Sulla crisi della finanza locale e globale
di
Francesco Mancini

Una efficace campagna di informazione e sensibilizzazione, sia sul tema dei controlli sul credito che su quello della riappropriazione dei risparmi investiti tramite banche e società finanziarie, si impone, per motivi di moralità, di giustizia o anche solo di compassione verso i tanti risparmiatori, privati e, spesso, derubati delle proprie risorse.
PREMESSA
Problemi come la desertificazione, la carenza delle risorse idriche, i mutamenti climatici, le guerre, la spesa per armamenti, il terrorismo, la disoccupazione, i fenomeni migratori, gli attacchi alla democrazia ed alla giustizia, la messa in discussione ed il ridimensionamento dei diritti in settori quali la sanità, la previdenza, l'assistenza e gli aiuti alle classi ed ai popoli meno fortunati appaiono al di fuori della portata non solo delle élite attualmente detentrici del potere politico, economico e finanziario, ma anche delle forze politiche e sociali di opposizione, peraltro spesso, come in Italia, solo di recente sostituite nel governo della cosa pubblica.
I motivi della mancata soluzione e, anzi, del progressivo aggravarsi dei problemi vengono solitamente individuati, a giustificazione di insuccessi ed inerzie, nella insufficienza delle risorse e nella difficoltà di approvvigionarsene a causa della crisi economica.
In realtà, queste risorse sono state sistematicamente ignorate, sprecate, distrutte e spesso consegnate nelle mani di predoni, che se ne sono serviti per arricchirsi e dare la scalata al potere, a tutti i livelli.
In tutto ciò, mentre i ladri hanno esercitato il loro mestiere con diligenza e professionalità, chi aveva il compito ed il dovere di ostacolarli ha dimostrato incompetenza, incapacità ed immobilismo, tali da risultare francamente inaccettabili e sospetti.

L'AMBITO LOCALE
Il numero del quotidiano La Gazzetta del Mezzogiorno in edicola il 26 luglio 2002, in due articoli accomunati sotto l'unico titolo "Le banche del Sud prede del Nord", richiamava le vicende di due importanti banche meridionali, il Banco di Napoli e Banca Carime, che presentano forti analogie per essere state entrambe acquistate da aziende bancarie settentrionali.
In particolare, in uno dei due interventi si parlava dell'ipotesi di fusione per incorporazione nell'Istituto Bancario San Paolo di Torino del Banco di Napoli, fino a non molti anni fa azienda con il rango di multinazionale, che in conseguenza della citata operazione perderebbe definitivamente autonomia ed identità giuridica.
Per ciò che riguarda Carime, azienda di rilievo pluriregionale, nata dalla fusione delle casse di risparmio di Calabria e Lucania, Puglia e Salerno, il giornale dava notizia di una interrogazione parlamentare relativa alle modalità e motivazioni dell'operazione di acquisizione del pacchetto di controllo da parte della Banca Popolare Commercio e Industria di Milano e della successiva gestione aziendale messa in atto dal management espresso dal nuovo azionista di maggioranza.
La richiesta di chiarimenti riguardava la possibile sussistenza di elementi tali da far supporre o sospettare un contrasto d'interesse fra la nuova gestione e l'azienda acquistata.
Per le ricadute negative sui lavoratori di Carime in termini di occupazione, diritti e retribuzioni, nel 2001 era stata avviata dagli stessi una vertenza, che aveva assunto carattere di particolare durezza, giungendo a sfiorare, in un episodio marginale, perfino lo scontro fisico.
Si è ritenuto, da taluni, che le rivendicazioni dei lavoratori Carime potessero essere l'avvisaglia di una sorta di "autunno dei bancari", con il possibile coinvolgimento dei dipendenti delle numerose piccole aziende di credito pugliesi, tra cui la Banca Cattolica di Molfetta, che hanno attraversato vicende per molti versi sostanzialmente analoghe.
