È noto che nei giorni dei tumulti del pane, a Molfetta il 1° maggio 1898 la truppa fece fuoco su un gruppo di dimostranti. Sei di essi furono uccisi, alcuni altri rimasero più o meno gravemente feriti. Nel corso degli scontri non mancò di essere ferito anche qualche soldato. I manifestanti contro i quali si fece fuoco si trovavano nei pressi dell'ufficio del dazio per protestare contro la miseria e la fame, ma non solo per questo. Il senso di quella giornata di sangue non è stato ancora completamente chiarito ed è interpretato secondo gli schemi di una jaquerie, sulla base dei giudizi negativi espressi soprattutto dal sindaco della giunta radical-repubblicana, Mauro De Nichilo, e da un anonimo corrispondente molfettese di Salvemini.
In Puglia i tumulti presero il via a Bari il 27 aprile e si estesero a macchia d'olio in quasi tutta la regione. Nella generalità dei casi sono le donne, umili casalinghe e popolane affamate, a dare il là alla protesta, seguite da nugoli di "monelli". A volte sono costoro a prendere l'iniziativa, come a Bitonto, e per certi versi anche a Molfetta. I resoconti giornalistici ci consentono di considerare che la folla, inferocita per la fame, trascende in atti drammaticamente sconsiderati principalmente quando le autorità locali sono latitanti o poco persuasive sulla possibilità di fornire il pane senza restrizioni e a buon mercato, oppure quando si vede inibita nella sua possibilità di protesta dal sopraggiungere della truppa; è altrettanto evidente che gli scontri sanguinosi si verificano lì dove la truppa interviene con il chiaro intento di reprimere ad ogni costo la manifestazione, che si reputa l'espressione di una volontà politica sovversiva. A Valenzano le "donnicciuole" che hanno organizzato la protesta sbraitano per ore "come ossesse inferocite" dinanzi all'ufficio della polizia urbana, dove è custodita una certa quantità di pane, e se ne tornano a casa quando hanno la garanzia che il pane non sarebbe mancato e sarebbe stato venduto al prezzo ragionevole di 30 centesimi. A Ruvo dove, come si vedrà, nel '94 era esplosa improvvisa e apparentemente inconsulta la rivolta, tutto è calmo grazie alla sagace opera dell'amministrazione. A Bitonto la ragazzata diventa sommossa quando si vede sopraggiungere da Bari una compagnia del 65° fanteria: "la vista dei soldati irritò la popolazione", che si abbandonò ad atti vandalici. La cronaca di Foggia echeggia il racconto manzoniano dell'assalto ai forni e nella ricerca delle cause degli atti di vandalismo s'insinua apertamente l'ipotesi che i tumulti siano stati orchestrati ad arte dagli avversari politici dell'amministrazione in carica. Ma in questi casi gli oppositori non sono sempre gli estremisti del tempo, i socialisti, così come gli animatori di queste manifestazioni, che le cronache ci raccontano per lo più improvvisate e spontanee, non sono sempre i socialisti, contrariamente a quanto ritennero strumentalmente il governo e i benpensanti borghesi coevi. Certamente non mancarono nel corso di quelle manifestazioni grida sovversive, ma a Bitonto i tumultuanti gridavano "vogliamo il pane a 6 soldi, abbasso il sindaco, viva il Re".
