Qualcuno racconta di ferite chiuse, cicatrici, che - quando si sentono i tuoni e si prepara la pioggia - tornano vive. Le possiamo vedere e toccare, disegnano la geografia dei corpi, sono luoghi dove le vite si sono fermate e hanno preso un altro cammino.
Nel corpo del nostro passato la seconda guerra mondiale è incisa a sangue, e i lembi di questa ferita sono stati avvicinati con sforzo doloroso, con la voglia di vivere cieca, l'imperizia dei macellai che curano appena dopo aver ucciso, di fronte l'incertezza di una tradizione fallita e un nuovo ignoto: e la storia della cicatrice, le doglie del dopoguerra, non è stata guardata abbastanza. Forse perché ripensare allo scempio passato della ferita è più consolante che guardare allo sfregio rimasto.
Mi sono accorto di vivere - inconsapevole - anche in questo solco grazie a L'Odore della Guerra: Napoli 1940-1945, di Sergio Lambiase e G.Battista Nazzaro, dove si può capire che Napoli è la prima metropoli di un lungo dopoguerra (gli eserciti alleati entrano in città il primo Ottobre 1943), ma è anche una storia lunga, antica, intrecciata a tante evidenze materiali - una ostentazione dei corpi, un incontro tra i bisogni immediati di ciascuno e i modi di organizzarli, frenarli, amministrarli, usarne - che in quel tempo viene sottoposta ad una torsione nuova, che anticipa leve di comando e reazioni impreviste di chi e di cosa viene disciplinato, alterazioni esistenziali e culturali che sembrano nate ora.
Non si tratta di rievocazione del passato, esorcismo onesto "per non dimenticare" o colore mediterraneo: il luogo comune di Napoli senza redenzione, del lazzaretto inondato dal sole, qui parla, invece, della storia in cammino, si avvicina più alla città di Blade Runner che alle stampe carcerarie del settecentesco Piranesi .
La Napoli del 1943 ha tutte le emergenze di una città contemporanea in crisi: dalla gestione di un sistema energetico e produttivo tanto complesso quanto fragile, sabotato dalle distruzioni della guerra, alle emergenze abitativa e - soprattutto- alimentare che devono urtare con i grandi numeri della popolazione. Si dirà: era così con il colera del 1878, con le commissioni parlamentari su Napoli da Crispi a Giolitti, nei ricoveri antiaerei ricavati dai bassi e nelle fosse comuni della peste secentesca, durante la guerra contro le "demoplutocrazie giudaico-massoniche".
Ma l'emergenza del lungo "dopoguerra" (tra virgolette, perché sembra una guerra ancora) non ripristina solo la lunga durata di una vita da "lazzari", secondo un termine barocco abusato per le "plebi" napoletane, una parola che potrebbe stare per poveri - come chi mendica alla tavola di Epulone - o nudi, terrei come chi esce dalla morte.
Questo mondo viene prima di tutto descritto in termini nuovi e arginato - non cambiato, ma governato, secondo apparati e tecniche che ci sono più vicine delle "gride" manzoniane. Infatti, Lambiase e Nazzaro presentano così la gestione delle difficoltà alimentari: "Nonostante la pressione del comandante in capo, però, ciò che il Governo Alleato riesce ad assicurare ad ogni napoletano sono 478 calorie al giorno, per i mesi di novembre e dicembre, e 620 al giorno fino all'inizio dell'estate del '44, quando, tra giugno e luglio, salgono a 900, di contro alle 2623 programmate dagli esperti messi in campo dalle autorità americane. Le calorie che mancano, la gente deve cercarsele al mercato nero.
Ma la maggioranza dei napoletani non ha alcuna possibilità di accedere al mercato illegale dei generi alimentari. Per loro la mera sopravvivenza si fa davvero problematica; e sempre di più l'individuo inclina al deperimento, alla rassegnazione e all'inedia. Ciò pare che sia ignorato dall'AMG; o meglio, gli esperti dell'esercito alleato lo sanno, ma fanno finta di non accorgersene. Alla delegazione guidata dal sub-commissario all'annona Mario Palermo e da quello all'assistenza Matteo Ricci, che, per le feste di Natale del '43, chiedono una distribuzione speciale di viveri, il colonnello britannico Borg risponde infastidito che c'è la guerra e bisogna far sacrifici; e che comunque non ha ancora visto nessun napoletano morir di fame per strada" (Sergio Lambiase, G.Battista Nazzaro, L'Odore della Guerra: Napoli 1940-1945, Avagliano Editore, Napoli,2002, pag.89).
Qui appare una "politica dei corpi", non solo nel tradizionale allargare e stringere - più spesso stringere - i cordoni del sacco di farina e il cappio della forca, quanto nella precisione del calcolo tra fabbisogno ideale e scarto con le disponibilità reali, persino nella messa in conto dell'arte di arrangiarsi; il cinismo del colonnello Borg è anche governo delle priorità: quelle dell'amministrazione alleata sono le necessità militari dell'avanzata e dell'uso delle retrovie. Come fonte di servizi, di mano d'opera a basso costo, ma anche come formidabile rest-camp, riposo e "distrazione" della massa in armi. Il mondo delle "segnorine" proviene dalla collisione di emergenze spasmodiche della popolazione civile e con il "mercato" indotto e governato da situazioni di sistema: dalla circolazione delle AM-lire (la cartamoneta-burla del governo di occupazione), dalla fame centellinata a kilo-calorie ad una cesura accuratamente mantenuta tra diritti e possibilità di occupanti e "co-belligeranti", quali gli italiani governati da Badoglio.