In realtà, già dalla lettura dell'articolo citato, si evince una apertura di credito dei rappresentanti sindacali dei lavoratori Carime, in attesa di conoscere i termini particolareggiati e completi del piano industriale in elaborazione, nei confronti dei nuovi dirigenti nel frattempo nominati dalla società controllante, in sostituzione e ad integrazione di quelli inizialmente designati a comporre la compagine amministrativa e direttiva della controllata.
Pertanto, nonostante che dalle anticipazioni fornite circa il nuovo piano industriale si sia rilevata la previsione di ulteriori consistenti tagli all'occupazione, dopo quelli massicci effettuati nel 2001, un autunno dei bancari, quantomeno a livello regionale, è da ritenersi altamente improbabile.
D'altra parte, è comprensibile che, specie in condizioni, quali quelle attuali, di crisi economica e di elevati livelli di disoccupazione, i lavoratori si preoccupino di salvaguardare il proprio stipendio ed i mezzi di sussistenza delle loro famiglie, più che interessarsi della sorte delle aziende meridionali e delle risorse materiali e finanziarie da esse gestite.
Essi appaiono, infatti, più che altro interessati a subire il minor danno possibile in termini di retribuzioni, indennità di fine rapporto e trattamento pensionistico, mentre, di per sé, la prospettiva di una anticipata cessazione del rapporto di lavoro non costituisce affatto fonte di angoscia, ma, semmai, di sentimenti diametralmente opposti - e positivi - di liberazione da una perdurante situazione, se non di asservimento, quantomeno di frustrazione.
Può essere, peraltro, che una tale condizione mentale non sia il riflesso di una particolare contingenza storica, ma espressione del modo normale di intendere il rapporto di lavoro subordinato, come un qualcosa di cui non si vede l'ora di sbarazzarsi.
Inoltre, nelle condizioni attuali, più che improbabile, è pressoché impossibile che le aziende bancarie meridionali possano riacquistare la propria autonomia giuridica, irrimediabilmente perduta per effetto della gestione eccessivamente "allegra" del credito posta in atto negli anni ottanta e nei primi anni novanta, allorché alla guida delle banche meridionali erano soprattutto esponenti di sinistra, per lo più del PSI.
D'altra parte, non è che le aziende settentrionali, che hanno acquisito il controllo delle banche meridionali, fossero gestite granché meglio: esse ed i loro soci avevano però le risorse necessarie per le acquisizioni e la possibilità di ottenere le necessarie autorizzazioni dagli organi di controllo.
In ogni caso, una volta che le aziende bancarie meridionali hanno perso la propria identità giuridica o sono comunque cadute sotto il controllo di un gruppo estraneo al loro territorio d'insediamento, è venuta meno la situazione di autonomia gestionale, che, almeno in astratto, rendeva possibile l'impiego delle risorse raccolte dai risparmiatori nell'interesse dell'economia del meridione o, comunque, presso aziende operanti in tale area.
Com'è ovvio, una volta che le risorse siano diventate a pieno titolo di proprietà di qualcun altro, diventa a dir poco problematico, anche per il potere politico, indurre il nuovo padrone a gestirle in maniera diversa da quella che considera la più vantaggiosa.
Le degenerazioni nelle gestioni bancarie meridionali potevano e dovevano essere impedite sul nascere; ora è sicuramente tardi e si può fare ben poco e non, certamente, ristabilire le condizioni per la gestione ottimale delle risorse nell'interesse delle popolazioni meridionali.
Allora come ora, condizione essenziale perché nel sistema bancario si producano degenerazioni è la mancata separazione fra organo proponente e organo deliberante nella concessione del credito; la maniera più efficace di combatterle sarebbe garantire l'effettiva autonomia e libertà di giudizio al personale tecnico incaricato delle valutazioni di merito sulle concessioni creditizie e sulle emissioni di titoli.
In altre termini, le decisioni su stipendi, carriera, sede di lavoro, trasferimenti, aggiornamento professionale, controllo disciplinare e simili relative al personale di cui trattasi dovrebbero essere sottratte alla proprietà ed al management delle aziende di credito e finanziarie e trasferite agli organi di vigilanza.
