G8: la salute mondiale è passata da Genova
Nel luglio del 2001 l'Italia, presidente di turno dei G8, ospitava a Genova il Vertice degli 8 Grandi. Asserragliati nei palazzi nobili della città vecchia, temporaneamente "confiscata" ai genovesi per farne "zona rossa", off-limits per le moltitudini di manifestanti provenienti da ogni parte del pianeta, i capi di governo delle otto nazioni più industrializzate si incontravano per dare pubblica e globale visibilità al loro impegno -presunto- verso allarmanti problemi economici, politici e sociali dello scenario internazionale: dal debito estero dei paesi poveri alla questione ambientale, dalla sicurezza alimentare al fenomeno della criminalità organizzata internazionale.
Uno dei temi "caldi" iscritti all'ordine del giorno del summit era la questione della salute e della sanità a livello mondiale, soprattutto sulla spinta dell'epidemia Hiv/Aids nei Paesi in Via di Sviluppo (PVS), e soprattutto nell'Africa subsahariana.
Un gruppo di esperti sanitari dei paesi membri del G8 si era riunito a Roma nel marzo precedente, con l'incarico di elaborare una proposta di discussione su salute e situazione sanitaria mondiale da introdurre nell'agenda politica del Vertice di Genova.
La proposta presentata dal Gruppo Sanità G8 era ispirata ad un approccio integrato ed intersettoriale alla "salute", andando oltre il semplice riconoscimento di alcune malattie infettive -in particolare Aids, tubercolosi e malaria- come condizione di "non-salute". Tale proposta affrontava temi come il sostegno allo sviluppo dei sistemi sanitari nei PVS, la promozione di servizi efficienti, efficaci ed accessibili alle popolazioni, l'accesso ai farmaci e la necessità prioritaria di orientare le politiche di sviluppo in altri settori tenendo conto degli effetti sulle situazioni sanitarie.
Il gruppo di esperti sanitari dei paesi membri del G8, insomma, proponeva che i problemi della salute e della sanità a livello mondiale fossero affrontati in un'ottica di sistema, considerando anche le conseguenze che hanno sullo stato di salute delle popolazioni le scelte in altri settori (in primis l'impostazione delle politiche macroeconomiche).
Si giunse così ai giorni del Vertice con un suggerimento di indirizzo, sul tema della salute mondiale, tutto sommato positivo.
Tuttavia, mentre nelle giornate del 20 e del 21 luglio tra le strade del capoluogo ligure avveniva la repressione sistematica e "scientifica" dei cortei dei manifestanti da parte delle forze dell'ordine, a Palazzo Ducale -sede ufficiale del summit - le proposte avanzate dal Gruppo Sanità G8 nei lavori preparatori del Vertice subivano un vero e proprio "colpo di coda" da parte della linea di discussione ufficiale adottata dalla Presidenza italiana attorno al tema della salute mondiale.
Tale atteggiamento da parte dei "Grandi della Terra" provocò le dimissioni del Presidente del Gruppo Sanità, il medico Eduardo Missoni, che definì le proposte dei G8 in materia di salute "un'operazione di immagine [
] che per quanto i media possano essere indotti a presentare come un concorso di solidarietà, va ormai nella direzione opposta"(1).
Durante lo svolgimento del Vertice, infatti, l'indirizzo dei G8 in materia di salute mondiale accantonava i buoni propositi degli esperti (e dunque l'approccio multidimensionale), focalizzando l'attenzione sulla lotta contro alcune malattie, senza alcun cenno al modello di sviluppo economico e sociale che ha effetti determinanti sull'insorgere ed il diffondersi delle malattie stesse.
I G8 lanciavano la proposta di costituzione di un Fondo mondiale per la Salute presso la Banca Mondiale (il "Genova Trust Found for Health Care") e invitavano le grandi multinazionali a contribuirvi con 500mila dollari ciascuna, concretizzando così alcune delle anticipazioni contenute nel documento "Beyoind debt relief", elaborato autonomamente dal Ministero del Tesoro italiano e presentato al G7 dei ministri finanziari a Palermo nel febbraio 2001.
