L'autunno del Sindacato nel tempo dell'impero
di
Alberto Altamura

"Alcuni anni fa il programma di produzione dell'aereo militare C-17 della Boeing, oggi utilizzato in Afghanistan, era in forse, ma grazie in larga parte ai lavoratori della sezione Local 148 (Long Beach) dell'United Auto Workers la produzione dell'aereo è stata salvata. […] Gli sforzi dei lavoratori hanno aiutato a tenere bassi i costi e a vendere più aerei."
da "Solidarity", organo del sindacato americano United Auto Workers (UAW)

"Non si può resistere all'Impero con un programma limitato a un'autonomia locale. Non si torna indietro a nessuna precedente forma sociale e non si procede in avanti in stato di isolamento. La sola cosa da fare è attraversare l'Impero per uscire da un'altra parte."
M. HARDT - A. NEGRI, Impero

1. Alzare lo sguardo
Nel Paese dell'uomo della provvidenza e dell'unto del signore, della personalizzazione della politica rilanciata dalla restaurazione dell'ottocentesco sistema elettorale maggioritario, dei morotei, del craxismo e del CAF, del professor-Prodi-che-ci-porta-in-Europa e del Bertinotti-infame-che-fa-cadere-Prodi, anche la questione del lavoro ha finito con l'assumere, nella vulgata massmediale, la dimensione "titanica" dello scontro fra personalità: il "conservatore" Cofferati è stato di volta in volta contrapposto al "rivoluzionario" Berlusconi, ai "riformisti" Pezzotta e Angeletti, ai "modernizzatori" D'Alema e Amato, al "biagiano" Maroni, e via dicendo.
Secondo il modello ermeneutico De Filippi-D'Eusanio-Panicucci, ormai profondamente interiorizzato dall'opinione pubblica italiana, ci si è schierati. E ci si è schierati per il cavaliere dal sorriso smagliante, o per la barba grigia del cinese, per il baffetto nervoso già frequentatore del "Club Kosovo", o per il fratello minore leader della minoranza, per il floricultore piacione in cerca di unità, o per il longilineo segretario che non vuole regalare nulla e nessuno, per il vassoista vesuviano soddisfatto, o per… chi vi pare e piace.
Offerta quotidianamente in pasto, questa rappresentazione tragicomica, tutta giocata sulla lotta politica nazionale, ha finito con il velare l'orizzonte di riferimento dell'intera questione, cioè il mercato mondiale e la sua decisiva capacità di influenzare, articolandolo e riarticolandolo, il ciclo politico europeo.
Nessuno può permettersi di essere tanto miope da infervorarsi sulle politiche sociali, costruite a Roma, senza tener conto dell'orizzonte europeo, del ruolo che Bruxelles gioca a tutela dei parametri del ciclo liberista e, quindi, della sua influenza sulla legislazione nazionale del lavoro e delle sue sollecitazioni a ridurre il carico fiscale sul lavoro e l'innalzamento dell'età pensionabile.
Nessuno deve dimenticare che la parola d'ordine della "modernizzazione" fa parte dell'armamentario culturale della Banca Centrale Europea, che per bocca di Wim Duisenberg la articola nella triplice forma della flessibilità del lavoro/del mercato/dei servizi, e che la BCE è l'organismo che più volte ha invitato i governi tedeschi, francesi e italiani a realizzare la riforma previdenziale, per poter onorare adeguatamente quel grande feticcio dell'Europa dei banchieri che è il "Patto di stabilità".
Tutti siamo chiamati ad alzare lo sguardo e ad aguzzare la vista fino a scorgere l'orizzonte europeo e, al di là di esso, quello imperiale.
Non è stato forse il Fondo Monetario Internazionale a sollecitare più volte i governi italiani ad adottare politiche volte a ridurre il carico fiscale sul lavoro e i contributi sociali sul salario dei giovani a parziale compensazione del salario d'ingresso, a differenziare i salari fra Nord e Sud, e a contenere la spesa pubblica, tagliando pensioni o comprimendo la spesa sanitaria?
Alzare lo sguardo sull'imperialismo europeo o sull'ordine imperiale della globalizzazione non significa, come vorrebbe il pragmatismo più ottuso dei tanti barbieri e curati oggi in giro, disporsi a una prassi donchisciottesca, o a un comodo "rinvio della prassi".