Quello di Molfetta non fu l'unico eccidio quell'anno. Preceduto nel Barese da quello di Modugno, concomitante con quello di Minervino, sebbene qui la dinamica dei fatti non ripeta il solito copione, per tragicità e gravità fu superato qualche giorno dopo dall'eccidio di Milano, che lasciò sul terreno un centinaio di morti tra i dimostranti, anche se nel capoluogo lombardo, come per Molfetta, non si trattò soltanto di una semplice sommossa generatasi per protestare contro il caro pane, in quanto i tumulti principiarono per reazione all'arresto di tre operai socialisti che distribuivano volantini di protesta per l'uccisione del figlio del deputato radicale Romolo Mussi da parte della forza pubblica. Tuttavia, anche i tumulti di Milano, nonostante la loro peculiarità, rientrarono in quella che fu definita "la protesta dello stomaco", se non altro perché un buon numero di manifestanti era costituito da donne e adolescenti. Il cattivo raccolto del grano del 1897 (ben 16 milioni di quintali in meno rispetto all'anno precedente) aveva enormemente peggiorato le condizioni di vita delle classi meno abbienti, portandole ai limiti della sopravvivenza e già sul finire di quell'anno si erano avute in diverse parti della penisola spontanee dimostrazioni di protesta, che continuarono nel gennaio successivo, represse a volte nel sangue dal governo, capeggiato dal marchese Antonio di Rudinì, il quale si era rifiutato ostinatamente di accogliere la proposta presentata, già dall'estate del '97, dalle forze di opposizione di abolire almeno temporaneamente, per farne calare il prezzo sul mercato nazionale, il dazio d'entrata sul grano d'importazione, che, sommato al dazio di consumo locale, incideva sul prezzo del pane nella misura del 40% circa.Il governo di Rudinì, orientato soprattutto a mantenere l'equilibrio del bilancio, ottenuto principalmente al prezzo di diversi inasprimenti fiscali, che avevano colpito soprattutto le classi subalterne, e di una drastica riduzione delle spese necessarie per dar lavoro ai disoccupati, preoccupato altresì di non scontentare gli interessi degli agrari meridionali, rappresentati nel governo, proprio a partire dal dicembre del '97, anche dal ricco agrario pugliese Giuseppe Pavoncelli, agì tardivamente. La drammaticità degli eventi rende a volte molto più significativamente il senso delle cose: a Minervino Murge durante quel tragico 1° maggio '98 fu trucidato dalla folla inferocita dalla fame un proprietario terriero che il giorno precedente aveva fatto celebrare una messa di ringraziamento alla Madonna perché il grano aveva raggiunto prezzi impensabili. Il disavanzo statale diminuì e il piano economico 1898/99 registrò persino un avanzo di 11 milioni, ma la cecità politica della compagine governativa, coniugata alla strenua difesa degli interessi dei grandi proprietari terrieri, non andò oltre la riduzione, decretata il 23 gennaio 1898, da 7.5 a 5 lire a quintale del dazio sul grano di importazione, riduzione che tuttavia non compensò gli ulteriori aumenti determinati dalle manovre speculative e dagli inevitabili rincari che proprio il provvedimento dl governo aveva involontariamente indotto nei paesi produttori. Quando il governo il 4 maggio decise di sospendere temporaneamente il dazio d'entrata fino al 30 giugno, era ormai troppo tardi.Per avere un'idea della gravità della situazione, resa del tutto insostenibile nell'aprile di quell'anno dal forte aumento del costo dei noli marittimi, conseguente allo scoppio della guerra ispano-americana, che fece aumentare il prezzo del grano di oltre il 60% rispetto al '96, vale la pena ricordare che quando in quel torno di tempo la crisi si acuì e l'amministrazione comunale molfettese dové intervenire per arginare il malcontento popolare, vendendo il pane a prezzo politico, un chilo di pane era venduto a 35 centesimi, pari a più di un quinto della paga media giornaliera di un lavoratore, il che significa che se facessimo un confronto con la situazione attuale, avremmo che un chilo di pane oggi costerebbe, secondo quel rapporto, oltre 10 mila delle vecchie lire, ponendo la paga media giornaliera a 50 mila.Il governo, che pure aveva mostrato