I motivi sono semplici e facilmente intuibili: solo una piccola parte, spesso trascurabile, degli enormi capitali gestiti dalle aziende del sistema bancario-finanziario è di proprietà delle stesse.
La parte di gran lunga preponderante delle risorse amministrate dalle banche appartengono al pubblico, composto, ancor più che da operatori economici, da lavoratori, pensionati e nuclei familiari, che vi investono i risparmi, per lo più messi da parte per far fronte alle necessità della vecchiaia ed alle evenienze della vita.
Com'è comprensibile, il fatto di non rischiare soldi propri può costituire, almeno per i più disonesti e spregiudicati tra i manager, una tentazione irresistibile a favorire gli amici, ad imbarcarsi in avventure ad alto rischio e a porre in atto operazioni fraudolente, volte ad arricchirsi ai danni della stessa azienda gestita e dei risparmiatori.
La vicende finanziarie passate, infatti, avrebbero dovuto da tempo insegnare quello che sembra ora divenuto di comune evidenza, ossia che l'interesse del manager ad incrementare o ingigantire il proprio profitto personale non si concilia o, meglio, è in contrasto con i principi di sana e corretta gestione aziendale e spesso, come le cronache testimoniano, con le stesse condizioni minime per la sopravvivenza e continuità dell'impresa gestita.
C'è, dunque, un interesse pubblico evidente e primario a che i manager malintenzionati trovino sulla loro strada ostacoli, che impediscano la messa in atto di operazioni fraudolente, dubbie o ad alto rischio.
L'ostacolo, come detto, potrebbe essere costituito da figure professionali che non abbiano nulla da temere o di cui essere grate nei confronti dei manager per i quali lavorano e che, anzi, vengano premiate ogniqualvolta svelino anticipatamente le malefatte da essi architettate.
È, infatti, essenziale che le operazioni in danno della collettività vengano scoperte e bloccate prima che vengano attuate, perché, per loro natura, per l'esistenza dei paradisi fiscali e per le connivenze e corruzioni politiche e non, che consentono le attività illecite e ne traggano vantaggio, diventa poi oltremodo difficile o impossibile ogni azione di recupero e, ancor più, il ripristino della precedente situazione di legalità.
Ovviamente, benché sia convinzione generale l'opportunità e necessità vitale di una vigilanza preventiva del tipo delineato, nei fatti da nessuna parte è stata mai presa in seria considerazione la possibilità di una previsione normativa al riguardo.
A tale interessata indifferenza, il pubblico potrebbe opportunamente reagire riprendendosi i propri risparmi ed organizzandosi individualmente e collettivamente per la soluzione dei moltissimi e gravi problemi, che il sistema politico-finanziario va sempre più creando e aggravando e, in ogni caso, non appare in alcun modo in grado di risolvere.
Una attività di informazione, approfondimento ed organizzazione, volta ad orientare il pubblico circa l'impiego razionale delle proprie risorse per il soddisfacimento dei propri bisogni reali, si impone, dal momento che ogni giorno di più si constata la inadeguatezza ed il disinteresse del potere politico, finanziario ed imprenditoriale alla soluzione dei problemi reali della gente comune.

IL LIVELLO NAZIONALE
Fattori analoghi a quelli che hanno causato la crisi del sistema bancario meridionale, hanno prodotto la débacle finanziaria dello stato italiano e la crisi della democrazia: connivenze e corruzioni politiche, complicità e supporto finanziario di banchieri disonesti e spregiudicati, che spesso hanno fatto una brutta fine (alcuni, come Sindona e Calvi, addirittura "suicidati"), la possibilità di avvalersi dei paradisi fiscali sparsi in tutto il mondo, oltre che di quelli costituiti dalle banche del Vaticano, stranamente ignorate dalla legislazione italiana, i cui nessi, anche con i due citati improbabili suicidi, sono innegabili.
La finanza allegra, in particolare a partire dagli anni settanta, ha provocato, da un lato, il progressivo ingigantirsi del debito pubblico, problema di cui non si intravede ancora adesso la possibile soluzione, e, d'altro lato, la fuga all'estero del malloppo sottratto allo stato ed ai risparmiatori e poi rientrato, dopo il lavaggio, a condizionare pesantemente la finanza e la politica della nazione.
