"La vida infernal de galera". Lavoro e sfruttamento nel Mediterraneo moderno
di
Ignazio Pansini

Limitandoci al nostro argomento, è necessario premettere, per sfatare una pia leggenda, dura tuttora a morire, che nello sfruttamento schiavistico le potenze cristiane si distinsero almeno quanto quelle musulmane.
Dal XIII al XVII secolo la galea (o galera) fu il natante maggiormente utilizzato nei combattimenti navali in Mediterraneo. . Era uno strumento bellico altamente perfezionato, univa alla propulsione a remi quella eolica, ma la ridotta capacità di carico, limitata a merci pregiate, e il numeroso equipaggio, aumentavano notevolmente il suo costo d'esercizio. Munita di un unico ponte, armava da uno a tre alberi con grandi vele latine e lunghissime antenne, manovrati da una trentina di marinai che si occupavano anche della restante gestione strettamente nautica del battello, escluse la voga e le operazioni di difesa-attacco. Queste ultime erano affidate ad altri cinquanta uomini, tra balestrieri, moschettieri e cannonieri. A prua vi era una piattaforma sulla quale era piazzato un cannone di grosso calibro, affiancato in genere da altri due più piccoli. Un'ampia struttura poppiera, piuttosto rialzata, era riservata al capitano ed al timoniere, ed era coperta da una robusta tenda di protezione. Si possono distinguere diversi tipi di galee. La più diffusa, quella da battaglia, era detta dai veneziani "sottile"; una sua variante, leggermente più lunga, era detta "bastarda", ed in genere era la capitana della squadra, e imbarcava l'ammiraglio comandante. Si distingueva per lo sfarzo delle insegne, e per particolari tinteggiature dello scafo. Fino alla seconda metà del 400 navigò la galea "grossa" o "da mercato", molto più larga e pesante della sottile. Era sostanzialmente una nave da carico, ma non resistette alla concorrenza delle navi "tonde" a vele quadre, cocche, caracche ed altre. Le "galeazze", protagoniste della vittoria cristiana di Lepanto nel 1571, erano a metà strada fra le galee ed i galeoni: bordi alti, batterie laterali di cannoni, ampia superficie velica; ma soffrirono sempre di scarsa manovrabilità. Mantenevano i difetti delle sottili, senza averne il pregio maggiore: la velocità.
Si è molto discusso sulle ragioni della longevità di questo tipo di battello, come anche sui motivi della sua fine. In linea di massima, si può dire che gli aspetti positivi, (velocità, possibilità di navigare in assenza di vento, buon adattamento ai regimi eolici dominanti in Mediterraneo), prevalsero sugli evidenti difetti (scarso armamento, difficoltà con mare grosso e vento contrario, dipendenza dalla voga), fino a quando i loro impieghi prevalenti, polizia, rapina, pattugliamento e guerriglia marittima non furono assolti con mezzi diversi e più adeguati alla nuove caratteristiche della guerra sul mare.