Sotto questo riguardo, nonostante una frenetica attività legislativa, è proprio nell'azione delle classi dirigenti nazionali che non è più possibile cogliere una prassi autentica, abituate ormai a richiamarsi al comodo, perché deresponsabilizzante, "vincolo esterno" del mercato e della UE. Un vincolo che trova artificiose contrapposizioni, nei vari paesi dell'Unione, soltanto in occasione delle scadenze elettorali.
Allo stesso modo, appare fortemente viziata la prassi di una burocrazia sindacale troppo provinciale rispetto all'azione della borghesia imperialista europea: "Immersa nel localismo inconcludente - scrive Roberto Casella - la burocrazia sindacale non è adatta a ragionare con una dimensione europea, a dar fiato al sindacato europeo, a organizzare i primi passi per una difesa di classe su scala europea anche nel limitato campo tradeunionista".
Fissare lo sguardo sull'orizzonte imperiale significa, innanzitutto, confrontarsi con ciò che Hardt e Negri definiscono "il non-luogo dello sfruttamento", cioè la tendenza dello sfruttamento capitalistico a diffondersi, oltre il perimetro della fabbrica, su tutta la sfera sociale, dal momento che è l'intera società ad essere diventata una macchina di produzione di profitto.
Un "non-luogo" che non va, ovviamente, inteso nel senso del non accadere, del "non-aver-luogo", ma nel senso della delocalizzazione dello sfruttamento, dal momento che esso non avviene più in un luogo determinato e in relazione a specifiche attività produttive: "Le nuove forze produttive non hanno luogo, poiché li occupano tutti, producono e sono sfruttate in questo stesso non-luogo indefinito".

2. Il "non-luogo" della produzione mondiale tra fordismo e post-fordismo
Per comprendere in modo efficace il senso in cui l'Impero appare come "il non-luogo della produzione mondiale", che fa da sfondo all'odierno sfruttamento del lavoro, basta visitare un sito come "rentacoder.com".
Con i suoi slogan per gli acquirenti ("Find the coders you need to create any program or answer any question") e per i venditori di manodopera ("Find work and earn cash with your high tech skills"), "rentacoder.com", cioè "rent a coder" ("affitta un programmatore"), è lo scenario di una forma di "lavoro in affitto" planetario di straordinaria portata, vista la natura del mezzo di produzione e l'essenza immateriale del prodotto.
Infatti, dopo aver inviato sul sito il problema di software da risolvere ed aver indicato la cifra massima che si è disposti a spendere, i committenti devono soltanto attendere che si scateni la concorrenza al ribasso fra i programmatori, connessi alla rete da tutto il mondo.
In questo settore, i più sfruttati sono i tecnici indiani del software, che coniugano una elevata specializzazione a una significativa precarietà economica, data l'incapacità del governo indiano a far corrispondere all'alta qualità delle sue istituzioni scientifiche una adeguata dinamica economica.
Questa nuova forma di sfruttamento rende ormai sorpassate, almeno per il mercato del lavoro, finanche le campagne populiste antiimmigrazione, come quella lanciata, ad esempio, qualche anno fa dall'esponente della CDU, Jürgen Rüttgers, con lo slogan "Kinder statt Inder" ("bambini invece di indiani").
Se, fino ad oggi, venivano bollate come "populistiche ed insostenibili", più che dai politici, soprattutto da illustri rappresentanti della confindustria tedesca (BDA), come Dieter Hundt, consapevoli della carenza di esperti qualificati nel settore informatico, da domani, quelle posizioni politiche saranno affossate semplicemente dalla crescente necessità della forza-lavoro, in questo caso indiana, a vendersi su un mercato globale, strutturato telematicamente.
Si prospetta davvero un radioso avvenire per "bambini", non solo tedeschi, e "indiani": i primi, incollati dinanzi al proprio computer, a giocare una miserabile "gara al ribasso" con i secondi, dislocati in chissà quale delle province dell'Impero.
Province che non coincidono con un luogo specifico, più di quanto vi coincida un sito internet.
Province nelle quali il regime salariale è stato soppiantato da un dispositivo monetario flessibile e globale, perfettamente adeguato ad una forma di dominio che costruisce le sue funzioni lungo le reti della comunicazione.
