La musica in cui viviamo
di Menico Copertino

Il luogo comune in cui spesso ci si imbatte quando si parla dei Beatles riguarda la loro presunta "irraggiungibilità". Si tratta di un discorso, sostenuto sia dagli ammiratori disinteressati che da quanti traggono lucro dal loro mito, che agisce in due sensi nella direzione dell'incomprensione: da un lato trasforma il quartetto inglese in un'icona sacra e intangibile (e dunque incomprensibile) per chi li ama, dall'altro lo rende ancora più antipatico ai suoi detrattori.

Su quali elementi si fonda questo luogo comune? Chi sostiene l'ineguagliabilità dei Beatles insiste in primo luogo sul fatto che essi abbiano creato il rock. Ebbene, tale asserzione è discutibile, in quanto all'epoca degli esordi dei Beatles il rock'n'roll infiammava già da tempo gli Stati Uniti ed Elvis era già arrivato in Europa. La band, inoltre, non era affatto isolata dall'ambiente musicale inglese - e in particolare del Mersey beat liverpooliano - contemporaneo. È proprio a questo contesto, e non a un singolo gruppo, che si può invece assegnare il primato dell'invenzione di quel genere che, assunta l'eredità del rock'n' roll americano, la arricchì di una nuova sensibilità europea, quella che stava preparando una rivoluzione comportamentale e sociale che di lì a poco, nei primi anni Sessanta, avrebbe gettato alle ortiche il "bacchettonismo" dei decenni precedenti.

Si insiste anche sulla ingenua semplicità delle loro musiche e canzoni, che le renderebbe immortali. Ma se si può parlare di semplicità per il primo periodo dei Beatles, il giudizio suona ridicolo se si ascoltano le raffinatissime orchestrazioni e le acide invenzioni musicali del periodo inaugurato con l'ultima traccia di Revolver, Tomorrow never knows. Prima ancora, del resto, Paul McCartney aveva dato prova di estrema abilità compositiva: Yesterday, per esempio, malgrado la sua apparente linearità, è un pezzo estremamente complesso.

Ritengo che gli elementi di grandezza del quartetto di Liverpool siano da ricercare altrove. I quattro, effettivamente, diedero insieme ad altri (penso ad esempio ai Rolling Stones) uno scossone al puritanesimo britannico, quando nel 1963 pubblicarono il primo album. Un album estremamente rude, a dispetto di un altro luogo comune che li vuole contrapposti, in quanto bravi ragazzi, ai brutti e cattivi Stones. Un album il cui titolo - e la cui canzone di punta - suona come una provocazione priva di metafora, che non ha niente da invidiare a "I can get no satisfaction and I try, and I try…": Please please me, "per favore, fammi godere".

Nei volti della foto di copertina non era ancora comparso il velo di malinconia che sarebbe diventato il tratto distintivo delle copertine successive: guardando la foto di quattro sorridenti ragazzi affacciati nel ballatoio di un palazzone popolare, un cliente di un negozio di dischi non avrebbe notato grosse differenze tra Please please me e qualsiasi precedente album di interpreti alla Cliff Richard o Paul Anka. Girando la custodia, tuttavia, avrebbe notato sul retro che ben otto delle quattordici tracce erano firmate "McCartney/Lennon". Nessun artista rock o rock'n'roll band, prima di allora, si era spinto oltre le due canzoni autografe per disco, riempiendo l'LP di cover di altri autori.

Ecco dunque due elementi della grandezza dei Beatles. Il primo, l'innovazione consistente nel riconsiderare l'LP, utilizzandolo come mezzo per esporsi in prima persona, presentando innanzitutto le proprie creazioni.