I riflessi nefasti sulla democrazia italiana sono sotto gli occhi di tutti e, ancora adesso, nessuno, magistrato od ispettore della Banca d'Italia, è in grado di dire da chi e da cosa abbiano avuto origine gli ingenti capitali che sono serviti al gruppo di potere attualmente dominante in Italia per acquisire, fra l'altro, il monopolio delle televisioni commerciali e, tramite esso, il governo dello stato.
I motivi per cui esponenti politici di sinistra e soprattutto di destra, in tempi non lontani distintisi per la durezza delle posizioni in materia di morale e di legalità, pur avendone tutte le possibilità, non abbiano fermato la resistibile ascesa di Berlusconi e del suo gruppo possono essere facilmente immaginabili.
Con tutto ciò, la sinistra e le altre forze politiche di opposizione persistono nella loro inerzia e riluttanza a percorrere una via, che potrebbe avere effetti importanti, se non addirittura risolutivi, nel confronto con il capitalismo finanziario e le sue degenerazioni.
Una efficace campagna di informazione e sensibilizzazione, sia sul tema dei controlli sul credito che su quello della riappropriazione dei risparmi investiti tramite banche e società finanziarie, si impone, per motivi di moralità, di giustizia o anche solo di compassione verso i tanti risparmiatori, privati e, spesso, derubati delle proprie risorse.
Essa potrebbe, peraltro, rivelarsi uno o forse l'unico strumento veramente in grado di colpire al cuore, cioè al portafoglio, i gruppi di potere politico-economico dominanti a livello sia locale che nazionale e mondiale.
Appare, quindi, francamente inaccettabile e ingiustificabile l'atteggiamento di quegli esponenti di sinistra, che, anziché schierarsi in favore dei risparmiatori e investitori danneggiati o truffati e adoperarsi per eliminare le storture e gli inganni del sistema finanziario, sembrano provare una sorta di maligno piacere nell'infierire nei confronti dei poveri diavoli che sono caduti in trappola nell'illusione di arricchirsi.
Fra i tanti possibili esempi, può prendersi l'articolista Alessandro Robecchi, che sul quotidiano Il Manifesto dell'11 agosto 2002, riferendosi ai rovesci subiti in borsa dagli investitori si fa beffe "della borghesia derubata, prima illusa e poi bastonata", trovando che "a essere cinici è una esilarante lezione di come il risparmiatore italiano si sia buttato a corpo morto nella speranza di diventare miliardario, uscendone a fettine sottili sottili."
Inutile dire che la borghesia, quella vera, dalla caduta dei valori di borsa può aver tratto solo profitto, speculando al ribasso o arrotondando a prezzi stracciati i propri pacchetti azionari, avendo tutto il tempo e le possibilità finanziarie per attendere con tutta calma, anche per anni, il prossimo rialzo dei corsi azionari.

IL CONTESTO GLOBALE
C'è almeno un'altra possibile lettura, oltre quella corrente, delle vicende ultime, come di quelle remote, delle società occidentali e dei sistemi politici, economici e finanziari che ne sono espressione.
Per lo più, sia i sostenitori che gli oppositori di tali sistemi ne hanno posto in luce ed anzi celebrato le conquiste in termini di produttività e di accumulazione di capacità produttiva, oltre che le realizzazioni nei più diversi campi del progresso tecnico e scientifico, della medicina, dell'igiene, della salute e così via.
È però verosimile che il ruolo per così dire "edificatorio" svolto dalla borghesia sia stato determinato o imposto da precise condizioni storiche, come l'enormità delle risorse che si rendevano disponibili con l'aggressione, la colonizzazione, il massacro sistematico ed il saccheggio delle ricchezze naturali del pianeta, che la borghesia europea andava man mano occupando, e delle popolazioni native, espropriate, sterminate, rese schiave o comunque sottomesse e sfruttate.