La proposta dei G8 si integrava con quella lanciata da Kofi Annan durante la sessione dell'Assemblea Generale dell'ONU (Giugno 2001) interamente dedicata all'AIDS/HIV: il Segretario Generale delle Nazioni Unite avanzava l'idea di un nuovo Fondo Globale per far fronte all'epidemia, specificando che si sarebbe dovuto trattare di una iniziativa esterna all'ONU e proponendo anch'egli il contributo -non solo nel finanziamento, ma anche nell'amministrazione del Fondo- del settore privato delle multinazionali, con la motivazione che le malattie infettive stessero sottraendo lavoratori e consumatori al mercato (!).
Il risultato della proposta di Annan e di quella dei G8 è stato il lancio dell'iniziativa "Fondo Globale per l'HIV/AIDS, la tubercolosi e la malaria", che dovrebbe "attrarre, gestire ed erogare risorse aggiuntive attraverso una nuova partnership pubblico-privata" e divenire operativo nel corso del 2002 (ma del quale non si ha più notizia). La creazione del "Fondo Globale per l'HIV/AIDS, la tubercolosi e la malaria" gode di illustri precedenti, prima tra tutti la "Global Alliance for Vaccines and Immunization - GAVI", il cui sponsor principale è la Bill & Melinda Gates Foundation che ha destinato a questa "alleanza" 750 milioni di dollari nel quinquennio 1997-2001. Nelle intenzioni dei promotori, l'iniziativa dovrebbe aumentare la disponibilità di risorse finanziarie da destinare alla vaccinazione dei bambini dei Paesi poveri (e al finanziamento della ricerca nei Paesi ricchi
) attraverso un fondo a gestione autonoma, ignorando la possibilità di contribuire al sostegno delle iniziative dell'Unicef e dell'OMS o direttamente ai Programmi di vaccinazione dei Paesi in Via di Sviluppo.
Con il Fondo Globale, a prevalere, ancora una volta, è la logica di riduzione delle strategie globali per la salute mondiale in lotta-tampone -a sfondo caritatevole- contro alcune malattie, peraltro in condizioni di scarsità di risorse: le Nazioni Unite stimano in 7-10 miliardi l'anno la cifra necessaria per far fronte alla sola lotta all'Aids, mentre per la fine del 2001 esistevano "impegni" da parte dei donatori per "soli" 1,3 miliardi di dollari senza alcuna indicazione circa la loro "sostenibilità" in termini di durabilità.
Inoltre il ruolo di primedonne attribuito ai rappresentanti delle multinazionali -soprattutto del settore farmaceutico- nella gestione del Fondo Globale pone un evidente problema di "conflitto di interessi": è legittimo che siano chiamate ad avere voce in capitolo in materia di salute pubblica mondiale quelle aziende transnazionali che della salute hanno fatto un bene di mercato e una fonte di profitto?
Di contro da più parti si sottolinea il problema della delegittimazione del sistema della Nazioni Unite, in particolare dell'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ridimensionata al ruolo di consulente-partner del settore privato su una questione -l'organizzazione internazionale in tema di salute pubblica- rispetto alla quale dovrebbe avere il ruolo primario di direzione.
La creazione del "Fondo Globale per l'HIV/AIDS, la tubercolosi e la malaria" non risponde all'esigenza di una visione di lunga durata rispetto al diritto alla salute delle popolazioni dei Paesi in Via di Sviluppo: essa è l'esempio più recente di come il modello neoliberista intenda le condizioni di salute-malattia sul pianeta e del modo in cui l'economia di mercato, le maggiori istituzioni finanziarie internazionali, i potentati economici influenzino il settore sanitario nei PVS.
Nel pianeta che sempre più va configurandosi come una "immensa distesa di merci" (K. Marx), anche la salute perde la condizione di diritto universale -"Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute ed il benessere proprio e della propria famiglia, con particolare riguardo all'alimentazione, al vestiario, all'abitazione, alle cure mediche ed ai servizi sociali necessari" (Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, art.1 comma 1)-, divenendo sempre più un bene di consumo soggetto alle leggi del mercato globale ed al gioco corporativo dei profitti.
Ammalati di povertà
Nel 1978 la conferenza mondiale dell'Organizzazione Mondiale della Sanità tenutasi ad Alma Ata in Kazakistan proclamò che nell'anno 2000 ogni cittadino del pianeta avrebbe dovuto avere accesso a servizi sanitari essenziali, tecnologicamente appropriati e sostenibili da qualsiasi nazione per quanto povera.