E il secondo? Le firme "McCartney/Lennon" (il cui ordine, a partire dal secondo album, si sarebbe capovolto), poste sotto i titoli e sotto un contratto chiamato "Northern Songs", per il quale i due musicisti si impegnavano a firmare insieme qualsiasi canzone scritta anche solo da uno dei due. Un accordo teso a ufficializzare il rapporto di reciproca emulazione e stimolo che portava ognuno dei due a scrivere un pezzo e a sottoporlo alla critica dell'altro. Nessuna delle Northern Songs, in effetti, è stata scritta secondo il metodo tradizionale delle quattro mani, ossia con il testo di un artista e la musica dell'altro. Ognuna, invece, era frutto della mente di uno dei due Beatles, con le correzioni e i suggerimenti dell'altro, con rare eccezioni - specialmente nell'ultimo periodo. Dov'è la grandezza? Nel connubio di due geniali artisti dalle sensibilità diverse e complementari; un connubio capace di stemperare le eccessive asperità dell'uno e morbidezze dell'altro, e contemporaneamente di esaltare le rispettive qualità dell'ironia e del lirismo, dell'affilato realismo e della finezza, delle complementari fantasie.

Tra i punti di forza dei primi sette album, quelli precedenti al periodo iniziato con Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band, l'aver elaborato la forma perfetta della canzone pop anglosassone, quella analizzata da Franco Fabbri in un capitolo del suo volume Il suono in cui viviamo (Musica Arcana, 2002, euro 12). Una canzone strutturata secondo un'alternanza di esplosioni di colore e zone grigie, punti capaci di attirare l'attenzione dell'ascoltatore e passaggi in cui si crea l'attesa del momento forte, soddisfatta o tradita. Frequenti rimandi interni ficcano nella mente dell'ascoltatore alcuni hooks, "ganci", brevi passaggi particolarmente memorabili, come "she loves you yeh yeh yeh!". Nuovi spunti introdotti spesso negli ultimi secondi della canzone creano fibrillazione in chi si aspetta un troncamento o la ripetizione, sfumata, di quanto ascoltato nei minuti precedenti.

Nel periodo degli ultimi sei album, quelli a cavallo del '68, i fermenti delle società occidentali si ripercossero nella musica delle rock band, molte delle quali - i Pink Floyd di Syd Barrett, i Led Zeppelin dei primi quattro album, i Doors, The Jimi Hendrix Experience - colsero le trasformazioni in corso approfondendo tracciati estremamente diversi dal pop beatlesiano. Il consumo di allucinogeni allargò le possibilità della psichedelia e spalmò di acidità le vette dell'hard rock, la lotta politica e la marijuana ispirarono i folk-singers americani ed europei, il blues-rock, come prima il be-bop, accompagnò la nuova vita on the road degli emuli di Kerouac.

I nuovi fermenti ispirarono i Beatles. Le copertine si colorarono, i capelli si allungarono, i baffi e le barbe crebbero, sulla faccia di Lennon comparvero i celebri occhialini. Insieme agli amici Rolling Stones e a Mia Farrow e a tutti quelli che cercavano risposte in Oriente, i quattro di Liverpool si recarono in India, anche loro in cerca di risposte e di un aiuto non ancora giunto malgrado la richiesta di Help!, in cui John Lennon chiedeva di essere salvato dal suo successo, dall'opulenza, dal "mangiare come un porco". Lo stesso Lennon scrisse Revolution, in cui si dichiara sicuro di voler cambiare il mondo, ma si confessa incerto di fronte alla scelta se utilizzare o meno la violenza: "but when you talk about destruction, don't you know that you can count me out…in?". (A sottolineare la sua incertezza, quell' "in" verrà omesso nella versione più acida e rock di Revolution, diversa da quella blues-rock del White Album).

La band inglese aveva già risentito dell'influenza di Bob Dylan, che iniziò i Beatles agli spinelli e John Lennon alle ballate (Norwegian Wood, Nowhere Man, Girl, In my life, I'm only sleeping, ma anche la mccartneyana Eleanor Rigby) in cui le storie d'amore, di sesso e di viaggio fantastico assumono contorni spaziali e temporali di cui le precedenti canzoni adrenaliniche e anfetaminiche erano prive.

Lo scambio di vedute tra John Lennon e Bob Dylan, tuttavia, non influì solo sull'arte della band inglese, ma anche sulle successive scelte del folk-singer americano. Se questi, infatti, consigliò a Lennon di prestare più attenzione ai testi, il Beatle gli ribatté auspicando più cura nelle musiche delle sue canzoni. La produzione di Dylan successiva al 1966, in effetti, appare più ricca musicalmente che nel periodo precedente.