Non c'è la prova storica, insomma, che ciò che la borghesia ha realizzato sia frutto di un suo specifico destino o di una missione storica di edificazione del sistema, né, tanto meno, può dirsi che la storia abbia in alcun modo provato la validità della teoria secondo cui i lavoratori sarebbero destinati o abbiano anche solo mostrato una propensione o vocazione ad accettare e, men che mai, a lottare per una tale eredità.
Del resto, allo stato dei fatti e delle conoscenze non si può neanche affermare che la stessa classe operaia sia effettivamente un fenomeno duraturo e non sia destinata a sparire con il mutare delle condizioni storiche.
Lo stesso capitalismo, in fin dei conti, è durato troppo poco perché si possa essere sicuri di alcunché e chiunque, in un tale contesto, operi in base ad asserite certezze e verità incrollabili, sembra agire con criteri rientranti più nella sfera del mito e della religione che in quella della scienza.
Sono numerosi, d'altro canto, gli indizi atti a far ritenere che non ci sia stato nessun mutamento di natura del capitalismo e che, una volta cessata o fortemente ridimensionatasi la fase dell'espansione territoriale, si sia evidenziato anche nei territori metropolitani il carattere predatorio, aggressivo e distruttivo del sistema capitalista, con aspetti tali da potersi far legittimamente rientrare nell'ambito della follia suicida, quali le guerre mondiali, le bombe atomiche, i colpi di stato, gli squadroni della morte, le stragi di stato, i desaparecidos ecc. ecc.
L'idea della sostanziale nocività e pericolosità del profitto e, quindi, dell'impresa, quando non venga costretta da un sistema sufficientemente rigido di regole e controlli ad operare per l'utilità ed il benessere della collettività, non è appannaggio di forze politiche di sinistra, ma coevo al capitalismo moderno ed alla stessa economia politica, come testimoniato dalla citazione che segue, tratta dalla Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith, di cui, con l'occasione, si ribadisce l'invito alla lettura:
"I ... datori di lavoro rappresentano la terza categoria, quella di coloro che vivono di profitto. È il capitale che viene impiegato per ottenere un profitto, che mette in moto la maggior parte del lavoro utile di tutte le società. I piani e i progetti di coloro che impiegano il capitale regolano e indirizzano tutte le operazioni più importanti del lavoro, e il profitto è lo scopo cui tendono tutti quei piani e progetti. Ma la quota del profitto non aumenta con la prosperità né diminuisce col declino della società, come l'affitto e i salari. Al contrario, è per natura bassa nei paesi ricchi e alta in quelli poveri, ed è sempre massima nei paesi che vanno più in fretta verso la rovina. Quindi l'interesse di questa terza categoria non è nello stesso rapporto come le altre due, con l'interesse generale della società. ... l'interesse di chi si occupa di qualsiasi ramo particolare del commercio o dell'industria è sempre sotto qualche aspetto diverso e perfino opposto a quello del pubblico. Il loro interesse è sempre quello di allargare il mercato e restringere la concorrenza. Allargare il mercato spesso può presentare qualche vantaggio per l'interesse del pubblico, ma restringere la concorrenza deve sempre comportare un danno, e può servire soltanto a rendere possibile ai grossi papaveri, per l'aumento dei loro profitti a un livello superiore a quello naturale, di riscuotere a proprio beneficio una tassa assurda da parte degli altri concittadini. La proposta di una qualsiasi nuova legge o norma commerciale, che provenga da questa categoria, dovrebbe sempre venire ascoltata con grande diffidenza, e non dovrebbe mai venire approvata finché non sia stata a lungo ed attentamente esaminata, con massima cura e non solo con scrupolo ma anche con sospetto. Proviene da una categoria di persone il cui interesse non è mai esattamente lo stesso di quello del pubblico, e che di solito ha convenienza a ingannare o tiranneggiare il pubblico, e che di conseguenza in molte occasioni lo ha ingannato e tiranneggiato."