La strategia di politica sanitaria internazionale che avrebbe dovuto permettere il raggiungimento dell'obiettivo "Salute per tutti entro l'anno 2000" era quella della Primary Health Care (Assistenza Sanitaria di Base), tra i cui elementi essenziali spiccavano l'approvvigionamento di acqua e l'igiene domestica, un'appropriata nutrizione, la cura di base delle malattie più comuni, convenienti programmi di prevenzione, ecc.
La promozione dell' Assistenza sanitaria di base tentava di mettere in pratica la filosofia di approccio già contenuta nell'atto costitutivo dell'OMS (1948), che considera la salute come un "completo stato di benessere fisico, mentale e sociale e non solo come assenza di malattia o infermità".
Nonostante la "nobiltà" di tali propositi e proposte, l'ingresso del pianeta nel terzo millennio ha registrato il mancato raggiungimento dell'obiettivo proclamato con tanta enfasi, ed anzi possiamo constatare come la situazione sanitaria dei PVS sia oggi decisamente peggiorata rispetto agli anni Settanta.
La conferma viene dai dati del Rapporto UNDP sullo sviluppo umano relativo al 2000: 33,4 milioni di persone al mondo sono affette dall'infezione da HIV o da AIDS conclamato; di queste oltre il 93% vive nei PVS e circa 19 milioni sono africani; l'incidenza dell'infezione è dello 0,31% in Italia e dello 0,76% negli USA, nel Botswana e nello Zimbabwe arriva al 25%. Nei PVS 500mila donne muoiono di parto ogni anno (un tasso da 50 a 100 volte più elevato di quello dei paesi industrializzati). 60 milioni di persone muoiono ogni anno di fame e 14 milioni di giovani sotto i 15 anni muoiono ogni anno in seguito a malattie connesse alla malnutrizione e alla fame.
A fronte della drammatica realtà di questi dati, la comunità internazionale si affretta a "diluire" nel tempo il conseguimento dello scopo prefissatosi, propagandando -non senza retorica- il nuovo slogan "Salute per tutti nel XXI secolo" e mostrando invece scarso interesse ad analizzare ed affrontare le cause del peggioramento complessivo della salute globale, in particolare nei PVS.
La corrente di pensiero che si è imposta in tema di salute pubblica internazionale è andata progressivamente allontanandosi dal considerare la salute come condizione di benessere "allargata" all'intero sviluppo socio-economico (istruzione, lavoro, ecc.) delle collettività per focalizzarsi sul controllo di singole malattie, attraverso il lancio di campagne monotematiche quali, ad esempio, quelle contro la malaria, il morbillo, l'Aids . Tale approccio verticalista, pur avendo il merito di concentrare l'azione su una specifica problematica sanitaria, ha, di fatto, influito negativamente nell'organizzazione dei sistemi sanitari dei PVS e ha provocato una forte disarticolazione dell'azione di sanità pubblica, con conseguente dispersione di risorse: un approccio diretto alla malattia -piuttosto che alla salute- risulta più consono alle esigenze politiche o amministrative dei paesi e degli Organismi Internazionali donatori, di cui è ben nota l'influenza sulle scelte dei paesi beneficiari dell'aiuto internazionale; si adatta meglio alle strategie di mercato e di diffusione attraverso i media; può essere funzionale a mascherare attraverso campagne di grande visibilità e nel complesso economiche, la mancanza di una vera volontà politica per migliorare lo stato di salute delle popolazioni.
