Il Petrolchimico di Porto Marghera
di Carlo Amoruso

"Era toccato anche a lui quello che era già toccato ad altri. Il suo killer si chiamava cloruro di vinile".
"Petrolkimiko. Le voci e le storie di un crimine di pace"
G. Bettin

Il 2 novembre del 2001, v'è stata l'assoluzione in primo grado da parte del Tribunale di Venezia, per ventotto dirigenti imputati al processo per lesioni da esposizione al CVM ( cloruro di vinile monomero) al Petrolchimico di Porto Marghera, una sentenza che ha riportato nel modo più inquietante, ovvero l'assoluzione, una vicenda che sin dal suo sorgere ha visto scontrarsi da una parte gli interressi economici delle aziende all'insegna de "la produzione innanzitutto" e il diritto alla salute, dignità, vita dei lavoratori occupati all'interno degli impianti venefici.

IL VERSANTE AMERICANO ED EUROPEO
Il boom economico del dopoguerra passa anche attraverso la vita di numerosi lavoratori impiegati in uno dei pilastri dell'economia: le industrie petrolchimiche, in un primo momento storico, americane, poi successivamente europee; i costi contenuti unitamente all'elevata resistenza all'usura, ha fatto si che il cloruro vinile monomero venisse sin dall'inizio utilizzato come elemento base nella produzione di plastica, vernici a spruzzo, propellenti per lacche, bottiglie, aerosol.

Come sovente accade nel mondo che vuol essere prima della produzione, poi, se è proprio necessario, della sicurezza sul lavoro, i limiti di sicurezza per l'esposizione alle sostanze sintetiche, nella iniziale vacatio legis, fu stabilito dalle industrie americane con opportuna e conveniente approssimazione ed arbitrarietà.

A metà degli anni '60 cominciarono a rinvenirsi i primi collegamenti tra il cloruro vinile e alcune patologie specifiche legate all'esposizione da CVM, quali patologie degenerative alle ossa, come l'acroosteolisi.

Occorreva da parte delle imprese porre in essere una strategia che salvasse capra e cavoli, intendendo per capra la produzione che non avrebbe dovuto fermarsi, e per cavoli sia l'opinione pubblica che i lavoratori: i primi con il CVM cominciavano a convivere quotidianamente (pensiamo tra i tanti esempi alla pellicola che protegge gli alimenti o alle lacche per capelli), i secondi già da qualche tempo avevano a che farci.

Occorreva, però, una strategia che non si fondasse pericolosamente su informazioni da tener segrete e da conservare in cassaforte con il rischio di fuga di notizie che creassero panico tra i consumatori, questi ultimi notoriamente potenti negli USA, ma una strategia che si fondasse sul motto: "non mentire, ma neanche dire tutto!" Perché tale piano funzionasse occorreva, in primis, una linea comune tra industrie americane ed industrie europee che non si costruisse sulle menzogne, perchè se scoperte avrebbero posto la parola fine sul mondo dorato e luccicante della plastica, ma una vera e propria, cospirazione, naturalmente illegale ed immorale, basata sulla pubblicazione di dati e riferimenti scientifici "neutri", non allarmanti, con i quali manifestare l'intenzione delle imprese di essere le prime a voler conoscere la verità (come produttori) sulla tossicità del CVM; doveva apparire all'opinione pubblica e ai lavoratori il lato filantropico delle imprese, le prime ad avere interesse a capire se la tossicità del CVM sperimentata sui ratti fosse un indizio perché si potesse parlare di tossicità anche sugli uomini. Una vera e propria politica di insabbiamento perseguita con criminale lucidità dal MCA, l'associazione americana che riuniva quasi 200 imprese nel settore; ma la linea, perseguita, perché efficace, avrebbe dovuto fondarsi sulla unità di intenti tra americani ed europei; questi ultimi preoccupati dei risultati delle ricerche condotte a Bologna dal medico Cesare Maltoni, si accordarono con gli americani perché tali risultati non venissero pubblicati.