Come si è detto all'inizio, la galea è un natante caratterizzato da una propulsione mista, eolica ed a remi. Questo aspetto ha delle implicazioni sociali estremamente importanti, alle quali di seguito accenneremo, e che motivano la compilazione di queste brevi note. Premettiamo le dimensioni medie di una galea sottile da battaglia, intorno alla metà del '500, lunghezza, 42 metri; larghezza 5, 50; altezza 2. Su ogni lato del battello erano disposti dai 25 ai 30 banchi, sui quali prendevano posto i vogatori. I sistemi di voga furono due. Il primo, detto "alla sensile", fu adottato fino alla prima metà del '500, sopratutto sulla flotta veneziana. Prevedeva tre vogatori per ogni banco ognuno dei quali disponeva di un remo lungo dai dieci agli undici metri. Per evitare che ad ogni colpo di voga si formasse un groviglio inestricabile, i banchi erano disposti diagonalmente verso poppa, in modo che ciascun uomo potesse manovrare il proprio remo parallelamente a quello degli altri, senza scontrarlo. Questo sistema richiedeva notevole abilità ed esperienza in ogni singolo vogatore e una diversa e definita misura nei tre remi di uno stesso banco. Nella seconda metà del XVI secolo si diffuse progressivamente in tutte le marinerie un'altra voga, basata su di un tipo di remo detto "scaloccio". Più pesante, più robusto, più rigido e leggermente più lungo dei remi alla sensile, doveva essere manovrato da più uomini, (fino a sette), che facevano forza su una serie di maniglie di legno, disposte lungo la sua parte interna. Il vantaggio di questo tipo di remo, consisteva nell'aver bisogno di un solo esperto vogatore per dare il ritmo agli altri, che potevano perciò essere del tutto privi di esperienza. Per questa ragione, la voga "a scaloccio" si diffuse rapidamente presso tutte le flotte mediterranee, perennemente a costo di uomini. Si consideri infatti che una galea, in pieno assetto di guerra, impiega mediamente 250 vogatori, ed altri 15 uomini, addetti alla sorveglianza, al ritmo, ed alle punizioni dei galeotti. Considerato il tasso di mortalità, e la necessità di urgenti e continui rimpiazzi, si evidenzia in tutta la sua importanza il problema del reclutamento. Vediamo ora di esaminare dal punto di vista sociale l'apparato remiero "tipo" di una galea "cristiana", navigante in Mediterraneo (e quindi anche in Adriatico), in pieno assetto di guerra ai primi del Seicento. Come si vedrà, esso costituisce un universo coercitivo complesso ed al tempo stesso rivelatore dei ferrei rapporti di classe e di sfruttamento interni alle monarchie europee d'età moderna. Ho usato volutamente un aggettivo di ascendenza religiosa per due motivi: innanzi tutto non posso in questa sede occuparmi della voga sulle galee ottomane e delle reggenza barbaresche nordafricane. L'appartenenza poi al mondo cristiano (e specificamente cattolico), ha costituito per secoli un comodo paravento atto a giustificare comportamenti che di religioso non avevano nulla, compresa naturalmente la condanna al remo. I vogatori di questa galea, possono dunque dividersi in tre categorie: i "buonavoglia", i forzati, e gli schiavi. Cominciamo dai primi.
Per secoli, sopratutto sulla flotta veneziana, i "buonavoglia" costituirono la stragrande maggioranza dei vogatori. Uomini liberi, offrivano volontariamente la loro opera, percependo un salario che veniva in genere anticipato prima dell'imbarco. Avevano anche la possibilità di esercitare piccoli commerci durante la sosta nei porti. Non erano incatenati ai banchi, e durante i combattimenti potevano contribuire in armi alle operazioni belliche effettuate dalla galea. Tuttavia, con il passare del tempo, la situazione di questi vogatori subì un progressivo peggioramento. Intanto il reclutamento diventò praticamente forzoso, e simile a quello praticato per i vascelli a vela. Vagabondi, miserabili, accattoni, disseminati nei bassifondi delle grandi città portuali, o contadini impoveriti e indebitati dai cattivi raccolti e dalle carestie, venivano rastrellati dalle milizie marittime e ricattati: o il carcere, sotto vari pretesti e giustificazioni d'ordine pubblico, o l'imbarco sulle galee, con un salario di mera sopravvivenza, e con la vaga promessa d'essere liberati per buona condotta, dopo un lasso di tempo mai ben definito. Gli spagnoli chiamavano questi disgraziati "buenas boyas de carcel", per distinguerli dai volontari veri e propri, sempre più rari, i "buenas boyas de bandiera".