La vendita dei corpi, qui, non è "il mestiere più antico del mondo", ma anche l'emergere di come la storia amministra cuori e carne (Curzio Malaparte racconta quei tempi e quei luoghi, peraltro come un'eterna maledizione, in un'opera che chiama La pelle).
Dicono Lambiase e Nazzaro, citando anche le parole dell'ufficiale americano Norman Lewis, autore di Napoli 1944: "La donna si prostituisce perché ha veramente necessità di guadagnare, per poi spendere al mercato nero. La prostituzione di guerra a Napoli non è separabile da questa impellente esigenza di cibo e vestiti, neppure quando la possibilità di sperperare potrebbe far cessare l'esercizio del "mestiere". Di fatto, vendere il proprio corpo ai soldati continua ad essere "la principale fonte di sostentamento di un elevatissimo numero di persone", e per altri ancora costituisce "l'immediato mezzo di sopravvivenza". Lo annota anche Lewis, che al suo ingresso in città ha la possibilità di assistere al modo impersonale con cui molte donne dei comuni di periferia, che gli appaiono "linde massaie", esercitano il mestiere. Sedute in fondo al camerone di una scuola o di una caserma affollata di soldati ubriachi (o quasi), "assolutamente immobili", i volti privi d'espressione, attendono che i loro avventori si facciano avanti. "Di fianco a ognuna" è appoggiata "una pila di scatolette"; il soldato che arriva ne aggiunge un'altra, si sbottona, e in presenza di tutti compie il proprio atto. È un attimo; finito tutto, si allontana riabbottonandosi".
Certo, questo non è l'esito delle pratiche concentrazionarie inumane, dello sterminio pianificato nazista, molti hanno visto mali necessari o fatalità in tutto questo, ma i modi di questa "pace" mostruosa - questo pubblico impiego della prostituzione, tale persino nei luoghi fisici - mostrano come gli "intrecci del caso" che provocano gli "infortuni della virtù" siano poco casuali.
Non parlo del consueto determinismo socio-economico delle "circostanze" sulle vite dei singoli, quanto di come queste siano frutti delle stesse condizioni private, mantenute, fatte circolare, su scala sistematica, di grandi numeri. E questo non necessariamente per orientarne gli esiti "secondo gli scopi" di una presunta programmazione, quanto per mantenere il sistema stesso delle decisioni, le sue premesse culturali oltre che le sue architetture funzionali, nella sua presa poliedrica verso la complessità sociale.
Sulla gestione dei corpi, del loro uso e della loro salute pubblica, questo si vede: nel caso della prostituzione del dopoguerra anche la cura delle malattie veneree ha modalità strategiche, pure nella penuria rozza delle alternative, che distinguono tra i soggetti di cura e fanno della distinzione uno strumento di disciplina, per mettere i malati - diversi all'interno del corpo sociale e diversi tra loro - al loro posto: "Gli alleati affetti di VD (Venereal Disease) vengono curati negli ospedali militari ad essi destinati.
Sono gli unici posti ove le affezioni veneree sono trattate con la penicillina. Tuttavia, in questi luoghi, il concetto di cura è associato a quello punitivo. Al duro e umiliante trattamento medico si aggiunge spesso la degradazione per il fatto di essersi buscato il male.
Le donne hanno l'obbligo di curarsi all'Ospedale della Pace in via dei Tribunali, ove vengono tenute nella cosiddetta "Gran Sala", un immenso camerone umido e freddo, in precarie condizioni igienico-sanitarie e in uno stato di caotico sovraffollamento. Inoltre, qui, il trattamento medico è ancora fatto con dolorose applicazioni di sulfamidici per la blenorragia, e con iniezioni endovenose e intramuscolari di bismuto o altri medicinali tradizionali per la sifilide.
Più in generale, alle prostitute è riservato un trattamento medico più duro di quello riservato ai militari".
Le differenze dantesche tra malate che si vendono "per malo obietto" e malati che cedono alle lusinghe "per poco di vigore" sono segnate dalla gestione strategica della novità terapeutica - la penicillina -, da una disciplina ospedaliera che ricorda le case di pena anglicane e vittoriane e, insieme, dalla necessità industriale che sceglie tra i pezzi di scarto e quelli che servono: alla guerra.
Si tratta di una amministrazione a cui gli anni successivi ci hanno abituato, dove gestione della popolazione e della salute sono passate per metafore militari ("combattere la malattia") non solo per sfoggio retorico: nelle parole si mostrano i modi e gli scopi, una insistita riduzione dei caratteri particolari delle situazioni in nome dell'unità contro il nemico che, nella gestione dei corpi, non di rado non è solo l'agente patogeno, ma il gruppo sociale, razziale, "altro", che - per la diffusione della patologia - è contiguo, complice del male.