A consacrare l'insabbiamento frutto dell' asse Londra-Washington, fu la relazione "commissionata" al MCA dal NIOSH ( National Institute for Occupational Safety and Health) nel luglio del 1973, relazione incompleta e, nonostante gli intenti comuni, anche menzognera.

Fu la morte di alcuni operai addetti alla B.F. Goodrich Company, nello stato dell'Ohio, a sollevare il coperchio dell'insabbiamento e costringere le aziende americane non solo ad ammettere le loro responsabilità, ma a rispettare nuovi limiti di tollerabilità di esposizione da CVM.

IL VERSANTE ITALIANO
Dopo quasi 30 anni, in Italia la vicenda non è conclusa, con un processo che rimane aperto, nonostante il primo round si sia concluso con la vittoria della non responsabilità ( irresponsabilità?) e la sconfitta di chi ha stenuamente perorato la tesi della conoscenza dei rischi connessi alla lavorazione del CVM da parte, tra i tanti, della Montedison, tra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta; una tesi fondata anche sui ritardi nella comunicazione delle informazioni che si venivano acquisendo in forza di un "patto tra gentiluomini", ovvero le imprese.

La tesi sostenuta dal P.M. del complotto, su cui erano fondate le speranze delle vittime del CVM, non ha retto; anzi, a detta dei giudici di Venezia, il rischio oncogeno era ignorato in tutte le industrie di produzione sia statunitensi che europee tra la fine degli anni sessanta e l'inizio degli anni settanta.

Ma come interpretare gli studi di Maltoni, ma, ancor prima, del dott. Viola?

Frutto di una ossessione da "scienziati pazzi" o da "medici italiani", che a detta dei vertici dirigenziali della chimica americana sono ingegnosi ma imprecisi?

Già nel 1970, il dott. Viola, che lavorava per conto della Solvey a Rosignano in Toscana aveva spiegato durante un congresso scientifico tenutosi a Huston, di aver riscontrato tumori nei ratti esposti a CVM a 30.000 parti per milione per 4 ore al giorno, per 5 giorni alla settimana e per 12 mesi. Tali tumori colpivano alcune ghiandole presenti nei ratti ma non nell'uomo; si trattava comunque di un campanello d'allarme subito insabbiato e manipolato.

Tali studi non erano passati inosservati ai responsabili delle industrie chimiche, così come non erano passati inosservati agli stessi gli studi condotti da Cesare Maltoni, dell'Università di Bologna, studi a quest'ultimo commissionati per sottoporre a verifica scientifica gli studi di Viola; la verifica di Maltoni non solo portò alla conferma dei risultati di Viola ma andò oltre, dimostrando la cancerogenicità del CVM in topi e criceti in concentrazioni di "soli" 250 parti per milione.

Se le industrie americane, memori dello scandalo e delle battaglie legali perdute dalla General Motors negli anni '60 per aver quest'ultima costruito automobili "difettose", fu costretta dopo il tentativo di insabbiamento, a ridurre le percentuali limite di esposizione da CVM a 1 ppm, l'industria chimica italiana ( dal 1974 Montedison, poi Enimont ed Enichem) ha, secondo l'accusa durante il processo di Venezia, realizzato nel tempo interventi " parziali" con miglioramenti apparenti suffragati da sistemi di misurazione difettosi e poco adattabili.

Secondo i consulenti di Medicina Democratica, il Petrolchimico di Porto Marghera era nato dal punto di vista impiantistico, già vecchio; non solo, ma politiche aziendali hanno fatto si che "vecchia" rimanesse l'impiantistica anche quando, a partire dagli anni '70, esistevano già tecnologie più avanzate e più sicure. Dinanzi all'obsolescenza degli impianti, le società chimiche italiane hanno scelto altre strade, definite da Medicina Democratica, "aberranti": 1) il mantenimento in esercizio dei vecchi impianti contestualmente alla riduzione drastica del loro costo di esercizio attraverso una riduzione degli interventi manutentivi; 2) la mancata installazione degli indispensabili sistemi di prevenzione, controllo, sicurezza, depurazione; 3) il mancato rispetto delle leggi anti-infortunistiche e di tutela; 4) il mancato rispetto delle norme di buona tecnica e delle leggi che impongono al datore di lavoro l'adozione permanente delle migliori soluzioni tecnico-scientifiche.