qualche interessamento alle questioni sociali approvando proprio nel marzo del '98 una legge con la quale rendeva obbligatoria l'assicurazione degli operai dell'industria contro gli infortuni sul lavoro e istituendo nel luglio successivo l'assicurazione facoltativa di previdenza per invalidità e vecchiaia, facendo fare dei passi in avanti alla nostra limitatissima legislazione sociale, vide nei tumulti del pane, che assunsero almeno inizialmente, e quasi dappertutto, le tipiche forme delle jaquerie, soltanto l'espressione di una cospirazione rivoluzionaria ispirata dai socialisti a fini eversivi e di conseguenza usò il pugno di ferro con terribile determinazione, fino ai limiti dell'impensabile, come accadde a Milano, dove fu bombardato il convento dei cappuccini di Via Monforte, sospettato di essere un covo di sovversivi.Un'idea, quella del complotto rivoluzionario, resa plausibile dall'accentuarsi della tensione sociale
manifestatasi a partire dalla primavera del '97, con una forte ripresa di agitazioni e scioperi soprattutto al Nord, interpretata come inevitabile conseguenza della diffusione delle idee socialiste. Si aggiunga poi l'attentato di Pietro Acciarito al re il 22 aprile di quell'anno, che portò all'arresto indiscriminato di militanti anarchici, socialisti e repubblicani romani, uno dei quali morì in carcere per le sevizie subite dagli inquisitori che volevano fargli confessare la trama eversiva che si sospettava essere in atto, con conseguenti violente dimostrazioni di protesta. La grande paura di una rivoluzione alle porte pervase sempre più i settori di potere e i ceti benestanti e si espresse non solo in inevitabili pressioni sul governo, perché usasse le maniere forti, ma anche in più esemplari atteggiamenti, come quello delle aristocratiche signore milanesi che nelle more dell'attacco al convento di Via Monforte sostennero le fatiche degli ausiliari della truppa rifocillandoli con dolciumi e marsala.L'idea di trasformare le sommosse del pane in un generalizzato moto politico di insurrezione, anche se poteva serpeggiare in settori più o meno ampi della base socialista, era però lontano mille miglia dalle intenzioni dei dirigenti del partito. Prova ne è non solo il fatto che quasi tutte le vittime di quelle tragiche giornate furono tra i dimostranti (poco meno di duecento rispetto a tre delle forze dell'ordine), il che mette in evidenza il carattere spontaneo e improvvisato delle agitazioni, animate inizialmente in molte località da donne e "monelli", ma anche il contenuto della lettera che Turati inviò a Salvemini, nella quale, rispondendo alle sollecitazioni di quest'ultimo "perché il partito si ponesse a capo dell'agitazione", il leader del PSI affermava: "Io non credo a questi moti, e vorrei sbagliare. Ma non ci credo. E non mi sento di assumermi responsabilità gravissime per uno scopo che non vedo chiaro e che, nelle migliori ipotesi, sarebbe una delusione."Le parole di Turati, che suscitarono l'indignata reazione di Salvemini, che stigmatizzò "l'idolatria legalitaria" del gruppo dirigente socialista, sono la palese smentita del teorema del capo di governo che vedeva nelle agitazioni di massa il pretesto colto dai partiti sovversivi, in particolare il socialista, per i loro fini eversivi. Un errore di valutazione che portò alla determinazione di "reprimere qualsiasi moto con la massima energia", "per mantenere l'ordine a qualunque costo", essendo "supremo dovere di perseverare in questo sistema di repressione pronta e inflessibile." Non mancarono tuttavia, in ambito liberale, voci dissenzienti: a Pareto che denunciava nel giugno del 1896 il carattere di classe del governo ("I privilegiati sanno sempre ricompensare chi bene li serve. Ognuno riceve ciò che più desidera, purché efficacemente sappia adoperarsi a crescere i pesi del popolo e a favorire le rapine dei ricchi borghesi"), faceva eco nel maggio del 1897, consapevole delle reali condizioni di vita delle masse popolari italiane, soprattutto quelle meridionali, Fortunato che sembrava presagire quanto sarebbe potuto accadere ("C'è nell'aria laggiù qualche cosa, di quell'afa che annunzia e che precede gli uragani, qualche