L' analisi del rapporto tra l'attuale assetto politico-economico mondiale -il neoliberismo- e la situazione sanitaria dei PVS non può prescindere da una duplice considerazione. In primo luogo, nei paesi del Sud del Mondo l'ingiustizia sociale e la povertà sono le principali cause di malattia, di disabilità e di morte. Aids, tubercolosi, lebbra, malaria sono vere e proprie "patologie da povertà", in quanto colpiscono "selettivamente" le aree più povere del pianeta: la povertà da un lato provoca condizioni di malnutrizione e introduce carenti condizioni igienico-sanitarie con conseguenze negative sullo stato immunologico e sulle condizioni di salute generale delle persone; dall'altro, non permettendo l'accesso a mezzi adeguati di istruzione e di informazione, favorisce il perpetuarsi di condizioni di ignoranza che ostacolano eventuali strategie di prevenzione. In secondo luogo, qualsiasi discussione relativa al miglioramento delle condizioni di salute o al rafforzamento dei sistemi sanitari nei PVS è del tutto velleitaria se non comprende una ridiscussione critica in termini strutturali del modello di "sviluppo" neoliberista: le linee di indirizzo socio-economico propugnate dalle istituzioni finanziarie e commerciali mondiali -su tutte Fondo Monetario Internazionale (FMI), Banca Mondiale (BM) e Organizzazione Mondiale per il Commercio (OMC)-, oltre a portare all'impoverimento di milioni di persone nei PVS, hanno direttamente un impatto negativo su importanti determinati della salute, quali le spese sociali e l'assistenza sanitaria.
Esiste, dunque, un filo rosso che unisce tra loro riforme ispirate a politiche neoliberiste, condizioni di povertà e di impoverimento e condizioni di salute/malattia nei Paesi in Via di Sviluppo.
La salute nella sua accezione più globale, è un esito dei processi che hanno luogo nelle situazioni sociali, economiche, politiche ed ambientali. Ci si ammala dunque, soprattutto, per le condizioni in cui si abita e si lavora, per l'indisponibilità di acqua (oltre 1 miliardo e 300 milioni di persone non hanno accesso all'acqua potabile e 200 milioni di bambini muoiono ogni anno a seguito del consumo di acqua insalubre, oltre che per le cattive condizioni sanitarie che ne derivano), per la mancanza di cibo (nei paesi poveri oltre un terzo dei bambini al di sotto dei 5 anni soffre di malnutrizione).
A fronte di queste considerazioni e di questi dati non possiamo non considerare l'allargamento della fascia di popolazione in povertà assoluta nei Paesi del Sud del Mondo come una delle cause primarie (se non la causa primaria) della crisi nell'ambito della salute mondiale.
Allo stesso modo le crescenti dimensioni della disuguaglianza globale (per cui il 20% della popolazione del pianeta, quella più ricca, possiede più dell'80% del reddito mondiale, mentre il 20% della popolazione, quella più povera, ne possiede solo l'1,4%) non possono non chiamare in causa il modello di sviluppo neoliberista, oggi dominante a livello planetario.
L'enorme drenaggio di risorse dal Sud al Nord del pianeta, provocato dal processo di recupero dei crediti su scala mondiale, e la conseguente imposizione ai PVS da parte delle istituzioni finanziarie internazionali dell'adeguamento a piani e programmi di "stabilizzazione macroeconomia" come condizione necessaria per la ri-negoziazione del debito estero (proroga dei termini di scadenza, diminuzione del carico degli interessi,ecc.) o l'ottenimento di nuovi prestiti per lo sviluppo o l'assistenza internazionale, influenzano in maniera decisiva i processi di sviluppo nei PVS.
Le cifre sborsate per gli oneri del debito dai paesi del Sud alle istituzioni finanziarie, alle banche e ai paesi del Nord rappresentano un flusso di capitali tanto imponente da vincolare in maniera decisiva la destinazione di fondi per la spesa pubblica. Istruzione e sanità sono i primi settori ad essere travolti dall'impatto del debito: i 48 governi dell'Africa subsahariana, ad esempio, "dirottano" annualmente verso i loro creditori una somma quattro volte superiore l'ammontare dei loro bilanci in istruzione e sanità messi insieme. Tale emorragia di denaro pubblico avviene in un continente -quello africano- dove: più della metà della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà assoluta (poverty line stabilita dalla Banca Mondiale nella cifra di 1 dollaro al giorno); circa la metà degli abitanti non ha accesso all'acqua pulita, ai servizi igienici, né ai servizi sanitari più essenziali; la speranza di vita alla nascita (Life Expentacy at Birth) è di circa 45 anni (poco più della metà rispetto a quella dei paesi avanzati); soltanto un bambino su due completa le scuole elementari; 24 milioni di persone sono affette da HIV/AIDS.