Anche in questo caso, all'incrocio tra atavica paura del diverso e gestione industriale di massa, la Napoli del 1944 presenta un caso tipico: "A gennaio del '44, dal Cairo, giunge a Napoli il generale Leon Fox, "specialista della guerra contro la morte in tutto il mondo". Coadiuvato dai maggiori John C. Snyder e Charles Wheeler, metterà subito mano a quella che verrà chiamata con enfasi "la seconda battaglia di Napoli". Per vincerla, sarà impiegata "una nuova e speciale polverina particolarmente efficace creata negli Stati Uniti". È il DDT, usato da questo momento indiscriminatamente per debellare qualsiasi malattia.
Viene tentata, così, la prima sperimentazione su vasta scala della disinfestazione col nuovo ritrovato, resa possibile dalla collaborazione (anche economica) della Rockefeller Foundation. Per poterle vincere, vengono organizzati i posti gratuiti di disinfestazione (i posti per lo "spidocchiamento dei civili") in tutte le stazioni della Metropolitana, nelle stazioni della Circumvesuviana, in quelle della Cumana, negli ospedali Ascalesi e Loreto, in alcune scuole dei quartieri popolari
. Qui i napoletani sono invitati a disinfettarsi. Quando non lo vogliono, perché rifiutano la brutalità del trattamento, vi sono trascinati a viva forza dagli addetti militari in servizio nelle strade. Denudati, sono cosparsi di DDT dalla testa ai piedi, badando soprattutto a che la polverina penetri tra sotto le ascelle, trai peli del pube, tra i capelli. Contemporaneamente ha inizio la disinfestazione quartiere per quartiere e casa per casa. Intere famiglie vengono snidate dalle loro abitazioni o dai ricoveri e messe in strada, senza che nessuno si preoccupi di dar loro un alloggio alternativo.
Si capisce, allora, la resistenza dei napoletani agli energici provvedimenti igienici del generale Fox. Non vogliono e disertano i centri di disinfestazione perché si vergognano di essere considerati dei "pidocchiosi". Disperatamente cercano di nascondere la miseria in cui sono precipitati. Certo, Leon Fox non può disporre di quantità di vaccino sufficienti ad immunizzare tutta la città; ma l'impiego massiccio di DDT rimane un trattamento brutale
. Accresce il divario tra occupanti e occupati. Ai militari si distribuisce il sapone e si dà la possibilità di difendersi "medicalmente" dalla malattia; agli altri invece è riservato il trattamento discriminatorio
". Questo elenco di tragedie personali e collettive, dalla fame alla prostituzione, dall'irrorazione coatta di DDT allo sfollamento, sembra la descrizione di tribolazioni medioevali o di quei racconti sudamericani "dei tempi del colera".
Testimonia piuttosto come, nel mondo contemporaneo, il peso tradizionale delle decisioni di potere si sia spostato : da un investimento sui corpi degli uomini, da rendere utili e docili, a quello sulle vite, che, come dice Michel Foucault, è diventato una " tecnologia che raccoglie gli effetti di massa propri ad una specifica popolazione e cerca di controllare gli avvenimenti aleatori che possono prodursi all'interno di una massa vivente. Si tratta inoltre di una tecnologia che cerca di controllarne, e eventualmente di modificarne, la probabilità, e in ogni caso di compensarne gli effetti. Per mezzo di un equilibrio globale, piuttosto che attraverso l'addestramento individuale, tale tecnologia ha di mira qualcosa come un'omeostasi: la sicurezza dell'insieme in relazione ai suoi pericoli interni" (M. Foucault, Bisogna difendere la società, a cura di M. Bertani e A. Fontana, Feltrinelli, Milano, 1998, pag.215).
Giocare sui corpi, disciplinare piuttosto che sradicare la fame, la prostituzione, diversificare le tecniche contro la sifilide ed il dermotifo, sapere ed organizzare statisticamente prima di "sorvegliare e punire": il caos di Napoli-1944 può apparire il banco di prova di condizioni che siamo stati abituati a leggere molto dopo, nelle periferie delle città, nelle periferie dei listini di borsa.
Tuttavia, ora - e allora - le persone e le loro storie non sono atomi elementari, una materia molteplice piegata e spezzata dal potere: piuttosto sono ritagliate per come sono, fatte correre e modellate in circuiti di culture e di abitudini che esse stesse concorrono a definire attraverso scarti, strategie "private", arte di arrangiarsi, storie private che confliggono, piegano e sono piegate, con le grandi strategie: anche quando possono opporre alle "magnifiche sorti e progressive" solo un dolore, la propria nudità, per lasciare nel corpo di tutti quelle ferite che - quando si sente che cambia il tempo - è giusto facciano male.
"I bambini di Napoli erano decisi a non morire, con quella determinazione con cui i fagociti fanno massa per combattere il virus che li ha invasi. Possedevano la vitalità dei dannati. E ridevano di me, di se stessi, del mondo intero" (J.H.Burns, in S. Lambiase e G.B. Nazzaro, L'Odore della Guerra, pag.128).