Il signor Trevi vende
di Vito Copertino e Betta Mongelli

Vende l'acqua, i nostri beni, il nostro patrimonio

Nella situazione di monopolio in cui ha operato nel secolo scorso, l'Ente Autonomo Acquedotto Pugliese distribuiva l'acqua come voleva, a chi voleva, quando voleva, decidendo e gestendo al di fuori di qualsiasi pianificazione da parte delle autorità dello stato centrale e delle regioni coinvolte.Tutte le volte che si presentavano lunghi periodi di siccità meteorologica, una volta ogni otto/dieci/undici anni, le crisi idriche, che inevitabilmente si proponevano nel territorio servito, venivano sopportate come 'disagi necessari' inferti alla popolazione, 'salutari' perché si giustificassero piani straordinari ed interventi di emergenza, progetti costosi, il più delle volte inutili, ma sempre proficui per imprese di costruzioni, studi privati di ingegneria e società professionali di progettazione, clientele elettorali. Proliferavano così captazioni, invasi, condotte, impianti, opere finanziate con denaro pubblico, al di fuori di una contabilità dei costi reali dell'acqua e lontano da una politica di contenimento della spesa, di riduzione degli squilibri, di eliminazione degli sprechi. Tutte le volte cresceva il patrimonio dell'EAAP, cresceva il suo prestigio ed anche il suo potere politico. Si confermava la tradizione tecnica, si elevavano le capacità organizzative-gestionali, si sviluppavano al suo interno professionalità tecniche di prim'ordine, ma prevaleva la gestione dell'acqua come business, gestione di denaro, dunque di consensi elettorali, e di voti. Il corollario di tale sistema di monopolio e di clientele era costituito dall'Ente Irrigazione per la Puglia, Lucania ed Irpinia (EIPLI), che gestiva le acque per l'agricoltura, insieme ai Consorzi di Bonifica, ciascuno con una propria sfera di influenza e tutti al di fuori di qualsiasi pianificazione: gruppi dal potere così forte da costringere le autorità pubbliche, dello stato e delle regioni, a rinunciare al loro dovere di governo delle acque e di tutela della salute dei cittadini.Si può dire che le emergenze idriche, oltre che venire provocate da lunghi periodi di deficit pluviometrico e di crisi meteorologica, venivano 'benedette', quasi auspicate dal gestore unico dell'acqua. Il monopolista dell'acqua godeva della magnanimità statale nei finanziamenti, cospicui e pubblici, per opere sempre nuove da realizzare. Assecondava l'enfatizzazione del bisogno, facendolo crescere sempre e definendolo 'fabbisogno'. Sperava nella protesta, di volta in volta rappresentata da contadini in rivolta per la scarsità d'acqua negli orti e nelle campagne, oppure da cittadini infuriati per l'iniqua distribuzione limitata dell'acqua nelle abitazioni, durante i periodi di forte riduzione degli orari di erogazione dell'acqua potabile.Ma quel che è più grave è che, aumentando la disponibilità idrica con colossali opere di approvvigionamenteo, non diminuiva la precarietà del servizio nè l'insicurezza della popolazione nelle situazioni di emergenza. Sempre più frequenti e dannosi diventavano gli episodi di crisi, nonostante la continua rincorsa verso una sempre maggiore disponibilità idrica nei serbatoi, nelle traverse di derivazione, nei laghi e negli invasi di regolazione, opere che venivano costruite numerose ed abbondanti nel sistema Puglia-Basilicata. E, parallelamente, si correva verso un aumento continuo della dotazione idrica giornaliera, ritenuta necessaria e da rendere disponibile in media per ciascun abitante.Per rompere questa situazione di precarietà, senza gettare al vento la ricchezza patrimoniale e la tradizione tecnica di un Ente che aveva svolto tuttavia una funzione significativa nell'evoluzione sociale del secolo scorso, occorreva intervenire a distinguere la sua posizione di monopolio nella 'gestione' idrica dal ruolo di autorià di 'governo' e di 'pianificazione' dell'acqua e del suo uso. A questo doveva servire la legge 183, in vigore dal 1989, che era ed è legge di pianificazione del territorio, di riorganizzazione funzionale della difesa del suolo, di nuovi criteri nella gestione delle acque.A partire dagli anni '90 del secolo scorso, si profilava pertanto un processo lento e faticoso di graduale riappropriazione pubblica delle risorse idriche e del suolo interessato dai deflussi idrici, per lungo tempo gestiti