Poiché l'assoluzione in primo grado dei dirigenti del Petrolchimico nasce anche dal principio sostenuto dalla difesa "nessuna legge, nessuna colpa", ovvero "non c'è responsabilità perché all'epoca dei fatti non c'era alcuna legge", le due ultime strade aberranti, sopra elencate, scelte dai vertici aziendali della chimica italiana meritano un approfondimento, partendo dalla Costituzione (entrata in vigore il 1948!): dal combinato disposto degli articoli 32 comma 1 Cost., 35 comma 1 e 41, emerge che la salute e sicurezza dei lavoratori costituiscono beni cardine di rango costituzionale prioritario, rispetto ai quali ogni altro valore o interesse deve cedere il passo. Tra i cittadini i lavoratori godono (godrebbero?!) di una tutela privilegiata. In quest'ottica assume rilievo e sostanza un'altra disposizione: l'articolo 2087 del codice civile (del 1942!) il quale sancisce che "l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo le particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro"; tale disposizione, è fondamentale nel nostro ordinamento per la sua funzione di chiusura del sistema poiché comprende ipotesi e circostanze non espressamente previste dalle leggi speciali; ma è importante soprattutto perché sancisce un debito di sicurezza del datore di lavoro nei confronti del lavoratore, debito che comprende, oltre la mera osservanza delle prescrizioni legislative, l'adozione di tutte le misure necessarie per proteggere i lavoratori, andando, se necessario, oltre le leggi speciali; un debito di sicurezza che varia al mutare di tutte quelle conquiste (scientifiche, tecnologiche e di esperienza), capaci di scongiurare infortuni, danni, incidenti e rischi sul lavoro, malattie professionali. Ma, si sa, investire sulla salute e sicurezza dei lavoratori, economicamente non conviene, per una scarsa propensione delle aziende a investire sul campo della sicurezza o perché è un lusso che le aziende chimiche non potevano (e continuano a non potersi) permettere? Nel caso del petrolchimico il dubbio viene fugato nero su bianco da un famoso documento di fine anni '70 emesso dagli stessi vertici aziendali italiani: "ogni lavoro di manutenzione, sia esso compreso nell'insieme di una fermata oppure no, deve venire valutato singolarmente nelle sue conseguenze in termini di costo e di variazione di affidabilità e deve venire deciso soltanto quando ci sia una comprovata necessità. Negli altri casi bisogna correre dei ragionevoli rischi, non ha senso affrontare oggi perdite di produzione e costi sicuri per evitare conseguenze possibili in futuro".

Le morti e le malattie sono conseguenze di rischi ragionevoli; è ragionevole morire per il profitto.

TESTI DI RIFERIMENTO:
G. BETTIN, M. DIANESE, "Petrolkiller, Feltrinelli", 2002, Milano;
G. BETTIN, Petrolkimiko, "Le voci e le storie di un crimine di pace", Baldini & Castoldi, Milano, 1998;
F. CARNEVALE, "Il cloruro di vinile e l'industria chimica: il versante italiano della cospirazione", in www. Zadig.it/speciali/marghera;
G. MARKOVITZ, D. ROSNER, "Il cloruro di vinile e l'industria chimica in America; le prove di una cospirazione illegale delle imprese" in www. Zadig.it/speciali/marghera ;
GIORGIO BALDINI, "Nessuna legge, nessuna colpa" in www.zadig.it/ speciali/marghera/new-2htm
AA.VV. in www.legambientedoc.it/centro/documenti/2001.marghera.htm;
L. MARA, in web.tiscali.it/medicinademocratica/bollettino2/marage.htm

gennaio - aprile 2003