Domande
di Angela Colonna

Sono contro la guerra. Sono pacifista? Cosa vuol dire essere pacifista, cosa vuol dire esserlo in questo nostro tempo?

"Guerra preventiva", "guerra al terrorismo": c'è un inganno, è evidente. Sono contraddizioni in termini: una guerra per prevenire una guerra. Sono teoremi che non reggono a una qualche analisi razionale o di semplice buon senso comune. Ma quale è oggi il buon senso comune?

È buon senso comune, ad esempio, credere che la seconda guerra del Golfo, quella del 1991 contro l'Iraq, in cui da una parte sono stati uccisi 150.000 uomini e dall'altra 150 per lo più caduti sotto il cosiddetto"fuoco amico", sia stata una guerra contro il regime di Saddam Hussein? Appare, dunque, irrilevante il dato che il dittatore con la sua famiglia e tutta la sua corte dopo tanti anni sia non solo ancora ben saldo al suo posto di comando ma che si sia rafforzato anche nelle ricchezze che conserva al sicuro nei molti paradisi fiscali, mentre quel massacro e l'embargo hanno colpito duramente direttamente solo il popolo irakeno che è sempre più povero e vessato. Considerazioni analoghe si possono fare per il conflitto afgano.

Per ritrovare il buon senso comune è sufficiente soffermarsi a guardare ciò che è evidente? Per recuperare la capacità di esercitare diffusamente le regole del buon senso sarebbe sufficiente, ammesso che ciò fosse praticabile su vasta scala, aggirare l'intermediazione degli imbonitori mediatici di massa?

Veblen evidenzia le pesanti conseguenze della grande guerra sul popolo americano anche in termini di danno alla salute mentale, che nei comportamenti diffusi è espresso, insieme all'aumento di patriottismo, di militarismo e di tendenza all'esercizio della repressione e alla sua giustificazione, dall'aumento della credulità popolare e dallo stato di eccitata inquietudine per cui vengono meno le normali capacità logiche e il comune buon senso.

La guerra, lo stato di guerra ormai permanente è, dunque, la condizione stessa della riduzione della guardia, dell'attenzione, della capacità di comprensione di noi gente qualunque?

La diffusa incapacità a interpretare i processi in atto nella società occidentale e la difficoltà a cogliere le relazioni tra il sistema socioeconomico e le istituzioni politico-affaristico-finanziarie rendono possibili la generale cecità a cogliere gli aspetti criminali, irrazionali e suicidi dei comportamenti dei governanti nelle politiche mondiali ma anche in quelle locali. Inoltre emerge una inquietante incapacità a rilevare l'ovvio e l'evidente e a esercitare il giudizio a la scelta.

Ma noi, gente comune, possiamo distoglierci dalle occupazioni di ogni giorno per interrogarci sul funzionamento della nostra società e di questo sistema economico? È di questo che serve pensare per dire se siamo contro o a favore della guerra? Pensiamo che gli affari politici e i sistemi economici siano cosa troppo complessa per essere alla portata della gente qualunque, alla portata della capacità di pensare della gente qualunque? È questione di una mancanza di consapevolezza di classe? E quali sono oggi le classi a cui riferire l'assetto della realtà? Mettere in ordine le informazioni per costruire un giudizio: cosa ci manca per fare questa operazione? Ci manca il patos, la passione, l'attenzione critica, la lucidità per collegare i disagi, i malesseri e le disperazioni individuali e collettive entro un unico quadro?

Il nostro mondo è attraversato da sempre meno arginate crisi che esprimono disoccupazione, povertà diffusa crescente, incertezza politica economica sociale: una criticità a cui viene contrapposta come argine una economia di guerra con cui l'impero esercita il controllo geopolitico sul globo. La guerra per risolvere le contraddizioni del nostro mondo, dell'economia capitalistica che fagocita risorse e esistenze. La guerra che diventa costituente, perpetua, addirittura preventiva e diffusa indifferentemente in funzione di un nemico non geograficamente collocato come il terrorismo. Il nemico diventa migrante, delocalizzato e abbastanza generico per consentire guerre che nella sostanza mirano al controllo delle risorse strategiche sul pianeta, da quelle energetiche tradizionali come il petrolio fino all'acqua essenziale alla semplice sopravvivenza.