Insomma, alla fine del '500 questa categoria di vogatori era sempre meno libera, e sempre più assimilabile alla seconda, cui di seguito accenneremo: quella dei forzati. Come è noto, la condanna al remo fu tra le più diffuse in età moderna, a tal punto che nella lingua italiana il termine "galera" diventò, ed è tuttora, sinonimo di "prigione". Essa fu prevista per un numero amplissimo di reati, e fu comminata con modalità così complesse e contraddittorie, da costituire da sola un capitolo interessante della storia del processo criminale. Limitandoci al viceregno spagnolo di Napoli, l'accusato poteva finire "sulla" galera "arbitrio judicis", non potendosi emettere sentenza definitiva per mancanza di prova legale. In altri casi, si trasmettevano al remo i condannati in attesa di sentenza definitiva d'appello, per un tempo indeterminato, con la possibilità, non inconsueta, che il verdetto finale stabilisse una pena minore di quella già scontata vogando alla catena. Era la cosiddetta condanna "loco depositi". Tuttavia, la stragrande maggioranza dei forzati napoletani proveniva da quella generalissima categoria di devianti, considerata come radice di ogni delitto e disordine: gli "oziosi" e i vagabondi.
La Prammatica Terza "De Vagabundis", prevedeva una pena di 5 anni di galera contro tutti coloro che entro il termine di tre giorni dalla pubblicazione della legge non potessero dimostrare di esercitare un'arte o di stare a padrone. Numerosi e complicati cavilli, oltre che il severissimo regime carcerario di bordo, prolungavano la pena a tempo indeterminato, trasformando di fatto quegli infelici in forzati a vita. Eppure questi periodici rastrellamenti che nelle intenzioni delle autorità vicereali avrebbero dovuto da una parte "ripulire" città e campagne, e dall'altra consentire l'armamento di un numero congruo di galee, si rivelavano puntualmente incapaci di raggiungere entrambi gli obiettivi, perchè a terra ci si dava alla macchia per bande, e in mare si moriva come mosche. Rimangono gli schiavi. La riduzione dell'uomo in schiavitù e la sua mercificazione, è un fenomeno universale, cui non si sottrae, pur con le sue specificità, l'area mediterranea. Limitandoci al nostro argomento, è necessario premettere, per sfatare una pia leggenda, dura tuttora a morire, che nello sfruttamento schiavistico le potenze cristiane si distinsero almeno quanto quelle mussulmane. Gli schiavi da incatenare alla voga delle galee si ottenevano in due maniere: per preda di guerra, o per acquisto. Dopo un combattimento vittorioso con battelli nemici, i vinti non utilizzabili venivano uccisi o gettati in mare: altri erano imprigionati per essere poi venduti come schiavi. Tutti gli altri erano condannati a vogare per il resto della loro vita. In realtà le cose non filavano sempre così lisce. I comandanti e gli armatori pretendevano di acquisire una quota personale della "merce", da poter poi rivendere; le autorità, assillate dalla carenza remiera, invocavano Editti e Prammatiche che riservavano allo Stato la totalità delle prede. Intanto i prigionieri languivano e morivano incatenati nelle stive o nei bagni portuali. La situazione era complicata dalla prassi di concedere a capitani privati le cosiddette "patenti di corsa", che consentivano di predare uomini e merci genericamente "nemici", riservando alla marina da guerra quote di bottino sulla cui entità sorgevano dei contenziosi interminabili. Ma i vogatori per le galee si potevano acquistare, come qualsiasi altra merce, in luoghi all'uopo preposti. A parte una miriade di medi e piccoli razziatori, procacciatori e intermediari, che lucravano a percentuale, o acquistavano all'ingrosso per rivendere al minuto. Vi erano delle flotte, numerose e ben armate, che pattugliavano sistematicamente il Mediterraneo orientale, drenando migliaia di pacifici abitanti di coste ed arcipelaghi, la cui unica colpa era costituita dal fatto di essere "turchi" e "infedeli".