La reciproca influenza tra Zimmermann e i Beatles ci permette di relativizzare un altro mito, quello dell'assoluta chiusura del pubblico italiano al pop inglese negli anni Sessanta. Gli ascoltatori italiani non si rivelarono contagiati dalla beatlemania: il concerto milanese dei Beatles non riscosse lo straordinario successo delle altre esibizioni europee, americane e giapponesi.

I musicisti pop nostrani, dal canto loro, in questo periodo si dichiaravano ispirati dalla cultura folk e hippy americana, dunque da Dylan, Joan Baez, Simon & Garfunkel, Jefferson Airplanes, più che da Beatles e Rolling Stones.*

Ma se i Beatles ebbero un'influenza su Dylan, allora la distanza del panorama musicale italiano dal quartetto inglese è soltanto fittizia. I dylaniani nostrani, come Francesco De Gregori ed Edoardo Bennato, dunque, devono qualcosa anche ai Beatles. Del resto, gruppi e artisti italiani direttamente influenzati da band americane stile Byrds e Animals, quali Equipe 84, Dik Dik, Lucio Battisti, solo illusoriamente poterono fare a meno del pop inglese, in quanto questo aveva riscosso molto seguito negli Stati Uniti, ispirando molti emuli che ebbero successo in Italia.

Torno infine sulla presunta irraggiungibilità dei quattro di Liverpool. A prescindere da giudizi estetici estremamente personali, sui quali non si può discutere (chi ama le canzoni dei Beatles ama la loro bellezza), perché si possa sottrarre la band dal mito e dall'incomprensibilità bisogna inserirla in un contesto storico-culturale e sottoporla a delle comparazioni - non qualitative, ma appunto, storico-culturali. E allora: i Beatles sono mai giunti ad esplorare le profondità oscure della musica come i Pink Floyd e quelle dell'animo umano come Jim Morrison? Hanno mai raggiunto i taglienti picchi delle chitarre di Page ed Hendrix e della voce di Plant? Hanno mai raggiunto la potenza e la perfezione della struttura ritmica degli U2 e gli effetti da favola industriale della chitarra di Edge?

La risposta è che i Beatles hanno dato suggerimenti a tutti. Per primi hanno aperto solchi che altri hanno approfondito; hanno fatto scoperte che altri hanno poi reinventato con arte e altrettanta genialità. Hanno seminato vari campi. Se hanno dato un messaggio, secondo John Lennon, questo messaggio è stato: "Imparate a nuotare". È inutile dunque restare confortevolmente attaccati al salvagente del loro mito (forse è utile solo alle finanze della EMI). Mi sembra più importante chiedersi, lucidamente, quale contributo Lennon, McCartney, Harrison e Starr abbiano dato al rock loro contemporaneo e successivo: sarebbe esistito l'hard rock senza Helter Skelter? Cosa sarebbero stati i Led Zeppelin senza Oh! Darling e I've got a feeling? E i Pink Floyd, che incidevano il loro primo disco nello studio adiacente a quello in cui i Beatles stavano registrando Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band, avrebbero potuto comporre pietre miliari come Astronomy Domine e Interstellar Overdrive senza aver ascoltato Tomorrow never knows? E cosa sarebbero stati i Doors senza la psichedelia di Lucy in the sky with diamonds e il blues-rock di Come together? Lou Reed avrebbe potuto comporre il primo disco con i Velvet Underground e Nico se non fosse esistito il White Album con la cupissima Happiness is a warm gun e la solare e ossessiva Dear prudence? Bowie e i musicisti glam come Brian Eno della prima ora possono ignorare le tracce di Taxman nel proprio DNA? Forse gli U2 non hanno costantemente in mente il messaggio di All you need is love?