cosa, non so, come una tempesta sorda di odii e di rancori"); per non parlare dell'esplicita condanna dei metodi repressivi del governo da parte del direttore del "Corriere della sera", Torelli Viollier, che il 3 giugno 1898 denunciava all'amico Pasquale Villari il "colpo di stato a beneficio della borghesia contro il popolo, ossia di una classe contro l'altra, dell'oppressore contro l'oppresso." Tardive, ma altrettanto illuminanti, sono le ammissioni giolittiane: "A mio parere fu allora un errore il credere che si trattasse di un grande movimento politico e sovversivo, mentre si trattava di un'esplosione di malcontento. Ma perdurava ancora nelle classi dirigenti uno stato d'animo paurosissimo di qualunque agitazione popolare e delle sue manifestazioni, e il governo, rispecchiando tale sentimento, si lasciò andare a provvedimenti eccessivi." Queste forti proteste erano per certi versi endemiche nell'Italia del tempo e anche se non esplodevano puntualmente in modo generalizzato sotto forma di rivolta in occasione di tempi tristi di carestia, di mancanza di lavoro o di aggravio d'imposte, erano minacciosamente incombenti e si manifestavano periodicamente con sinistre voci d'insofferenza. Dalle nostre parti le autorità di governo intervenivano per quel tanto che serviva a evitare la ribellione momentanea delle masse disperate, allo scopo di garantire l'ordine pubblico, senza mai mettere in discussione le condizioni oggettive che creavano il malcontento popolare. Così nel 1889 la prefettura e il comune diventano particolarmente solleciti nel dare lavoro ai contadini molfettesi disoccupati e danneggiati dalla guerra doganale con la Francia, quando si diffonde la notizia, pubblicizzata con manifesti affissi in città, che il popolo molfettese ha voglia di fare i conti con chi in loco rappresenta in qualche modo il governo, responsabile del grave disordine che ha affamato la povera gente, e ha scelto per questa prova l'ultimo giorno di carnevale, anche perché, grazie al travestimento carnevalesco, non si dovrà neppure rendere conto alla giustizia.A volte esplodevano magari senza un evidente pretesto immediato, come a Ruvo nel 1894, quando la sera dell'otto gennaio, al grido di "Viva la Sicilia, abbasso le tasse", una turba di oltre duemila dimostranti, tra cui come al solito molte donne e "monelli", armati per la maggior parte di ronche e bastoni, inaspettatamente, e apparentemente senza motivo alcuno, dà vita a saccheggi, devastazioni, incendi e lascia sul terreno tre morti e cinque feriti quando tenta di assalire la caserma dei carabinieri. Nonostante gli slogan abbiano un chiaro significato politico, il procuratore del re non vi vede un fine politico, ma soltanto il frutto di una attività cospirativa, le cui finalità rimangono oscure: "Sebbene per causa forse di necessarie tasse e aggravii, specie nella classe de contadini, trovasse in questi un germe di malumore, pure solo l'opera e il lavorio occulto e latente di misterioso agitatore poté preparare la sommossa e fare trascendere le plebi alla devastazione e agl'incendi da essi prestabiliti". Ed è un argomentare monco, che tuttavia lascia intravedere la causa possibile di tale tragica ribellione, che non sarà estranea alle motivazioni dei tumulti del '98: "Non è la quistione sola del pane che conturba la vita ordinaria di questa nostra popolazione; è maggiormente il fiscalismo, le angherie di agenti del governo", commenterà un osservatore di Barletta. Appena il barometro sociale dava segnali di gravi perturbazioni, al prefetto non restava altro che invitare i sindaci ad "adoperarsi vivamente a che in attesa degli invocati provvedimenti [volti a lenire la crisi] si mantenga dalle popolazioni la quiete e l'ordine pubblico. Le dimostrazioni popolari, le riunioni nelle piazze o davanti alle sedi dei pubblici uffizi a nulla possono approdare. Esse invece, pur non scompagnate da retti intendimenti, rischiano di far capo a perturbazioni pubbliche le quali tornerebbero a disdoro di queste civili, operose e tranquille popolazioni." Questo nel periodo molto critico '88-'89, quando si riconoscono le "miserrime condizioni degli operai", la "situazione molto