Province nelle quali lo sfruttamento e il dominio manifestano pienamente la loro natura proteiforme, adattandosi perfettamente sia ai segmenti produttivi di lavoro immateriale di stampo postfordista, che a quelli della fabbrica fordista, come è possibile cogliere nella recente decisione del colosso aerospaziale Boeing di impiantare a Mosca un centro di alto livello professionale di 650 addetti, destinati ad essere triplicati, impegnati nella progettazione del veicolo commerciale Boeing 777.
Motivata dalla situazione precaria della flotta aerea civile russa, dall'importanza del mercato del trasporto aereo in un paese così vasto, e soprattutto dal costo di un ingegnere russo (400-900 dollari mensili conto i 5000-6000 di un ingegnere della Boeing in USA), questa scelta sta mettendo a dura prova proprio la credibilità del sindacato che, come sottolinea con efficace ironia Piermaria Davoli, difficilmente sarà in grado di contrattare il salario a Mosca quando non è stato in grado di impedire i licenziamenti a Seattle.
Le vicissitudini del sindacato statunitense costituiscono, in questo caso, anche una singolare forma di eterogenesi dei fini, di "ironia della sorte" per intenderci in modo approssimativo, dal momento che proprio il sindacato che, nel passato, aveva più duramente attaccato l'URSS, deve ora fare disperatamente i conti con la concorrenza che sul mercato della forza-lavoro viene promossa dalla Russia post-comunista e liberista.
Quelle che potrebbero apparire delle difficoltà connesse, in fin dei conti, alle ristrutturazioni aziendali e, in modo particolare, ai fenomeni di delocalizzazione della produzione, stanno però aprendo uno scenario inquietante sul piano dell'azione sindacale.
Il pragmatismo aziendalista del sindacato statunitense, infatti, si dimostra capace di reagire soltanto incanalando il suo costitutivo opportunismo nell'adozione di misure protezionistiche.
A questo riguardo, occorre ricordare l'opposizione che, nel dicembre del 1999, nello scenario contraddittorio delle manifestazioni anti-WTO di Seattle, il sindacato americano dell'auto (UAW), tramite il suo presidente Stephen Jokich, e il grande sindacato AFL-CIO, presieduto da John Sweeny, misero in campo contro l'entrata della Cina nel WTO.
Si tratta, come è evidente, di strategie deboli nell'orizzonte imperiale, ma soprattutto di azioni incapaci di incidere sulla desindacalizzazione che ha interessato, in modo significativo, l'America dell'ultimo ventennio.
Il tasso di sindacalizzazione, che nel 1983 era del 20,1% (17,7 milioni su 88,1 milioni di lavoratori), è, infatti, sceso nel 1986, nonostante un aumento dell'occupazione, al 14,5% (16,3 milioni su 112,2) e, nel 2001, al 13,5% (16,3 milioni su 120,8).
In venti anni, di fronte ad una crescita occupazionale nel mondo del lavoro dipendente di quasi 32 milioni di lavoratori, gli iscritti al sindacato statunitense diminuiscono di un milione e mezzo, nonostante gli incrementi registrati nei settori dei servizi e della pubblica amministrazione, che da sola vanta un significativo 37,4% di iscritti. La desindacalizzazione riguarda, infatti, l'industria manifatturiera e l'industria del sud, proprio laddove in questi anni è stata creata maggiore occupazione. Il Texas, ad esempio, ha una sindacalizzazione di lavoratori dipendenti che si attesta al 5,6%.
Oltre a questa tendenza alla desindacalizzazione nei settori della nuova occupazione e con forza-lavoro immigrata, è opportuno ricordare la crisi di iscrizione nei settori a professionalità elevata, determinata da aumenti salariali opportunamente pianificati dal management allo scopo di avere una "non union shop", cioè una "fabbrica non sindacalizzata".
L'imperialismo europeo, dal canto suo, tenta di adeguarsi a questo scenario americano, allestendo una sua peculiare forma di gestione dello sfruttamento del lavoro e della sindacalizzazione, che ha avuto, di recente, un importante momento di elaborazione nei lavori della sessione straordinaria del Consiglio Europeo, tenutasi a Lisbona nel marzo del 2000.

3. Lisbona, 23-24 marzo 2000: la linea laburista-liberale
Il vertice di Lisbona riveste una importanza particolare, anche perché ha luogo subito dopo l'operazione di "polizia internazionale" nei confronti del governo di Belgrado. Non a caso, il documento conclusivo del vertice, dedicato a "concordare un nuovo obiettivo strategico per l'Unione al fine di sostenere l'occupazione, le riforme economiche e la coesione sociale nel contesto di un'economia basata sulla conoscenza", si chiude con alcune note di "politica europea comune in materia di sicurezza e di difesa", dedicate ai Balcani occidentali e alla Russia.