Benché dunque, la ri-negoziazione delle dimensioni e delle modalità di pagamento del debito estero dei PVS, nonché il dibattito internazionale sulla sua legittimità si pongano come nodi essenziali per le prospettive di sviluppo dei paesi poveri, le uniche modalità concrete di messa in discussione del fardello odioso del debito da parte delle istituzioni finanziarie e della comunità internazionale non prevedono, nella grande maggioranza dei casi, la cancellazione immediata e incondizionata, ma postulano un ridimensionamento della mole del debito a patto della ri-strutturazione delle economie dei paesi coinvolti. Attraverso i piani di "aggiustamento strutturale" gli organismi finanziari internazionali pongono decise condizioni alle linee programmatiche di indirizzo socio-economico dei PVS Durante gli anni Ottanta programmi di aggiustamento strutturale vennero applicati contemporaneamente in oltre cento paesi indebitati in Asia, in Africa, in Sud America. Il principio della "tutela economica" ha comportato il restringimento della sovranità economica e politica dei singoli stati attraverso, da un lato l'ingerenza diretta del Fondo Monetario Internazionale soprattutto nell'elaborazione delle politiche fiscali e monetarie -fase di "stabilizzazione economica"-; dall'altro il ruolo della Banca Mondiale nel sovrintendere agli effettivi processi di riforma riguardo a sanità, istruzione, agricoltura, trasporti, ambiente, ecc., nonché alla privatizzazione delle imprese statali, all'assetto degli investimenti pubblici e alla composizione della spesa pubblica -fase di "riforma strutturale"-.
Nei paesi coinvolti l'impatto sociale delle misure di austerità richieste dalle riforme macroeconomiche è stato veloce e devastante. Con l'intento di "stabilizzare" l'economia il Fondo Monetario suggerisce al governo "in via di aggiustamento" politiche di svalutazione della moneta nazionale. L'esito immediato della destabilizzazione delle divisa nazionale è l'impennarsi dei prezzi al consumo di beni e servizi e la conseguente compressione degli stipendi reali. Contemporaneamente la svalutazione innesca processi inflazionistici e obbliga il governo a varare il cosiddetto "piano antinflazione", come parte del pacchetto economico caldeggiato dal FMI. Il piano antinflazione ovviamente a poco a che fare con le vere cause dell'inflazione -cioè la svalutazione: esso si basa sulla "contrazione della domanda", che esige il licenziamento dei dipendenti pubblici, la deindicizzazione dei salari -cioè l'eliminazione delle clausole relative all'adeguamento dei salari nominali al costo della vita negli accordi collettivi- e tagli drastici ai programmi sociali. I settori pubblici della sanità, dell'assistenza sociale e dell'istruzione vengono progressivamente smantellati, anche attraverso l'introduzione degli user fees (pagamento diretto dei servizi da parte degli utenti al momento dell'uso).
Ad esempio, scuole elementari a pagamento o aumento dei prezzi all'utente per prestazioni sanitarie di ogni tipo rappresentano barriere all'accesso -in moltissimi casi "invalicabili"- per la maggior parte degli abitanti dei PVS a cui di fatto è preclusa la fruizione di questi servizi, data l'esiguità dei loro redditi.
L'economista Michel Chussudovsky nella sua analisi sull'impatto delle riforme propugnate dall'IFM e dalla WB evidenzia come attraverso l'adozione dell'aggiustamento strutturale nei PVS (e in Europa Orientale a partire dal 1989) "sono state prodotte carestie, sono stati chiusi ospedali e scuole, e a centinaia di milioni di bambini è stato negato il diritto all'istruzione di base. In alcuni paesi in via di sviluppo, le riforme hanno causato il ritorno di malattie infettive quali tubercolosi, malaria e colera"(2).
In tempi più recenti l'allarmante correlazione tra programmi di aggiustamento strutturale e riduzione della spesa sociale ha spinto le istituzioni finanziarie internazionali a prevedere nei "pacchetti di riforma" da loro propugnati l'istituzione di "reti di sicurezza" attraverso programmi volti a mitigare i costi sociali dell'aggiustamento e a proteggere i gruppi più vulnerabili.
Amaro paradosso del sistema economico mondiale! "Non è difficile notare l'ironia di una situazione in cui prima si crea o si peggiora la povertà e poi si investe in nuovi programmi per alleviarla".