difficile e dolorosa" e in qualche modo l'immobilismo del governo che risponde picche alle richieste degli agricoltori e degli amministratori della provincia, e si interviene tempestivamente con provvedimenti di corto respiro. Ad Altamura, dove i braccianti affamati in gruppi di sera con ardire girano per le strade e fermano i passanti o si recano alle case dei benestanti allo scopo di chiedere l'elemosina talvolta in tono minaccioso, s'impianta una cucina economica che con 10 centesimi fornisce un'abbondante minestra di legumi e pasta.Vi è anche chi in siffatta circostanza minimizza la gravità della situazione: "Se da una parte la crisi è innegabile -scrive il sottoprefetto di Barletta nel maggio del 1888- dall'altra parte bisogna riconoscere che non è gravissima, e che se ne esagera alquanto l'intensità da coloro che ne sono danneggiati. Molti e molti, già piccoli possidenti e negozianti, oggi proprietari ricchissimi, ritrassero per vari anni interessi favolosi dai capitali investiti in siffatta industria [enologica]. Ed ora, alla prima contrarietà che lor tocca, vedendosi mancare gli usati esorbitanti guadagni, gridano come aquile, e per poco non muovono lite al governo italiano, perché non rinnovò il trattato [commerciale] sottomettendosi a tutte le ingiuste pretese della Francia! Molti altri da umili artigiani e contadini, impiegati con lauti compensi e salarii nella industria enologica e suoi accessori, si abituarono tosto a vita signorile, e talvolta superarono gli stessi signori nelle spese voluttuarie e di lusso. S'illudevano che il ben di Dio dovesse sempre piovere su di loro, ma dal sentirsi squilibrati all'essere davvero immiseriti e rovinati, ci corre molto." Se questo è lo spirito di governo delle autorità periferiche, si può ben comprendere l'universo di odi e rancori al quale faceva riferimento Fortunato. Ciò che conta è che le manifestazioni siano dettate "dalla miseria e non da sediziose insinuazioni", e, per quanto oggetto di ragionevole preoccupazione, sono ammissibili quasi siano il portato fisiologico di una condizione che non si reputa grave in sé, ma per la considerazione soggettiva che le masse hanno della realtà, in quanto non sanno misurarla altrimenti se non con il metro delle meschine ragioni materiali: "Per ora -aggiunge il sottoprefetto di Barletta nella sua riservata- non sono da temersi perturbazioni dell'ordine pubblico, essendo ben noto a tutte le persone ragionevoli con quanta saviezza, prudenza e spirito conciliativo il Governo del Re abbia agito nelle sue trattative per la rinnovazione del trattato con la repubblica francese. Ma poiché le masse non ragionano e non indagano i motivi di ordine superiore che regolano la politica del Governo, ma invece misurano la bontà di questo alla stregua del benessere materiale che procura, e poiché i sobillatori delle masse non mancano, non potrei con sicurezza affermare che non s'abbiano a tentare dei torbidi e delle dimostrazioni di piazza."E non sarebbe servita a far cambiare opinione a queste autorità la calda perorazione del sindaco Gioacchino Poli di Molfetta che sosteneva a tutta voce, in una adunanza di sindaci del febbraio 1889, di sentirsi il rappresentante legale di un popolo affamato, senza che il governo nulla facesse per modificare la situazione, preoccupandosi solo di tenere calme con qualche espediente temporaneo le masse che morivano di fame. Tanto morivano di fame che bastava una nevicata, ancorché intensa, per rendere "tristissime" le condizioni di vita delle masse molfettesi e per evocare alla mente del delegato della polizia urbana Guglielmo Gallo, nel gennaio 1893, gli altrettanto tristi consigli che la fame suggeriva, mettendoli in relazione con i numerosi furti perpetrati in più punti della città in quel periodo. Tanto morivano di fame che il regio commissario Giacomo Amato nella relazione al ricostituito consiglio comunale del 2 aprile 1902 affermava di essere stato costretto a modificare la tipologia di intervento fino allora seguita, di distribuzione di pasta e carne cruda ai poveri, "disponendo che la carne fosse distribuita cotta insieme alla pasta", poiché coloro che usufruivano di questo