Nelle note relative ai Balcani, viene ribadita la decisione dell'Unione di continuare ad imporre "sanzioni selettive" contro il regime di Belgrado, fintanto che il presidente Milosevic rimarrà al potere.
Il riferimento al Kosovo, in un documento dedicato soprattutto ai temi del lavoro, più che una semplice appendice dettata da motivi contingenti, indica una direzione strategica che dobbiamo abituarci a riconoscere e che fa del Kosovo e della ristrutturazione del welfare due tasselli, fortemente congiunti, del processo di unificazione dell'imperialismo europeo.
Come qualcuno ricorderà, i lavori del vertice di Lisbona vennero preceduti dalla pubblicazione di un documento sulle politiche del lavoro, stilato dagli economisti inglesi Layard e Nickell e da quello italiano Boeri, su commissione del premier inglese Blair e dell'allora presidente del consiglio italiano, D'Alema.
Di questi tempi, forse, non è peregrino ricordare anche che, in quel documento, venivano suggerite una serie di iniziative volte: a ridimensionare il peso delle garanzie contro i licenziamenti (al fine di favorire le assunzioni da parte delle imprese), a limitare gli incentivi a lasciare il mercato del lavoro, a insistere sugli ammortizzatori sociali (sussidi ai disoccupati e ai salari con bassa produttività), a legare gli aumenti salariali all'aumento della produttività, a stimolare la mobilità territoriale dei disoccupati (il disoccupato a cui viene offerto un lavoro è obbligato ad accettarlo se non vuole vedersi escluso in futuro dalla possibilità di percepire un sussidio di disoccupazione), a sostituire il contratto nazionale con contratti regionali ed aziendali.
Chi non ha colpevolmente dimenticato ricorderà che una dura opposizione venne avanzata al documento proprio dalla CGIL.
Cofferati, dopo aver criticato nel merito le proposte avanzate dagli economisti contattati da Blair e D'Alema, si spingeva, in una intervista al "Corriere della sera" del 20.03.2000, a cogliere il nucleo della questione in questi termini: "In questo schema non c'è luogo per il sindacato confederale, perché se non ci sono politiche dei redditi, del fisco e dei contratti di dimensione nazionale una parte consistente del ruolo del sindacato va a spasso".
Nell'ambito nazionale, ormai l'amarcord ci ha preso la mano, vogliamo anche ricordare, almeno en passant, che, nell'estate del 1999, Cofferati si era espresso criticamente sul "Patto per lo sviluppo e la formazione", proposto da Amato come caposaldo dell'azione riformatrice del governo D'Alema, soprattutto a proposito degli interventi volti ad incidere sulla spesa corrente, grazie a tagli sulla sanità e sulle pensioni.
In una "famosa" intervista rilasciata dal premier a "la Repubblica", il 26 giugno del 1999, pochi giorni dopo la cessazione dei bombardamenti sulla Serbia, quelle critiche valsero al leader della CGIL una sottolineatura del titolo dottorale: "raggiungeremo - dichiarava D'Alema - i nostri obiettivi d'intesa con i sindacati e in particolare con il dottor Cofferati".
Qualche maligno, in quell'occasione, pensò che il premier ironizzasse.

4. Barcellona, 15-16 marzo 2002: la linea liberale-laburista
A Barcellona, l'asse anglo-italiano è rappresentato da Blair e da Berlusconi, già interlocutore del premier D'Alema nella commissione bicamerale per le riforme, e diventato nel frattempo nuovo premier italiano. Entrambi si impegnano immediatamente nella definizione delle strategie necessarie al mercato del lavoro, secondo una linea che di certo è liberista e di deregulation, ma che, in fondo, si può continuare a definire, ma solo nel senso dei due laburisti di Lisbona, "socialista con dosi liberiste".
(E, sempre nel senso dei due laburisti di Lisbona, forse non ha del tutto torto Berlusconi, come dichiarato a "El Mundo" in una intervista dello scorso 21 luglio, a ritenersi l'autore di "una politica di sinistra".)