Banca Mondiale e politica sanitaria internazionale
Oltre a produrre nell'ambito della sanità le conseguenze legate all'applicazione dei piani di aggiustamento strutturale, la Banca Mondiale, a partire dalla metà degli anni Ottanta, ha assunto un ruolo primario nelle politiche sanitarie internazionali quale maggiore finanziatore di programmi e produttore di strategie, arrivando ad avere nel settore un ruolo di maggior prestigio e peso economico rispetto alla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità. Come afferma Stefanini, "non è azzardato affermare che oggigiorno nei vari ministeri della sanità africani conta di più la Banca Mondiale che non gli altri organismi internazionali attivi in campo sanitario(4)".
Nel 1987 la Banca Mondiale mostrò il suo interesse a giocare un ruolo chiave nella formulazione della sanità internazionale attraverso la pubblicazione della "Financing health services in developing countries: an Agenda for Reform". Essa proponeva, in pratica, un graduale abbandono del ruolo dello stato nel finanziamento e nella erogazione dei servizi sanitari, con una crescente importanza assegnata ai meccanismi di mercato. Tale pubblicazione forniva alla BM lo strumento giusto per adeguare anche il settore sanitario alla dottrina economica introdotta nei PVS attraverso l'aggiustamento strutturale. L'insufficienza delle risorse destinate al settore sanitario e l'inefficienza del settore pubblico in sanità si trasformarono nella ricetta proposta dalla Banca Mondiale, ossia: far pagare gli utenti, introdurre sistemi di assicurazione sulle malattie, decentrare i servizi sanitari, favorire e potenziare il settore privato.
Nel settembre 1987 L'UNICEF promuoveva l'Iniziativa di Bamako(5) (Mali) la quale esprimeva la stessa posizione della Banca Mondiale esplicitata nell'Agenda for Reform riguardo al finanziamento dei sistemi sanitari ed in particolare al rifornimento di farmaci nell'Africa subsahariana(6).
L'Iniziativa di Bamako prendeva le mosse da una duplice considerazione:
1) di fronte all'incapacità delle strutture pubbliche di assicurare l'assistenza sanitaria di base al livelli accettabili soprattutto per le comunità rurali, occorreva prioritariamente insistere sulla parola d'ordine della "presa in carico" della propria salute da parte delle popolazioni.
2) Sintomo e causa -non la sola- della crisi di efficacia e della debolezza dell'impatto degli interventi sanitari territoriali sullo stato di salute delle popolazioni era la mancanza generalizzata di farmaci essenziali, soprattutto nelle strutture sanitarie periferiche.
L'Iniziativa di Bamako si proponeva dunque di:
a) incoraggiare le iniziative di mobilitazione sociale per la partecipazione delle popolazioni alla politica di farmaci essenziali e di assistenza sanitaria di base a livello di distretto;
b) assicurare un approvvigionamento regolare di farmaci essenziali di buona qualità al prezzo più basso possibile, sempre a livello di distretto, allo scopo di assicurare una organizzazione appropriata dell'assistenza sanitaria di base;
c) definire e mettere in opera un meccanismo di autofinanziamento per l'assistenza sanitaria di base a livello di distretto, utilizzando specificatamente la dotazione di farmaci essenziali per la costituzione di un fondo di rotazione.
In pratica, l'UNICEF si impegnava a versare da 0,50 a 0,75 dollari a testa per tre anni per ogni distretto che avesse messo in pratica l'Iniziativa di Bamako, ovvero 180 milioni di dollari per il periodo 1989-1991 ai paesi dell'Africa subsahariana; tali fondi dovevano essere utilizzati per la fornitura dei farmaci essenziali nei tre anni, e le entrate dovevano servire a finanziare l'assistenza sanitaria di base e a costituire un fondo di rotazione per assicurare l'approvvigionamento futuro di farmaci essenziali ed il funzionamento del sistema.
Le reazioni a questa iniziativa furono di diversa natura: molte perplessità vennero espresse a causa della esiguità degli studi controllati e di provata esperienza allora disponibili su cui la proposta si basava (due modesti progetti-pilota in Ghana e Benin). Un nodo decisivo era il problema dell'equità nell'accesso al servizio: da più parti si sottolineava come politiche di ricopertura dei costi avrebbe potuto impedire l'accesso all'assistenza sanitaria di base da parte delle popolazioni, soprattutto rurale. Numerosi studi dimostrarono in quegli anni come tariffe anche molto basse sui servizi sanitari ne riducessero sensibilmente l'utilizzo e come tale riduzione avvenisse soprattutto tra le fasce più povere della popolazione e, quindi, anche le più soggette ad ammalarsi(7).