servizio, e ai quali venivano date pasta e carne cruda, "vendevano le razioni per assoluta mancanza di fuoco e di condimento".D'altra parte, per quanto concerne Molfetta, gli anni immediatamente successivi al biennio critico 1888/89 sono scanditi da analoghe annotazioni nelle superstiti relazioni sullo stato delle campagne molfettesi, che costituivano comunque, nonostante il processo di industrializzazione, il settore rilevante dell'economia cittadina: nel '90 "la crisi perdura come prima, per non dire peggio di prima"; nel '92 "del ricolto [delle olive] si andrà a ricavarne un terzo appena" rispetto agli standard medi di produzione; nel '93 un'ostinata siccità compromette il raccolto e i lavori dei campi, ragion per cui "le condizioni delle classi agricole sono abbastanza infelici", nonostante "al tempo della sporga degli olivi la mercede si sia elevata fino a lire 1.60 al giorno", ma "tali mercedi messe in rapporto ai prezzi de' prodotti di prima necessità sono naturalmente scarse"; nel '96 "i venti sciroccali e le piogge continue" hanno favorito la diffusione della mosca olearia, di conseguenza "la quantità del ricolto è ridotta quasi della metà di quella che si prevedeva", e il dimezzamento interessa tutta la regione. Si può, infine, aggiungere che nel decennio 1888/97 si registra il 35% dei fallimenti di attività commerciali molfettesi sul totale degli atti conservati, che interessano il periodo 1874/1915; altresì nel biennio 88/89 i fallimenti sono pari quasi al 50% del totale del decennio 88/97.I fatti del 1° maggio di Molfetta sopraggiungono, quindi, al termine di un decennio caratterizzato da profondo disagio sociale, per l'effetto combinato dei riflessi della guerra doganale con la Francia, della strisciante crisi agricola, della conseguente crescita della disoccupazione, della volontà del governo di risanare il bilancio, inasprendo l'imposizione indiretta e riducendo di molto le spese di carattere sociale. Un chilo di pane, anche quando viene venduto a prezzo politico, lo si è detto, assorbe più di un quinto del salario medio giornaliero di un lavoratore, quando lavora. Che la situazione fosse esplosiva lo doveva pur pensare l'amministrazione comunale del tempo, la quale già nel gennaio '98 si era attivata "per evitare [che] il malumore che si [era] manifestato in altre regioni pel caro prezzo delle farine, scoppi[asse] anche qui." Essendo diminuito con il decreto del 23 gennaio di 2.50 lire al quintale il dazio sul grano d'importazione, non avendo avuto successo "le pratiche fatte con gli esercenti degli stabilimenti per la macinazione dei cereali e con i venditori di farine per la riduzione del prezzo di detto genere, i quali anziché accondiscendere piuttosto esigevano un aumento", allo scopo di "sventare la coalizzazione" degli esercenti, che intendevano speculare sul prezzo della farina, l'amministrazione aveva deciso di "aprire uno spaccio normale di farina, fino a quando non si [fosse] conseguita una riduzione dei prezzi", vendendola a 39 centesimi il chilo.Ugualmente tempestivo fu l'intervento dell'amministrazione nell'aprile, quando "per evitare qualsiasi funesta evenienza", prima ancora che s'iniziasse la stagione dei tumulti in provincia, la giunta il 22 aprile deliberò l'acquisto della farina, la panificazione e, come s'è detto, la vendita del pane a prezzo politico, con cospicuo impegno finanziario da parte del comune e con guadagno di chi riuscì a sottrarre 47 q. di farina e a frodare 22 q. di pane, pari nell'insieme a circa 3000 lire. Se poi a ciò si aggiunge magari la bassa qualità del prodotto della panificazione, la farina che sapeva di muffa e quella che dava pane nero, nonostante fosse stata pagata per dare pane bianco, le strane operazioni per cui si inviano 13 quintali di pane a Bari il 28 aprile e il 29 si risponde a precisa richiesta della sottoprefettura sulla quantità di grano disponibile sulla piazza molfettese: "Provvista grano pressoché esaurita" e nello stesso giorno si telegrafa al prefetto: "Farina disponibile presso questi mulini appena 1500 q. circa da bastare per dieci giorni. Questa amministrazione attivasi per acquisti fuori, finora senza alcuno