Al contrario, il giudizio positivo frequentemente espresso nei confronti della borghesia capitalista appare per lo più fortemente condizionato da una visione eurocentrica e per diversi aspetti razzista, nei confronti di tutta una serie di rappresentanti dell'umanità: i sottoproletari, gli slavi, gli indù, i popoli dell'Africa nera, i nativi dell'America del Nord, gli indios del Sud America e così via.
Appare quantomeno legittimo, in alternativa, proporre esplicitamente il crimine, ancor più che la rapina, come la categoria più idonea a rappresentare l'assetto attuale e la evoluzione delle società occidentali, a tutti i livelli: locale, nazionale, globale.
In un articolo su un numero del settimanale l'Espresso del luglio 2002, significativamente intitolato "La bisca del capitalismo", Giorgio Bocca rilevava come sia diventato ormai convinzione generale che la recessione mondiale dell'economia e della finanza sia anche dovuta al passaggio dal capitalismo produttore al capitalismo predatore ed agli scandali che hanno riguardato importanti multinazionali per lo più statunitensi, come la Enron, e società di revisione contabile di fama e prestigio internazionali, come la Arthur Andesen.
Al riguardo, Paul Krugman, professore di Economia e Affari Internazionali all'università di Princeton, a ridosso dello scandalo Enron-Arthur Andersen ha profetato che esso avrebbe avuto conseguenze ancor più devastanti e durature dell'abbattimento delle torri gemelle di New York e avrebbe segnato un punto di svolta nella percezione che l'America ha di se stessa.
Come noto, successivamente gli scandali si sono moltiplicati, tanto da rendere evidente ciò che già molti addetti ai lavori sapevano o sospettavano da tempo: l'esistenza di un totale e radicale scollamento o conflitto o contrapposizione fra l'interesse di dirigenti ed amministratori alla massimizzazione dei propri guadagni personali e le esigenze di una gestione corretta ed efficiente delle aziende amministrate e dirette.
Gli autori citati risolvono i loro interventi in una condanna morale dei responsabili di quelle che sembrano considerare degenerazioni del sistema economico-finanziario capitalista, oltre che in un attacco alle forze politiche - non esclusivamente rappresentate dalla destra liberista - ed alle legislazioni, che con le loro lacunosità e ambiguità e con le liberalizzazioni, deregolamentazioni e privatizzazioni degli ultimi decenni, ne hanno favorito la attuazione, rendendosene sostanzialmente complici.
Sembra di capire che, secondo un tale punto di vista, a rimettere le cose a posto basterebbe l'introduzione - secondo alcuni il ripristino - di regole e controlli rigorosi ed effettivi sulla gestione delle imprese affaristiche.
Per quanto astrattamente ineccepibile, tale rimedio appare inapplicabile, perché chi ha il potere di introdurlo, nello stesso tempo non ha alcun interesse a farlo.
Circa l'esplicita affermazione di Giorgio Bocca riguardo alla asserita esistenza di un momento di passaggio da un capitalismo definito produttore ad un altro con caratteristiche predatorie, sarebbe interessante un approfondimento circa l'epoca esatta in cui si sarebbe verificato un così radicale mutamento.
Secondo tale tesi, infatti, ci sarebbe stato un tempo in cui l'impresa sarebbe stato qualcosa di più o di meglio o di diverso da una macchina per far soldi a tutti i costi.
Sembrano tuttavia possibili, al riguardo, e almeno altrettanto legittime, letture e concezioni diverse delle vicende storiche dell'economia e della società occidentale e dei motivi per cui in poco più di due secoli sia diventata padrona dell'intero pianeta.
Sfortunatamente e forse non a caso, alcune di tali concezioni alternative non hanno goduto dello stesso credito e della stessa diffusione delle tesi liberiste e marxiste.
Una di tali concezioni, in sostanziale accordo con la ostentata diffidenza del padre fondatore Smith nei confronti degli imprenditori, del profitto e della finanza, fa capo a Thorstein Veblen, considerato il precursore dell'approccio istituzionalista all'indagine economica, al quale si richiamano anche il professor Galbraith ed altri importanti economisti e sociologi soprattutto nordamericani.