I Cavalieri di San Giovanni, e quelli di Santo Stefano, si distinguevano in questa lodevole attività, e i bagni di Malta e Livorno rigurgitavano dì greci, bulgari, anatolici, dalmati, berberi, arabi e neri, pronti ad essere venduti al miglior acquirente, per passare il resto de1 la loro vita al remo di qualche alea "cristiana" . Bisogna dire che anche la flotta turca si dotava di vogatori cristiani schiavizzati, tuttavia le modalità di acquisizione e di impiego erano differenti, anche se altrettanto feroci. Le condizioni degli schiavi "turchi" sulle galee di ponente erano, se possibile, ancora più dure di quelle dei forzati: la loro vita era legata alla possibilità di vogare: venuta meno questa, essa diventava superflua e costosa, e, in genere, veniva soppressa. Per quanto merce a buon mercato e facilmente eliminabile, gli schiavi non superavano mai un terzo dell'intera voga, anzi, abitualmente, si aggiravano intorno al quarto. In loro era del tutto assente quel lume di speranza che teneva in vita buonavoglia e forzati, e che era costituito dalle amnistie, dalla pietà di qualche comandante, dalla nascita di qualche erede al trono. Sapevano quale era il loro destino, e per questo, a volte, tentavano di cambiarlo ribellandosi. Gli ammutinamenti sulle galere erano piuttosto frequenti, ed erano sempre opera di schiavi. Orribile, in ogni caso, la sorte dei vinti, quali che fossero.
Altro pericolo correvano i comandanti durante i combattimenti contro galee ottomane, perché sapevano bene di avere a bordo decine di potenziali nemici che intravedevano la libertà a pochi metri, e che, quantunque incatenati, avevano "in mano" un'arma terribile: il sabotaggio della voga. Infine va ricordato che una percentuale rilevante di schiavi era costituita da cristiani precedentemente predati dai mussulmani, e passati, sovente spontaneamente, all'Islam. Una volta ricaduti in mani cristiane, quasi tutti, anche per salvare la pelle, dichiaravano di essere stati costretti con la forza a rinnegare, di aver sempre conservato "in interiore homine" la fede di Cristo, e di voler ritornare ufficialmente in seno alla Chiesa. Per tutti costoro nascevano delle interminabili vertenze, la marina da guerra non voleva sguarnire le galee, l'lnquisizione tendeva a considerarli "riconciliati", e quindi, almeno formalmente, liberi. Abbiamo cercato di esporre per sommi capi la provenienza della varia e miserevole umanità che ha popolato per secoli queste prigioni galleggianti. Ma come era la vita al remo, se pure di vita si può parlare? Come sempre accade in questi casi, le testimonianze dirette dei protagonisti ci restituiscono i fatti storici in tutta la loro autenticità e drammaticità. Che io sappia, non sono molti i galeotti che hanno potuto e voluto raccontare ai posteri la loro odissea. Tra questi, figura l'ugonotto francese Jean Marteilhe, nato nel 1684 a Bergerac. Nel 1757 pubblicò a Rotterdam, dove si era rifugiato per ragioni di fede, le Memorie di un protestante condannato alle galere di Francia a causa della sua religione, scritte da lui stesso. Narrate con affabilità ed "angelica dolcezza", ebbero varie edizioni nei paesi protestanti, e dimostrarono che si poteva finire al remo anche e soltanto per una professione di fede. Nel 1949 Benedetto Croce pubblicò alcuni brani tratti da un manoscritto inedito di sua proprietà, scritto in spagnolo ed intitolato Suma de la vida infernal de galera. L'ignoto autore, il 10 settembre 1607, dedica la sua opera, scritta "de un duro banco", a don Alvaro de Mendoza, castellano di Castelnuovo, a Napoli, sperando che voglia intercedere per liberarlo da quella orrenda condanna.