Allora, io, gente qualunque, sono contro la guerra razionalmente o emotivamente? Provo a organizzare i pensieri ma non basta; sento morsi allo stomaco e cerco di decifrarli. Parlo con chi non la pensa come me e cerco di capire perché, cosa, da quando, in che modo. E sento che restiamo impigliati dentro una rete, quella del dibattito-duello, dentro una scacchiera a percorsi obbligati dove non ci si sfiora nemmeno, dove non si aprono nuove prospettive di ragionamento comune ma si perpetuano mosse prevedibili di attacco-difesa, un dibattito belligerante che consuma, niente del dialogo che crea. È la stessa sensazione di prigione dentro i dibattiti televisivi, e noi gente comune inconsapevolmente li reiteriamo parlando con l'altra gente comune. Quei dibattiti televisivi alla fine non spostano niente, sembra che, con toni civili o incivili, si tratti infondo solo di opinioni, tutte ugualmente legittime, contrarie e parallele, speculari e non interferenti.

Sento di soffocare, bisogna saltare fuori da quella scacchiera, strappare la rete, portare l'altro, l'interlocutore, fuori dalla stanza degli specchi, fuori da quella stanza dove siamo tutti uguali e speculari, quelli che la guerra la ordinano la somministrano la prescrivono, e quelli che la patiscono la vivono anzi la muoiono, e quelli che la guardano la sostengono la permettono, e quelli che la vorrebbero smascherata la denunciano la mostrano mostro agghindato a giustiziere e pacificatore. Le argomentazioni sono per lo più considerate ragionevoli, seppure sofferte, quelle della guerra inevitabile a custodia del mondo civilizzato, paranoiche o sentimentalistico-irrazionali quelle della guerra degli affari che controllano le risorse del pianeta e dei pochi che affamano i molti. Essere contro è per lo più equiparato a essere dalla parte del nemico, a essere irresponsabile.

Vorrei riuscire a dire contro per stanare il ritornello di chi è a favore della guerra. Vorrei riuscire a liberare la creatività del "sono contro" come potenziale per portare il confronto con l'altro alle radici dei nostri bisogni e alle radici della nostra capacità di desiderare la felicità, col coraggio per attraversare anche i nostri lati oscuri, quelli di ogni individuo e quelli dell'umanità.

Allora partiamo da questi, dal denaro, dal potere; dentro il mercato, sul territorio, fino al corpo. Il mio amico accetta la guerra perché crede a questo mercato come unica economia possibile. E in questo mercato crede sinceramente di ritagliarsi, magari strappandolo con i denti, un pezzo di benessere per sé e per i propri figli. È un benessere che non lo fa dormire di notte, che non gli dà serenità, che lo tormenta come un obiettivo sfuggente che si allontana ad ogni sforzo aggiuntivo, a ogni guadagno maggiore, una sensazione di carenza che cresce col crescere dei soldi.

Il mio collega la pensa come me sulla guerra e su molte altre cose, ma sul lavoro non può applicare principi estranei a quelli del mercato, valori che non siano quelli di mercato, del vendo-compro offerta-domanda rarità-abbondanza.

Guerra ed economia, crimini accettabili se si accetta di stare dentro il mercato, e questo mercato ci deve sembrare l'unica economia possibile, l'unica realtà reale in cui vivere.