risultato", si intende quanto la situazione potesse essere gravida di pericolose tensioni, sebbene la classe dirigente locale pensasse di aver fatto il possibile per scongiurare il peggio.Il fatto è che il pane venduto a prezzo politico non basta più, evidentemente nelle masse popolari molfettesi, e non solo molfettesi, va crescendo una coscienza di classe che se non proprio espressione di un chiaro progetto politico è tuttavia il segno di una contestazione più radicale del sistema di governo: il paternalismo filantropico è diventato insufficiente per risolvere le contraddizioni sociali divenute endemiche. La controprova è evidente nelle motivazioni della richiesta fatta dall'amministrazione alle autorità militari, dopo i moti, perché fosse presente stabilmente in città una truppa di 500 soldati, soprattutto come deterrente per impedire che i lavoratori adoperassero impunemente l'arma dello sciopero, "non senza contare l'esistenza di molti operai ed il propagarsi fra di essi di idee troppo avanzate". Le masse popolari ardiscono aprirsi nuovi spazi di libertà che fanno incrinare fortemente il sistema della legalità costituita. Ad Andria nei giorni dei tumulti non si registrano "né chiassi né dimostrazioni di piazza", perché i contadini a frotte si recano nelle campagne dei privati e vi lavorano, anche quando non ve n'è bisogno, la sera poi "a qualunque costo" pretendono il pagamento dei lavori fatti.Analogamente vent'anni dopo, in un momento altrettanto critico, il commissario prefettizio impegnerà considerevoli somme straordinarie per promuovere lavori pubblici intesi a lenire la massiccia disoccupazione, non solo allo scopo di "garantire la pace sociale", ma anche e soprattutto per evitare che la spontanea iniziativa dei contadini poveri, motivata dalle sacrosante ragioni della sopravvivenza, aprisse nuovi spazi di libertà, mettendo in discussione la legalità costituita, con conseguenze politiche rilevanti: "Le Signorie Loro -afferma il commissario prefettizio nella relazione del 3 novembre 1920- ricorderanno le gravi preoccupazioni della cittadinanza nei primi giorni del febbraio e marzo [1919], quando la gran massa dei contadini, col nobile scopo di procurarsi col lavoro i mezzi di sussistenza, entravano nelle proprietà private per coltivarle, procedevano all'allargamento o alla creazione di vie urbane demolendo muri di giardini e fabbriche rustiche che intercettavano il passaggio sulle stesse vie. Non ci era altro rimedio per evitare danni alle persone ed alle proprietà se non quello di dare occupazione al maggior numero di contadini e braccianti." Dunque è questo il senso nuovo delle cose, intuito da Salvemini e dalle forze reazionarie, quello della compatibilità del sistema socio-politico con gli spazi di libertà e democrazia, non più circoscritti nei limiti di una legalità che lascia impregiudicati i rapporti di potere: il rispetto delle leggi diventa vano e incomprensibile esercizio, quando sono costantemente in gioco le ragioni della sopravvivenza, quando il sistema fiscale e le scelte del governo cristallizzano e legittimano iniquità e soprusi; di qui la furia devastatrice contro edifici che sono considerati il simbolo della perpetuazione della miseria, di qui l'inferocita reazione al sopraggiungere della truppa considerata strumento di sopraffazione. "Pane! pane! abbasso i pesi!" gridano davanti al circolo socialista, nel pomeriggio del 1° maggio '98, facendo eco a tanti altri in altre parti d'Italia, al momento del prologo, i protagonisti di questa tragica storia, i cui tratti non sono tutti nettamente definibili. Il pretesto della rivolta è dato dal divieto del delegato di pubblica sicurezza di consentire l'inaugurazione della bandiera del circolo socialista il 1° maggio 1898. "La bandiera! La bandiera!" grida "un'enorme folla di ragazzi" raccolta davanti al circolo socialista, ma la bandiera -racconta un anonimo corrispondente di Salvemini- è stata portata via proprio per evitare ogni pretesto che possa dar luogo ad incidenti. Gli animi tuttavia sono molto riscaldati, riscaldati dal vino: "una miriade di fischi e di gridi elevano al cielo quei villani