Vediamo di dedurre dalle sue stesse parole qual'era la sua vita di galeotto. Biscotto di pane duro rinsecchito, brodaglia di fave schiacciate ed acqua putrida costituivano l'unico sostentamento. Per ogni banco erano incatenati in cinque, e le catene li immobilizzavano al ponte e fra di loro, in modo tale che, quando non vogavano, disponevano di uno spazio di mezzo metro quadrato ciascuno. La voga, ritmata da una tromba o da un tamburo, poteva durare diverse ore, sopratutto durante gli inseguimenti e le bonacce. Impegnava non sole le braccia, ma l'intero peso del corpo e richiedeva la perfetta sintonia della frequenza e degli intervalli. Il rallentamento di un singolo remo, sconvolgeva tutto il sistema, e rischiava di provocare colpi di remo anche mortali in chi rallentava per spossatezza o distrazione. Ogni minima infrazione era punita dal "Comito", o "sottocomito" e "aguzzini", con frustate e bastonate, che provocavano ematomi e gonfiori, inutilmente curati con impacchi di aceto. Coperti da un ruvido camicione di tela, completamente rasati ogni otto giorni, e ciononostante letteralmente ricoperti di cimici e pidocchi, dormivano all'addiaccio in ogni stagione, nello spazio compreso tra due banchi, letteralmente accatastati gli unì sugli altri. Innominabili le modalità di espletamento delle funzioni fisiologiche. Tutto questo fra le imprecazioni le ingiurie e lo scherno degli aguzzini.
La morte era sempre in agguato, per punizione, per malattia, per annegamento. Infatti, se la galea soccombeva durante un combattimento, ed affondava, o naufragava per tempesta, nessuno si preoccupava di liberarli dai ferri. Così vissero e morirono per secoli centinaia di migliaia di infelici. Queste brevi note potrebbero terminare qui. Ma per la completezza del discorso, ci sembra utile almeno un'ultima considerazione. Come tutti i fenomeni di sfruttamento di una certa ampiezza, nello spazio e nel tempo, anche la voga forzata sulle galere ha avuto i suoi razionalizzatori ed i suoi "cantori".
Un sistema di coercizione assoluto ed insieme complesso, legato ad esigenze di predominio di classe all'interno, e di espansionismo commerciale all'esterno, produce inevitabilmente da un lato i teorici della sua organizzazione ottimale, d all'altro gli addetti alla mistificazione culturale e letteraria, ad uso dei contemporanei e dei posteri sprovveduti. Nel 1528 veniva pubblicato a Venezia il trattato Della Milizia Marittima libri quattro. Ne era autore Cristoforo da Canal, nobile veneziano, teorico della guerra navale e comandante di una squadra di galee. A fronte dell'imponente flotta turca, sempre più minacciosa a Levante, la Repubblica non riesce a coprire la voga delle sue navi, perché é ancora ferma al tradizionale sistema dei buonavoglia. Ci vuole un salto di qualità e di quantità. Cristoforo individua subito la soluzione, bisogna impiegare i forzati. L'organizzazione della galea deve rispecchiare quella della società: alla stratificazione della terraferma, inevitabile e immodificabile perché voluta da Dio, deve corrispondere quella costituita dal microcosmo di un battello da guerra. Ma la voga non può essere lasciata alla volubile disponibilità dei buonavoglia. Il modello urbanistico e sociale rinascimentale, impostato su di una rigida dislocazione topografica delle classi , compresa la reclusione in spazi definiti di "vagabondi, oziosi e devianti", applicato alla galea, bisognosa di attrezzarsi adeguatamente per fronteggiare il turco, assegna ai forzati un ruolo inedito ed importante. Ma proprio perché un lavoro "razionale", proprio perché destinatari di un investimento tecnico ed anche monetario (le galee vanno modificate per accoglierli), essi non possono subire trattamenti al di sotto dei quali diventano "improduttivi". Sono "macchine" da sfruttare, da non rompere, da mantenere in efficienza per evitare guasti : insomma sono "motori umani" da seguire sempre con il ruolino costi-rendimenti. Nella primavera del 1545 una squadra di galee venete usciva in Adriatico al comando di Cristoforo da Canal: ai remi, manco a dirlo, migliaia di forzati ben lavati, nutriti ed equipaggiati. Pronti a vogare e morire per la Serenissima, e privi del miraggio che rendeva inaffidabili e pericolosi i buonavoglia, la libertà. Ma non basta razionalizzare la vogat bisogna anche esaltarla nei poemi.