come beni privati o beni liberi. Bisognava riconsiderare il settore idrico come un comparto, in larga parte, 'a economia pianificata' e quindi estraneo alle regole di mercato.Venne, invece, la globalizzazione capitalistica e, con essa, il trionfo dell'ideologia del neoliberismo e delle privatizzazioni. Negli anni di crisi del quarantennale sistema politico italiano, basato sul potere democristiano a partecipazione socialista, in un clima di esaltazione riformista-liberista della sinistra politica italiana, si è pensato di risolvere tutti i mali del paese e dell'economia con l'affermazione che tutto dovesse diventare 'mercato' e che solo la privatizzazione di beni comuni e di gestioni pubbliche potesse risolvere vecchi problemi endemici e nuovi mali di una società consumistica e sprecona.Come per l'acqua, così sta accadendo anche per il nostro patrimonio storico-artistico, i nostri beni architettonici, i nostri beni paesaggistici. E tutto è incominciato sotto la gestione di ministri del centro-sinistra, con decreti-legge che portano il loro nome e con leggi finanziarie che hanno aperto la strada alle politiche dell'attuale governo, fino alla finanziaria del 2002, fino al più recente decreto di Tremonti. Oggi temiamo un vero assalto al patrimonio culturale del nostro paese, ma l'ideologia privatistica che domina il nostro tempo, il processo di privatizzazione dei beni storici che è in atto, la minaccia che il prezioso patrimonio artistico italiano venga alienato ai privati, tutto è stato determinato dai presupposti dei ministeri precedenti. Giungono al capolinea gli errori degli anni passati, mentre gli italiani, distratti dal patto di stabilità, trascinati dalla necessità che lo stato facesse cassa, non si sono preoccupati che potessero venire privati di quanto di più prezioso posseggono!Furono immessi nel mercato immobili degli enti previdenziali, determinando incredibili disagi e insicurezze negli inquilini, spesso anziani scoraggiati dall'età a pensare di caricarsi di mutui per comprare. Ma oggi è la nostra identità culturale, la nostra storia umana e sociale, il nostro patrimonio laico e plurale ad essere minacciato, quel continuum storico-ambientale, quell'insieme organico che si è sviluppato nel territorio e nel tempo, non una sommatoria accidentale di opere d'arte, nostre per caso o per cause esteriori, raccolte grazie a conquiste belliche o ricevute per donazioni di mecenati. Una struttura unitaria, non solo composta da opere d'arte, edifici, case, monumenti, gallerie, certose, musei, quartieri, siti archeologici, bellezze ambientali, isole, oasi naturalistiche, dune costiere, ma soprattutto caratterizzata dalla sua organicità, dal suo ancoraggio al territorio ed alla vicenda storica che vi si è manifestata nei secoli: un patrimonio la cui estensione è pari alla superficie di Sicilia e Sardegna messe insieme. Nessuno lo comprerà mai, ma è tecnicamente vendibile persino il Colosseo. Di sicuro il signor Trevi ci proverà! Dunque, un patrimonio dalla connotazione pubblica non può rinunciare al coinvolgimento dello stato come garante della sua unità, diretto proprietario o argine all'arbitrio del privato. Ma consegue anche la stretta connessione che deve esserci tra la 'gestione' del patrimonio e la sua 'tutela', momenti entrambi di una relazione organica, basata sul rispetto di quel contesto unitario e sulla conoscenza della sua complessità.Una geniale filosofia, invece, è stata il filo conduttore della vicenda iniziata negli anni del centro-sinistra, con il decreto legge che nel 1998 formalizzò la possibilità di scindere la tutela dalla valorizzazione, e con la legge finanziaria che nel 1999 previde la possibilità per il ministero del tesoro di vendere immobili di valore storico-artistico a società per azioni. Iniziò una deriva disastrosa che, rompendo gli argini faticosamente costruiti nei primi decenni dello stato unitario, subiva con le leggi talebane del governo Berlusconi-Tremonti uno sciagurato salto di qualità, abbattendo ogni remora, aprendo la via all'offensiva dei nuovi predatori, dando l'avvio ad una gara di rapina, spregiudicata ed aggressiva. Ed è così che la legge finanziaria del 2002 non si è limitata a disporre che tutti i servizi connessi alla gestione del patrimonio artistico possano essere affidati ai privati, ma prevede anche la concessione degli