L'approccio di Veblen consiste nel mettere in luce la prassi ed i moventi reali, di natura eminentemente finanziaria, dell'uomo d'affari nella gestione delle imprese e come essi abbiano carattere distruttivo e predatorio, in contrasto con l'interesse della collettività e dell'uomo comune all'impiego più economico delle risorse per il soddisfacimento dei bisogni.
Si riportano di seguito stralci, ritenuti particolarmente esemplificativi del punto di vista assunto da Veblen, tratti da opere solo in parte tradotte e pubblicate in Italia, per lo più in edizioni costose o introvabili, a parte la arcinota Teoria della classe agiata, che però è la meno idonea ad illustrare il pensiero dell'autore nello specifico campo dell'indagine economica:
"Accade, in effetti, dato come vanno oggi le cose nell'industria e nel commercio del mondo civile, che, per un qualche involontario ma universale caso fortuito, la gestione degli affari secondo i principi della finanza sia nettamente in contrasto con gli interessi dell'uomo comune." …"La gestione degli affari è impostata sul criterio dell'utile finanziario e non si propone di raggiungere il massimo livello di produttività o l'impiego più economico delle risorse." … "Il ruolo dell'uomo d'affari nell'economia della natura è "far soldi", non produrre beni. La produzione di beni è un processo meccanico, incidentale rispetto al far soldi; mentre il far soldi è una operazione pecuniaria, realizzata attraverso la contrattazione e la vendita, non tramite apparati meccanici ed energie. Gli uomini d'affari utilizzano gli apparati meccanici e le energie del sistema industriale, ma ne fanno un uso pecuniario. E infatti, quanto minore è l'uso che un uomo d'affari può fare delle attrezzature e delle energie meccaniche a suo carico e quanto meno il prodotto che può riuscire a fabbricare per un dato ritorno in termini di prezzo, tanto meglio persegue il suo scopo. Il miglior risultato negli affari è quello che più si avvicina al conseguimento di qualcosa per niente. Ciò che una azienda d'affari guadagna deve scaturire dall'industria produttiva, naturalmente; e in tale limite ogni determinata azienda ha interesse alla produzione continua di beni. Ma meno una data azienda riuscirà a dare per ciò che ottiene, più lucroso sarà il suo commercio. Il successo negli affari significa "prendere il meglio dal mercato"" … "È interesse del mercato nel suo insieme che l'impresa sia diretta in modo da consentire la migliore e più vasta produzione possibile di beni e servizi; mentre l'interesse dell'impresa in quanto organizzazione in attività è quello di una gestione che ne mantenga la efficienza e che consenta di vendere il maggior quantitativo possibile di prodotti ai prezzi migliori ottenibili nel lungo periodo; ma l'interesse dei managers, e dei temporanei proprietari, è di dirigere l'impresa in modo da potere comprare o vendere (NOTA: l'impresa stessa o quote di essa) il più velocemente ed il più vantaggiosamente possibile. L'interesse della comunità nel suo insieme richiede l'efficienza industriale e l'utilità del prodotto; l'interesse economico dell'impresa in quanto tale richiede la vendibilità del prodotto; e l'interesse di coloro che detengono il potere discrezionale ultimo della gestione di queste società consociate richiede la vendibilità del capitale sociale." … "…il mercato dei beni … non è più come un tempo il fattore predominante dell'attività affaristica e industriale. Sotto questo aspetto, il mercato dei capitali ha assunto il primo posto." … "…questo tipo di attività è così sicuro e lucrativo che è soprattutto dai guadagni derivanti direttamente e indirettamente da tale traffico di capitale vendibile che si vanno accumulando le grandi fortune moderne … La storia della civiltà umana non conosce nulla di altrettanto efficace agli effetti di un'accumulazione di ricchezza personale."
Si sottolinea, per quanto forse superfluo, come all'autore, morto nel 1929, fosse ben chiaro il contrasto di interessi fra le imprese e gli uomini d'affari e manager che le gestiscono, che alcuni, sotto sotto, sembrano interessati a gabellare come una recente e shockante scoperta, dovuta alle rivelazioni sullo scandalo Enron.