L'UNICEF presentò l'Iniziativa di Bamako come una "coraggiosa strategia per rinvigorire il concetto di Primary Health Care" in quanto avrebbe dato alle comunità "un mezzo finanziario per rafforzare le sue pratiche e le sue strutture" consentendo ad esse di generare autonomamente i fondi necessari.
Tuttavia il fronte critico rispetto all'Iniziativa di Bamako, Organizzazioni Non Governative (ONG) operanti sul campo nel settore sanitario in primis, contestava il modo in cui sotto l'epiteto di "partecipazione comunitaria" si facesse passare la semplice contribuzione finanziaria da parte delle popolazioni a programmi sovente decisi da altri e "calati dall'alto" con pretese di universalità.
Il concetto di efficienza introdotto in sanità dall'Iniziativa di Bamako considerava il funzionamento di un sistema sanitario -nello specifico la gestione del fondo di rotazione- come un'operazione commerciale in piena regola, più che come erogazione di un servizio pubblico: prezzi dei farmaci e costi delle prestazioni sanitarie sono fatti dipendere dall'andamento del mercato dei pazienti-clienti secondo una logica economica che sovrasta le necessità di equità e garanzia di distribuzione del servizio.
È con il "World Development Report 1993-Investing in Health(8)" che la Banca Mondiale esplicita e da consistenza tecnica alla sua volontà di riorientare il settore sanitario dei PVS secondo i principi del libero mercato. Il documento propone l'introduzione nei paesi a basso e medio reddito di "pacchetti di interventi sanitari" cosiddetti "essenziali", sia clinici che di sanità pubblica, considerati prioritari e contrassegnati dal massimo rendimento rispetto al calcolo del rapporto costo-efficacia. I costi vengono ricavati dai budget governativi e dei programmi, mentre l'efficacia viene stimata in base al cosiddetto DALY (Disability Adjusted Life Year): presentato come una formula matematica universalmente valida per risolvere il problema del razionamento delle risorse sanitarie, esso è un indicatore che classifica ogni tipo di alterazione della salute in base al numero degli anni di vita sana che vengono persi da chi ne è affetto. All'invalidità viene dato un punteggio di gravità basato sul giudizio clinico e associato poi alla perdita "completa" della vita: Gli anni di vita perduti vengono inoltre pesati in relazione all'età del malato, con valori più bassi per i bambini e gli anziani rispetto ai giovani adulti -economicamente più produttivi-: ciò significa che un intervento che riesca a salvare la vita di anziani e bambini viene considerato meno efficiente di uno che salvi lo stesso numero di vita adulte. Parimenti tale metodo deprezza l'efficacia a lungo termine: un risultato positivo in ambito sanitario raggiunto nell'immediato avrà molto più valore -in quanto economicamente più favorevole- di un'uguale beneficio apprezzabile non prima, ad esempio, di due o più anni. Questa tecnica di valutazione nella scelta delle priorità rivela tutto lo spirito economicista del Rapporto, nonché l'intenzione di esportare nei sistemi sanitari dei PVS criteri di orientamento "preconfezionati": quando il calcolo del DALY viene compiuto per un programma di risanamento di acque e fognature, per esempio, tale intervento risulta molto meno "costo-efficace" delle vaccinazioni, dell'igiene scolastica, della prevenzione di alcolismo e tabagismo, o dell'educazione sanitaria, che fanno tutti parte del "pacchetto di interventi essenziali". Il Rapporto considera come valori-optional importanti determinanti ambientali dei processi di salute e malattia come fornitura di acqua potabile e servizi igienici: ciò significa che le popolazioni non sono state affatto consultate nell'esprimere le proprie preferenze né nel contribuire alla definizione di quali siano gli interventi efficaci e necessari. Tale questione solleva anche il problema dell'effettiva copertura dei servizi: quest'ultima è espressione non soltanto della loro efficienza ma anche della loro accessibilità ed accettabilità, sicché può accadere che il servizio più efficiente in termini di costo-efficacia non copra necessariamente la maggiore percentuale di popolazione.