E il rock degli anni Novanta e Duemila può ignorare che un giorno del 1967 a Londra, per chiudere l'LP Sgt. Pepper, è stata incisa A day in the life, in cui la voce da brivido di John Lennon, raccontando dell'incidente mortale di un "uomo fortunato" che era passato col rosso, canta "I'd love to turn you on", "Vorrei eccitarvi", mentre un'orchestra sinfonica viene calata nel rock tra scordature e ultrasuoni, con effetto dirompente, allucinante e illuminante?

Un effetto simile aveva l'ultima scena di 2001 Odissea nello spazio, uscito pochi mesi dopo, quella in cui il "Bambino delle stelle" che era stato l'astronauta David Bowman torna vicino alla Terra, a custodirne la sorte. L'esplosione interstellare che lo riportava nel sistema solare, descritta nel romanzo di Arthur Clarke, fu omessa da Kubrick, ma l'immagine del feto che si delinea col crescendo di Così parlò Zarathustra di Strauss è, da sola, esplosiva.

Le visioni musicali dei Beatles e cinematografiche di Kubrick-Clarke, deflagranti negli anni Sessanta, hanno certo avuto un ruolo, che sarebbe interessante approfondire, nelle rotture e negli incidenti degli anni successivi.

Trent'anni dopo esce Ok computer dei Radiohead, il disco con cui la più quotata pop band inglese degli anni Novanta, accantonato qualche riff di chitarra, dà il benvenuto all'informatica applicata alla musica. Nel pezzo d'apertura un airbag salva la vita a un camionista: gli incidenti, nel rock contemporaneo, non sono più mortali, sembra dire Thom Yorke; è difficile che le sortite di un musicista possano avere gli effetti incendiari che seguirono l'affermazione di John Lennon che, quando lo scandalo non era ancora morto, osò dire che i Beatles erano nel mondo "più famosi di Cristo". Marylin Manson, oggi, non arriva neppure lontanamente a sperare che in giro per il mondo i cristiani bigotti organizzino roghi dei suoi dischi, come allora accadde per i vinili dei Beatles.

Forse però si può sperare nella promessa fatta da Thom Yorke in Airbag: "In an interstellar burst I am back to save the universe". Un nuovo David Bowman?

Chi, oggi - oltre ai Radiohead - sta tentando di salvare l'universo della musica rock contemporanea? Chi, come i Beatles negli anni Sessanta, prova a capire e interpretare i cambiamenti del mondo, a stimolarne di nuovi: chi sa cogliere i fermenti della società globale e "bastarda". Penso a Ry Cooder, col suo sguardo aperto sui fermenti musicali degli angoli più disparati, disperati e ibridi del mondo; penso al rock americano dai fantasiosi effetti informatici ed elettronici di Beck e Trent Reznor; al rock europeo dalle radici meticcie, esploso negli anni Novanta intorno alla Mano Negra e alle band delle periferie londinesi, parigine e marsigliesi; penso a Les Negresses Vertes, ai Noir Desir, ai Massive Attack e agli Almamegretta. A varie band della periferia italiana, tra le quali, aspettando il risveglio dei Mau Mau e la ripresa degli ex-Csi dalla dipartita di Zamboni, metterei senz'altro gli Afterhours, con la spiazzante sincerità di Manuel Agnelli, Le Loup Garou, i Quarta Parete e i Future Proche.

*In effetti la struttura della canzone pop e cantautoriale nostrana è identica a quella di molti pezzi di Dylan, Simon & Garfunkel, ecc., composta da strofe e ritornelli. La canzone pop inglese, invece, è strutturata secondo lo schema chorus-bridge, con l'hook contenuto nel chorus. Prendiamo ad esempio I want to hold your hand: il chorus va da "Oh yeah I'll tell you something…" fino all'hook "I want to hold your hand". Il bridge o middle-eight è l'intermezzo che inizia con "And when I touch you I feel happy…" e finisce con "I can't hide". Una struttura simile hanno molte canzoni dell'anglofilo Ligabue. Vediamo invece lo schema di A hard rain it's a gonna fall di Dylan: la strofa ("Oh what have you seen my blue-eyed son…"), priva di hook, costituisce una lenta preparazione del breve ritornello "And it's a hard, and it's a hard, and it's a hard, and it's a hard rain it's a gonna fall".

gennaio - aprile 2003