Ma, se il fine è quello della rapina e l'attività predatoria, le modalità criminose per conseguirlo non si esauriscono certo in falsi contabili, insider trading e truffe varie.
I profitti si fanno in più ingente quantità, distruggendo, sprecando ed inquinando le risorse, con le guerre, l'escalation della spesa per armamenti ed attività simili.
Il presidente Bush figlio, seppure mai ce ne fosse stato bisogno, con le sue recenti proposte di effettuare perforazioni petrolifere nel parco naturale dell'Alaska e di abbattere le foreste per evitarne gli incendi, dovrebbe avere tolto qualunque residuo dubbio circa il carattere francamente criminale e suicida della follia che connota le sue concezioni e quelle del gruppo di potere politico-affaristico-finanziario che a lui fa riferimento.
Peraltro, forse si ricorderà che a suo tempo la guerra contro l'Afghanistan è stata scatenata con il pretesto di dare la caccia a quel tale bin Laden, pluriricercato nemico pubblico numero uno, che qualche mese prima, si stava tranquillamente curando in un ospedale americano di Abu Dhabi, ove ricevette anche la visita dei familiari e di membri della casa reale saudita, oltre che del responsabile di zona della CIA.
Ma c'è di più: pur essendo ovvio fino alla banalità che le guerre non si fanno senza armi, come mai un sincero amante della pace come il presidente Bush non si scaglia contro i produttori e i mercanti di armi? Perché concede le necessarie licenze e autorizzazioni, perfino quando riguardano la fabbricazione e il traffico di mine antiuomo? Perché non vieta queste attività, non le impedisce, non le perseguita, non cerca di azzerarle, avvalendosi del suo immenso potere all'interno ed all'esterno del suo paese?
E allora, possono esservi dubbi su quali siano i veri nemici dell'umanità e dell'ambiente naturale, che occorre neutralizzare per salvaguardarne la sopravvivenza?
Evidentemente, dubbi e difficoltà nella percezione del banale non solo esistono, ma sono largamente prevalenti nella mentalità comune dei popoli occidentali ed occidentalizzati.
Giusto per fare un esempio fra i tanti possibili, chiunque affermi la responsabilità dell'apparato statale politico-militare-spionistico in crimini, quali la strage di Piazza Fontana o l'assassinio dei fratelli Kennedy, viene bollato come estremista e ipso facto ritenuto inattendibile e non degno di considerazione e, anche quando le colpe vengano provate, ammesse e perfino confermate con sentenze giudiziarie, la disinformazione spettacolarizzata rende tali fatti del tutto irrilevanti, declassandoli sbrigativamente, nella comunicazione mass-mediatica, al livello dell'opinione bizzarra, dello scandalismo, della fantapolitica, della fissazione monomaniacale, della paranoia complottista e così via.
Insomma, l'aspetto più inquietante e pericoloso della odierna società dello spettacolo, come di quelle che l'hanno preceduta, sembra proprio consistere nella sua costituzionale inidoneità, indifferenza o riluttanza a percepire la doppiezza ed inaffidabilità del potere, per quanto ovvia ed evidente possa apparire a soggetti rispetto ad essa estranei o marginali.
In difesa della civiltà e della stessa sopravvivenza dell'umanità, si può provare a percorrere su scala globale la via già suggerita con riferimento alle problematiche locali, quella, cioè, di invitare ciascuno a riprendersi i suoi soldi, sottraendoli a chi li usa in danno dell'umanità e della natura, per utilizzarli in funzione del proprio effettivo benessere.
Comunque, varrebbe la pena di tentare di neutralizzare l'establishment politico-affaristico-militare con il lancio di una campagna di sabotaggio finanziario a livello planetario.
In ogni caso, quand'anche non avesse il successo sperato, una tale forma di azione appare giustificata e doverosa dal punto di vista morale, oltre che conforme a principi di buon senso e perfino a quelli della convenienza economica e della libera iniziativa privata.

settembre - dicembre 2002