ben avvinazzati." Uno di essi prende una pezzuola rossa e grida: "abbasso i pesi! pane! pane!" e tutti ripetono le stesse parole, anche "alcuni uomini [sopraggiunti], ubriachi pure." Vani sono, secondo la predetta fonte, i tentativi dei soci del circolo di placare gli animi con argomenti legalitari, si riesce solo a evitare che si diffonda la minaccia di bruciare il municipio. L'assembramento poi comincia a sciamare per il Borgo e qui si verifica l'episodio che probabilmente segna la svolta tragica della giornata: il corteo dei ragazzi si imbatte nel delegato di pubblica sicurezza, nel maresciallo dei carabinieri e nel capitano dell'84° e il delegato strappa -racconta il sindaco Mauro De Nichilo- "un faccioletto rosso da una mazza che formava la bandiera portata da un giovanotto." Il Borgo si popola allora di una "fitta agglomerazione di gente dei più bassi fondi sociali e cominciò una sassaiuola" che rese inevitabile l'intervento della truppa. Intanto una parte dei dimostranti si diresse verso l'ufficio centrale del dazio e questa volta, al dire del De Nichilo, i dimostranti non si limitarono a lanciare sassi e insulti, partì anche un colpo di revolver che rese la tensione tragicamente esplosiva. I soldati fecero fuoco: "innanzi al marciapiede del giardino Garibaldi -testimonia la madre di Salvemini- ne cadevano come tanti uccellini: il sangue di tanti innocenti era un orrore." Ma la giunta municipale del tempo, nella tornata del 21 maggio 1898, si sentì ispirata da "un sentimento di vera giustizia verso questo delegato di P.S. Sig. Raffaele Positano", nell'emettere nei suoi confronti l'attestazione "perché [gli fosse] data una ricompensa al valor civile", "per gli atti di coraggio e valore dallo stesso compiuti in occasione del moto popolare del 1°Maggio corrente mese". Proprio quel Positano che, vietando l'inaugurazione della bandiera socialista, aveva in qualche modo dato fuoco alle polveri e poi, nel pomeriggio, in contrasto con il parere del maresciallo dei carabinieri, aveva voluto che la truppa fosse in piazza, ben sapendo la reazione che avrebbe potuto suscitare. I fatti di Molfetta ebbero un inevitabile seguito giudiziario. Furono arrestati 45 molfettesi. Di essi nove erano socialisti, accusati di aver fomentato i moti, ma poi tutti assolti perché quei socialisti, a parere del pubblico ministero, appartenevano "alla più innocua famiglia socialista". Anche gli altri 36 imputati furono assolti dal reato di istigazione a delinquere, invece per i restanti reati di oltraggio a pubblico ufficiale e di violazione della legge di pubblica sicurezza, oltre ai socialisti ne furono assolti 17, mentre 19 vennero condannati a pene diverse, fino a un massimo di tre anni.Ma al di là della verità giudiziaria, che comunque potrà arricchire il giudizio storico quando sarà possibile rileggere le carte del processo, soprattutto per quanto concerne l'esame della dinamica dei fatti, quale valutazione si può ricavare dalle fonti disponibili, data ormai per scontata l'assoluta estraneità dei socialisti, e quindi la mancanza di una premeditata azione sovversiva? Si può rispondere che il sanguinoso episodio del 1° maggio da un lato richiama gli aspetti tipici di una jacquerie e dall'altra mostra come il malcontento dei bassifondi sociali tenda a tradursi in una volontà politica, per quanto istintiva, intesa ad affermare nuovi contenuti di governo, spazi di cittadinanza fortemente radicati nei bisogni di giustizia e di modificazione dei rapporti di potere nella società, racchiusi in un simbolo inequivocabile.
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L. Villari, I fatti di Milano del 1898. La testimonianza di Eugenio Torelli Vollier, in "Studi storici", luglio-settembre 1967.
"Corriere delle Puglie" aprile-maggio-giugno 1898.
Archivio di Stato di Bari, Agricoltura industria commercio, b.6 f.41; b.7 f.1bis; Camera di Commercio. Atti, b.1 f.1/B.
Archivio Comunale di Molfetta, categoria 7, vol.17 f.1-2-3-4; categoria 8, vol.21 f.3-4-5; categoria 16, vol.1 f.9-15; "Deliberazioni del Consiglio Comunale" vol.14; "Deliberazioni della Giunta municipale" vol.13.
Archivio di Stato di Trani, Corte d'Assise, b.137 f.764; Pandetta dei fallimenti.