E se fosse solo illusorio che questo mercato è l'unico possibile, che questo mercato è dato in natura, una natura in cui l'uomo è solo predatore, in competizione, avido e belligerante? E se fossimo come in "Matrix" e stessimo vivendo solo una idea di realtà? Una idea di realtà per cui questo mercato ci sembra inevitabile, dato per natura, per la natura stessa di noi umani e per la natura delle sole relazioni possibili tra di noi, per cui crimini di guerra e crimini di pace finiscono per sembrarci inevitabile prezzo di una esistenza sociale economicamente regolata. E se scoprissimo che fuori da questo inganno potrebbero esistere molti altri mondi, molte altre economie diverse da questa, molte altre realtà?

A volte sfuggono alla censura-rimozione - quella che è esercitata semplicemente con la zona d'ombra dei riflettori dei media - labili tracce di esperienze realizzate, seppure di piccola scala, di economie altre, da "Linux" e il movimento del free software, fino alla Grameen Bank che in Bangladesh presta denaro a tassi bonificati solo ai poverissimi e per lo più alle donne (Muhammad Yunus, Il banchiere dei poveri, Milano 1998). Esperienze di piccola scala e isolate nel mercato unico e nel pensiero unico, ma che ci permettono di intravedere sotto forma di ombre riflesse dentro le pareti della caverna dove siamo rinchiusi che fuori c'è un mondo di luci e colori, che la caverna è solo il mondo limitato in cui siamo costretti a pensarci per essere funzionali ai piani di un limitato numero di uomini e dei loro affari. Esperienze episodiche che parlano di tentativi, di una ricerca, forse del fatto che come specie stiamo cercando una strada, una alternativa di sopravvivenza al processo autodistruttivo a cui questo sistema capitalistico irreversibilmente conduce.

Sono contro la guerra. Lo sono per razionalità, per cuore, perché sono carne e questo mi fa umanità, piccolissimo frammento di umanità. Cosa ci serve per capire, per saltare fuori dalla scatola di specchi, per uscire dalla caverna? Cosa mi serve per saltare fuori dalla scatola e trascinarvi anche mio fratello, il mio amico, il collega di lavoro, il giornalaio, il passante che incrocia il mio sguardo? So che mi serve la razionalità, e so che mi serve anche il cuore ma che devo proteggere i suoi motivi dall'accusa di sentimentalismo, di utopismo, di non realismo.

Non c'è niente di asettico intorno all'argomento guerra. Devo parlarne in prima persona, prendermi la responsabilità. Contrapporre teoremi a teoremi, o sentimento alla ragione è restare dentro la stanza degli specchi allestita da chi regola il gioco. Forse saltare fuori da quella stanza è contagiare l'uso di un io pensante fatto di carne, dubbioso e disposto a guardare dentro il proprio labirinto, nelle viscere del proprio corpo e oltre i confini del proprio corpo, nel corpo dell'umanità, dove si incrina il pensiero unico e si aprono fessure da cui trasudano differenze molteplici. Nel teorema di economia spicciola dove tutto ha un prezzo e la guerra è un prezzo in una equazione matematica, allora la razionalità algebrica si incrina dove un fattore dell'equazione, la vita, è pari a infinito. Salta la razionalità, o anche solo la ragionevolezza, di un'equazione nella cui soluzione restano irriducibili scorie la carne dilaniata dei morti e la disperazione dei sopravvissuti, fame e menomazioni fisiche. La vita per assunto comune è valore incommensurabile, ma per ricordarcelo abbiamo a volte bisogno di sentire dentro la nostra carne il valore che attribuiamo alla vita e alla salute se si tratta di quella delle persone che ci sono care o di noi stessi.

Per razionalità e per cuore e per carne e sangue, tutto quanto siamo noi umani, per un pensare con il corpo, per l'empatia con l'altro che passa attraverso il corpo che pensa l'esperienza comune della vita e della morte, per la distanza dall'altro che il pensiero ci fa esperire nella variopinta molteplicità delle differenze, attraverso tutto questo dobbiamo provare a parlarci della guerra e della pace, dei loro crimini e di modi e di mondi altri realizzabili.

gennaio - aprile 2003