stessi beni culturali pubblici. Di qui, poi, la strada per il famigerato decreto Tremonti è rapida. Nel decreto del 15 giugno 2002 ci sono soltanto le firme del presidente del consiglio e del ministro dell'economia. Forse di proposito, sono stati tenuti fuori i ministri dei beni culturali e dell'ambiente: non avranno voce in capitolo, non potranno reagire, non avranno titolo ad opporsi, se pure lo vorranno. E rischia di essere inefficace persino l'appello dei direttori di trentasette principali musei del mondo perché il governo italiano desista dai propri intenti di privatizzazione. Rischia di non servire neppure la lettera di Ciampi al presidente del consiglio nel giorno della promulgazione della legge Tremonti, per ribadire il valore costituzionale del patrimonio artistico quale fonte di identità e bene comune di tutto il paese.Ora ci sono, per legge, anche gli strumenti operativi necessari, la 'Patrimonio s.p.a.' e la 'Infrastrutture s.p.a.'. Dalla vendita dei beni dello stato, passando per condoni edilizi e sanatorie urbanistiche, usando varianti ai piani regolatori e cambiamenti di destinazione d'uso a terreni ed immobili, fino alla devastazione del territorio, il percorso sarà breve. Il bisogno di denaro da parte dello stato si coniugherà con il diritto degli abusivi ad essere risanati e condonati e si aggiungerà alle vendite del patrimonio comune. Con la complicità di comuni e sindaci, sarà facile modificare le prescrizioni di piani regolatori delle città e cambiare la destinazione d'uso non solo a terreni agricoli per trasformarli in edificabili, ma anche a scuole del centro perché vengano trasferite in periferia per lasciar posto ad attività più redditizie. Figuriamoci, poi, per le carceri (di Venezia, San Vittore, Poggioreale), un tempo costruiti nel cuore delle città! Chi si opporrà alla loro vendita?Veri e propri crimini, condotti dall'attuale governo con cinismo, al di là di ogni limite! D'altro canto, cosa ci sarebbe d'attendere da un presidente del consiglio che, ad una richiesta di collaborazione nella guerra preventiva all'Iraq, risponde che 'c'impegneremo in base al nostro bilancio', come dire, uccideremo se abbiamo soldi!Torniamo all'acqua. Cosa c'è di più comodo, per un privato, che scaricare sulla collettività gli oneri, aggiudicandosi i profitti? Anche per l'acqua, si vuole spezzare il binomio tutela-gestione per addossare allo stato le spese della protezione dei beni comuni e riservare ai privati i vantaggi della loro fruizione.Che cosa accade, qui da noi?Le crisi idriche erano e restano ricorrenti, anzi si aggravano e diventano più frequenti, in Puglia e Basilicata, in gran parte dell'Italia meridionale: il colera nel 1973; i danni provocati dal terremoto al sistema idrico nel 1980; la crisi meteorologica nel 1988-90; un nuovo deficit nel 2001-02.L'egoismo del mercato prevale sulla solidarietà democratica, mentre più tenaci si fanno le rivendicazioni regionali, che allontanano la prospettiva della consapevolezza di appartenere ad un bacino idrografico, dunque ad un fiume, e non ad una Regione amministrativa, storicamente determinata dai confini dell'Italia pre-unitaria, dai limiti territoriali di stati e principati in guerra tra loro. Si allontana anche la prospettiva di una riforma istituzionale basata sulle uniche cose che possano contare al cittadino ed alla sua sicurezza, alla sua vita ed all'economia del paese: la salvaguardia del territorio, la difesa della salute, l'approvvigionamento idrico, la lotta all'inquinamento, la difesa dalle frane e dalle alluvioni. Sono queste le premesse e le condizioni per un reale sviluppo economico, basato sulla ripresa dell'occupazione, su un autentico progresso civile, sull'unico utile cantiere della difesa del suolo e della gestione delle acque, non su quelli delle grandi opere e delle grandi infrastrutture del governo Berlusconi-Lunardi. Sono questi i nuovi parametri su cui fondare un rinnovato patto di stabilità per l'Europa.Non si possono suddividere il territorio e l'uso dell'acqua in funzione di necessità aziendali, trasformare i 'servizi idrici integrati' della legge 36 del 1994 in aziende che accorpano i numerosi acquedotti preesistenti, passare in secondo piano l'esistenza dei bacini idrografici, la necessità delle autorità di bacino, l'avvio della pianificazione di bacino, messa in seconda importanza