Luigi Tansillo, nato a Venosa nel 1510, fu poeta e verseggiatore della corte vicereale di Napoli, al tempo di don Pietro di Toledo. A partire dal 1537, e per diversi anni, naviga sulle galee napoletane al seguito di don Garcia, figlio del viceré, e comandante supremo della flotta. Partecipò a diverse imprese navali contro il turco, celebrando in numerosi componimenti le vittorie "cristiane", e la gloria ed il coraggio dei condottieri, che di volta in volta lo ricompensarono, assicurando il sostentamento suo e della sua famiglia. E fra tanti encomi rivolti a nobili persone, volle a modo suo verseggiare anche in lode del battello che lo aveva condotto a guerreggiare nel Mediterraneo: abbiamo infatti di lui Due Capricci in laude della galera al Signor Don Ferrante Gonzaga, il quale come è noto, oltre che tra i più illustri generali di Carlo V, fu anche Principe di Molfetta, avendo sposato Isabella di Capua, che quel principato portò in dote. Devo dire che raramente, anche tenendo conto dello spirito dei tempi e della mediocrità del personaggio, ho letto qualcosa di così cinico. Passi la piaggeria al Gonzaga, al Viceré ed a suo figlio; passino le insipide reminiscenze classiche; passino le vacue figure retoriche. Quello che offende in questi due scritti, è la squallida ironia, e lo scherno con il quale si descrivono la vita dei galeotti, le loro punizioni, la loro stessa morte.
Accenno ad alcune terzine. Intanto non è il caso di criticare l'uso della frusta, perché, come in cielo gli eletti possono vedere le pene dei condannati all'inferno così su questa nave i buoni contemplano con compiacimento le frustate ai galeotti: in questo, la galea è simile al Paradiso. Non bisogna poi temere questa gente perché quando sbaglia, non ci sono giudici, né lunghi e inutili processi: "Si trova il remo, il banco, e la catena in pronto, e trovasi l'auzino in pronto, che a un cenno ch'io gli fo, l'incatena". Infine, come non ritenere questo luogo tra i più del mondo? "Non è cortesia questa, che un si siede, o corca, un altro faticando il porta con le mani, con le natiche, e col piede?". Siamo alla derisione della sofferenza e della miseria. Mi avvio alla conclusione. Calcolando per ogni galea un numero medio di 250 galeotti, considerando che la sola Venezia, nella seconda metà del '500 armava mediamente oltre cento battelli di questo tipo, si può avere un'idea della dimensione numerica di questo plurisecolare fenomeno e della sua incidenza sociale. Relativamente trascurato dalla storiografia ufficiale, comincia ora ad essere oggetto di studi particolari, se pure nel quadro generale della storia marittima in età moderna. Eppure ritengo che, senza trascurare i dettagli meramente tecnici, indispensabili comunque per una esaustiva conoscenza, siano altri che gli aspetti che danno rilevanza storica al fenomeno. Mi riferisco per esempio, alle ragioni che portarono alla virtuale scomparsa dei buonavoglia; alle modalità di reclutamento dei forzati in rapporto alla politica di giustizia criminale; al grande problema della schiavitù, articolato e complesso. Solo a patto di privilegiare nella ricerca questo tipo di approccio, si potrà comprendere cosa fu in realtà la tragica odissea delle galere: un colossale sfruttamento di classe del lavoro umano, atto a consentire l'espansione ed il consolidamento dell'imperialismo commerciale europeo nel Mediterraneo.

settembre - dicembre 2002