri termini, per quanto ovvio, le attività e produzioni utili ed anche quelle innocuamente inutili sono sempre, dal punto di vista economico, da preferirsi a quelle dannose e distruttive. Lo stato le potrebbe finanziare, ad esempio potenziando il sistema sanitario, la previdenza, l'assistenza pubblica, l'istruzione, la produzione di alimenti, la difesa dell'ambiente, gli aiuti ai popoli poveri. Gli strumenti giuridici e finanziari non presentano problemi: possono essere perfettamente identici a quelli utilizzati per la spesa militare. Anch'essa, infatti, ha natura, per così dire, assistenziale ed estranea alle leggi del mercato. Lo stato crea un circuito finanziario ad hoc, impegnando con decreti il proprio bilancio e stipulando contratti di fornitura con le imprese produttrici. Lo stesso circuito finanziario può essere creato per le attività alternative. In realtà, la spesa militare fa bene agli affari, che sono cosa assai diversa dall'economia e molto più lontana dagli interessi dell'uomo comune. Naturalmente, può dirsi che le risorse stanziate dagli stati per le spese militari si traducono in redditi e, quindi, in spesa da parte dei percettori, atta a rilanciare l'economia. Si dirà che ciò in passato ha consentito il rilancio dell'economia, in particolare in occasione dei due conflitti mondiali e delle successive ricostruzioni. Come già sottolineato, però, lo stesso identico obiettivo può essere ottenuto potenziando attività utili o, comunque, pacifiche ed innocue, senza richiedere l'intervento dei quattro cavalieri dell'apocalisse. Inoltre, si fa sommessamente osservare, la morte, le distruzioni, le sofferenze, le epidemie hanno ben valenza nel calcolo economico dell'uomo comune, che li subisce effettivamente, anche se non in quelli degli statisti e degli uomini d'affari e profittatori di guerra. Sfido chiunque a trovare nella sua cerchia di parenti ed amici qualcuno che si ricordi del periodo bellico e dei bombardamenti come di un'epoca felice o prospera. Inoltre, il trucco finanziario, in pratica la creazione di mezzi monetari e di debito pubblico aggiuntivi, tramite cui il rilancio delle attività produttive viene ottenuto con l'incremento delle spese belliche, viene pagato in termini di inflazione e perdita di valore della moneta, cosa che è regolarmente avvenuta in misura pesantissima nell'esperienza italiana dei due conflitti mondiali, come facilmente constatabile dalle tabelle storiche Istat sul valore della moneta. In ogni caso, l'eventuale lettore può essere sicuro - ed è comunque invitato a verificarlo direttamente - che non esistono economisti seri ed indipendenti - e quelli direttamente o indirettamente pagati dal complesso affaristico-militare non lo sono - che affermino l'utilità delle spese belliche per l'economia. Infine, sempre sulla linea della banalità e dell'ovvio, si rammenterà, per quanto forse superfluo, che i paesi a più alto e diffuso livello di benessere - ad esempio Islanda, Svezia, Svizzera - sono anche quelli più pacifici e che da secoli non sono coinvolti in conflitti bellici. Un'ultima annotazione si ritiene doverosa a proposito della recensione-stroncatura di Veblen nei confronti di Keynes, che è verosimile sottintenda in realtà ammirazione del grande vecchio della sinistra americana più radicale verso il giovane collega, tanto diverso da lui per estrazione sociale e collocazione politica (Keynes non era esponente della sinistra, neanche moderata o socialdemocratica, come molti ritengono, ma un liberale, regolarmente iscritto al partito). Proprio per il suo pessimo carattere, è impensabile che Veblen si disturbasse a recensire un libro - pratica del resto abbandonata da anni - scritto da qualcuno che veramente considerasse un imbecille. D'altra parte, non è da escludere che la critica intelligente e in buona fede di Veblen, per quanto demolitiva, possa aver avuto effetti positivi sul successivo sviluppo del pensiero economico e politico di Keynes. Anche il professor Marcello De Cecco concorda largamente, nella sua introduzione alla edizione italiana del libro di Keynes del 1983, sul fatto che il grande economista si sia fatto turlupinare dai vecchi volponi Lloyd George e Wilson, prendendo alla lettera il contenuto di un trattato che nessuno, con la sola presumibile eccezione del presidente francese, aveva alcuna intenzione di rispettare. E tuttavia l'ingenuità di Keynes non gli impedì di capire dove il mondo sarebbe andato a parare di lì a vent'anni. In effetti, le clausole del trattato, formalmente feroci nei confronti della Germania, per quanto effettivamente non fatte rispettare, furono il principale motivo e pretesto per lo scoppio della seconda guerra mondiale. L'ammonimento di Keynes: Se noi miriamo deliberatamente all'impoverimento dell'Europa centrale, la vendetta, oso predire, non tarderà. Nulla potrà allora differire per molto tempo la guerra civile finale tra le forze della reazione e le disperate convulsioni della rivoluzione, di fronte alla quale gli orrori dell'ultima guerra tedesca saranno un nonnulla e che distruggerà, chiunque sia il vincitore, la civiltà ed il progresso della nostra generazione (4) si è quindi dimostrato in fin dei conti profetico, per quanto impreciso e sfocato nella individuazione delle modalità e delle dramatis personae, come si conviene, appunto, alle profezie. NOTE:
(1) Burton J. Hendrick, The life and letters of Walter H. Page, pag. 270, citato da Rudolph Rocker in "Nazionalismo e cultura", Edizioni della Rivista "Anarchismo", Vol. 2°, pagg. 243-244;
(2) Al periodo immediatamente successivo alla guerra ispano-americana risale, ad esempio, l'acquisizione della base di Guantanamo, in pieno territorio cubano, tuttora detenuta dal governo degli Stati Uniti, di recente utilizzata come campo di concentramento dei deportati dall'Afghanistan;
(3) Chalmers JOHNSON, Gli ultimi giorni dell'impero americano, Garzanti, pagg. 20-21;
(4) John M. KEYNES, Le conseguenze economiche della pace, Rosenberg & Sellier, pag. 184 |
gennaio - aprile 2003 |