rispetto ai piani di mercato di aziende acquedottistiche, di società per azioni, la Vivendi, l'Enel Hydro, l'Impregilo, la Lyonnaise des eaux, l'Acea, e rispetto agli interessi di veri e propri imperi finanziari, come nel caso della Vivendi Universal, padrone di editoria, cinematografia, tv, musica, finanza telecomunicazioni.Nel sistema Basilicata-Puglia, si riparta, invece, dalla reale domanda idrica e si quantifichi il corretto bilancio idrico, fatto di numeri consistenti non di ipotesi irreali o di fabbisogni improponibili. Se sono veri i conti che ufficialmente si pongono, le due regioni hanno bisogno di più di un miliardo di metri cubi d'acqua all'anno: le attuali disponibilità, solo limitandosi ai due schemi idrici Sinni-Pertusillo e Basento-Bradano e pur trascurando lo schema Ofanto ed altre disponibilità del sistema idrico, non sono molto inferiori al fabbisogno dichiarato. Dunque, basterebbe includere nel conteggio le disponibilità di Caposele, dell'Ofanto, del Fortore e della falda sotterranea pugliese, e perfezionare i collegamenti tra gli schemi anzidetti, oltre a migliorare la ripartizione delle acque dalle diverse fonti ai diversi utenti, perché il bilancio idrico, pur comprensivo di fabbisogni normalmente enfatizzati e di notevoli perdite accertate, sia praticamente chiuso in parità.A che servono, allora, le proposte di nuove opere di invaso e nuovi prelievi dai fiumi?Se, poi, si interpreta correttamente il bilancio idrologico e si considera che, in ciascuno schema, le fonti principali di approvvigionamento sono laghi/serbatoi/invasi a compenso annuale o pluriennale, si deduce che il bilancio diventa addirittura attivo e già in grado di soddisfare anche gli eventuali, paventati, deficit dello schema Ofanto, senza necessità di ricorrere ad alcuna ulteriore opera mastodontica, dal rilevante impatto ambientale. È da alcuni mesi che le piogge sono riprese nel territorio interessato ed i livelli idrici negli invasi hanno cominciato quest'autunno a risalire. È proprio adesso che deve preoccupare una corretta gestione delle risorse idriche, a cominciare da un corretto uso dei criteri della loro regolazione. Non è possibile continuare ad esaurire, sul finire dell'estate, tutte le disponibilità residue negli invasi - ad esempio nell'invaso di Monte Cotugno sul Sinni, un'invaso a regolazione pluriennale - e sperare che il successivo afflusso invernale le ricostituisca.Una valutazione equilibrata e parsimoniosa dei fabbisogni totali, somma del potabile, irriguo e industriale; una più precisa determinazione delle disponibilità idriche ed un uso corretto delle regole di derivazione dalle traverse e di regolazione dagli invasi; l'utilizzazione riservata dell'acqua di falda come riserva di emergenza, essendo riconosciuta la criticità dell'attuale situazione della falda carsica pugliese e particolarmente salentina; il ricorso prudente a risorse idriche non convenzionali, meno pregiate, come le acque reflue degli impianti di depurazione, le acque basse dei territori vallivi e delle piane costiere, le acque saline e salmastre del cuneo salino nei territori costieri; l'eliminazione delle assurde perdite dalle reti di adduzione e di distribuzione sono tutte misure alternative all'inevitabilità di opere che oggi si pongono nell'Accordo di Programma tra Puglia e Basilicata.

Ciò che deve guidare un accordo tra regioni vicine per il trasferimento di risorse idriche da un territorio all'altro non può che essere la salvaguardia del territorio da cui le risorse vengono sottratte e la tutela delle stesse in termini quantitativi e qualitativi. Sono pertanto da mettere alla base dell'impegno reciproco delle due regioni l'avvio di azioni di recupero, riuso e risparmio idrico, così da ridurre e non aumentare il fabbisogno d'acqua nei prossimi anni; un programma di difesa antierosiva per contenere l'interrimento degli invasi e di mantenimento qualitativo dei volumi invasati; una sensibilità verso il riequilibrio ambientale dei corpi idrici ed il recupero degli ecosistemi ambientali, verso la minimizzazione dell'impatto dei grandi adduttori e la tutela delle fasce ioniche lucane e salentine rispetto al'arretramento della costa ed alla salinizzazione delle falde acquifere; l'avvio, infine, di un sistema di monitoraggio quali-quantitativo delle risorse disponibili.

gennaio - aprile 2003