Attraverso il Rapporto, la Banca Mondiale oltre ad incoraggiare i governi dei PVS ad investire denaro per la messa in opera dei pacchetti di interventi sanitari "essenziali", invita i governi stessi a favorire la concorrenza tra i vari tipi di servizi sanitari allo scopo di incrementarne l'efficienza. L'introduzione della concorrenza nel settore sanitario viene presentata come la soluzione ai cronici problemi d'inefficienza del settore pubblico. Nessun dato tuttavia supporta questa tesi o dimostra che tale approccio -dal sapore marcatamente ideologico- sia realmente efficace per il miglioramento e la qualificazione dei sistemi sanitari.
Al contrario, studiosi di salute pubblica ed esperti di sistemi sanitari hanno sottolineato come l'unica evidenza obiettiva finora disponibile neghi l'efficacia della "mano invisibile" -di smithiana memoria- in sanità: negli Stati Uniti, dove non esiste un servizio sanitario nazionale e l'assistenza sanitaria è in balia del mercato e della libera concorrenza, nonostante il 14% del PIL venga speso in servizi sanitari, 40 milioni di persone (il 17% della popolazione) non hanno diritto (e spesso non possono pagarsi) adeguate cure sanitarie non avendo né assicurazione privata né copertura sociale e 200mila pazienti si vedono ogni anno rifiutare l'ammissione in ospedale.
L' Agenda for Reform, l'Iniziativa di Bamako ed il Rapporto Investing in Health sono tre esempi lampanti che dimostrano come esista un orientamento internazionale riguardo alle politiche sanitarie, dettato dagli argomenti politici ed economici promossi a livello planetario dalle maggiori agenzie internazionali attive in materia di sanità, Banca Mondiale in testa. Secondo tale orientamento il finanziamento dei servizi sanitari, la loro erogazione e la loro utenza sono il risultato delle leggi di mercato e della concorrenza. Tuttavia l'ortodossia neoliberista nei sistemi sanitari dei PVS non dimostra la capacità di tenere in conto i problemi di equità verticale (proporzionato contributo al finanziamento dei servizi) ed orizzontale (uguale accesso ai servizi): di fatto l'utilizzo dei servizi sanitari essenziali esclude nel mondo 900 milioni di persone, di cui circa la metà nel continente africano, che, sic et sempliciter, non possono pagarli.
(1) E. Missoni, Perché mi sono dimesso dall'incarico di Presidente del gruppo sanità del G8, lettera diffusa alla stampa, www.eduardomissoni.net
(2) M. Chussudovsky, La globalizzazione della povertà, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998.
(3) A. Stefanini, Salute e Mercato, EMI, Bologna 1997.
(4) A. Stefanini, cit., pag. 58
(5) UNICEF, The Bamako Initiative: Rebuilding Health Systems, New York 1988.
(6) S. Giani, L'Initiative de Bamako au Mali: la réform pharmaceutique et le rôle de la médecine traditionelle, in N. Losi-L. Pisani (a cura di), Coopération et santè au Mali, Istituto Italo-Africano, Roma 1992.
(7) Yoder R., Are people willing and able to pay for halth services?, in "Social Science and Medicine", 29, 1989; McPake B., Hanson K. e Mills A., Community financing of health care in Africa: An evalutation of the Bamako Initiative, in "Social Science and Medicine", 36, 1993,; Gilson L., Russell S., Buse K., The political economy of user fees with targeting: developing equitable health financing policy, in "Journal of International Development", 7, 1995.
viii World Bank, World Development Report. Investing in Health, Oxford University Press, Oxford 1993.
*Roberto Covolo, laureato in Sociologia presso l'Università degli Studi di Urbino con una tesi dal titolo: Neoliberismo, sanità e valorizzazione delle medicine tradizionali nei PVS. Il caso della Repubblica del Mali.
Nel 2000 ha conseguito il titolo di "Operatore per le attività di cooperazione allo sviluppo".
Nel 2000 e nel 2002, ha collaborato e svolto ricerca sul campo nell'ambito delle attività dell'ONG italiana Terra Nuova in Mali nel settore della sanità di base e della valorizzazione delle risorse terapeutiche indigene.