L'asse anglo-italiano, in questa occasione, decide di non far precedere il vertice di Barcellona da documenti di economisti: l'usanza porta sfiga, soprattutto alla componente italiana, e rischia di apparire troppo tecnocratica. Si preferisce, invece, concordare in un "tête-à-tête romano" una serie di posizioni comuni sulla flessibilità del lavoro, sull'apertura ai privati dei servizi per il collocamento, sulla riforma della fiscalità e della legislazione del lavoro, sulla liberalizzazione totale del mercato dell'energia, sulla riforma degli aiuti statali, sulla innovazione tecnologica, sullo sviluppo delle piccole e medie imprese, sul rafforzamento della formazione.
Nel "Documento tecnico sul mercato del lavoro, in vista del Consiglio Europeo di Barcellona", stilato il 15 febbraio, giorno dell'incontro romano di Blair e Berlusconi, il vertice di Lisbona viene così richiamato: "Gli obiettivi concordati dal Consiglio Europeo a Lisbona, i Governi nazionali e la Commissione Europea, devono essere raggiunti mediante riforme che consentano minore rigidità dei mercati del lavoro, maggiore flessibilità dell'occupazione, minore disuguaglianza sociale".
In questa prospettiva vengono avanzate significative proposte di deregulation. Nello stesso documento, infatti, si legge: "Una eccessiva regolamentazione del mercato potrebbe ostacolare in alcuni settori la necessaria ristrutturazione economica. […] L'integrazione dei mercati del lavoro e dei prodotti ha messo in luce la rigidità dei mercati del lavoro sovraregolati […]".
Su questa linea neoliberista di deregulation, caldeggiata oltre che da Italia e Gran Bretagna anche da Spagna e Danimarca, non si sono schierati, occorre ricordarlo ad onor del vero, i governi socialdemocratici di Francia e Germania.
La loro nobile "insistenza" sulle tutele per i lavoratori e lo stato sociale è stata, a Barcellona, benevolmente tollerata dagli altri membri dell'Unione, impietositi dalle scadenze elettorali che avrebbero riguardato, da lì a poco, le due nazioni: maggio per la Francia, sappiamo come è finita, settembre per la Germania, dove forse finirà uguale.
Al di là di tutto questo, in ogni caso, ha grande valore il documento conclusivo del vertice, nel quale sono state formalizzate le due istanze principali sul mercato del lavoro e sul welfare.
Rispetto ad esse, gli stati membri sono stati invitati ad intervenire per innalzare l'età media dei pensionamenti (dai 58 anni attuali a 63 entro il 2010) e a legare i livelli contrattuali del lavoro agli indici di produttività.
Per quanto riguarda questo secondo aspetto, merita di essere segnalata la soddisfazione con cui Romano Prodi, ex/neo premier del centro-sinistra, in una intervista concessa a "la Repubblica", ricordava la sostituzione della formula "differenziazione dei salari", con quella di "evoluzione dei salari in funzione della produttività", inserita nel testo finale, che così recita: " […] per garantire la competitività dell'UE e migliorare l'occupazione per tutte le qualifiche e le aree geografiche, è indispensabile che, a livello nazionale, le istituzioni competenti per il lavoro e i sistemi di contrattazione collettiva tengano conto, nel rispetto dell'autonomia delle parti sociali, del rapporto tra l'evoluzione salariale e le condizioni del mercato del lavoro, consentendo così l'evoluzione dei salari in base agli sviluppi della produttività e ai differenziali di specializzazione".
L'ironia da Gallipoli deve inchinarsi dinanzi a quella emiliano-europea!
Dati questi obiettivi, il sindacato viene invitato, insieme alle organizzazioni padronali, dal Consiglio Europeo di Barcellona a presentare, entro il mese di dicembre di quest'anno, un progetto capace di incidere sulla "moderazione salariale" e sulla "organizzazione flessibile del lavoro".
Il giudizio positivo del "Financial Times" del 18 marzo vale più di ogni commento: "L'UE si muove sempre nella direzione giusta. Malgrado la pretesa dei sindacati, infatti, non vi è traccia del ritorno ad un programma di regolamentazione sociale e di armonizzazione fiscale".

5. Roma, 5 luglio 2002: la confluenza delle linee di Lisbona e Barcellona
La firma del "Patto per l'Italia", avvenuta a Roma il 5 luglio, da parte di numerose organizzazioni sindacali, eccetto la CGIL, e la conseguente "rottura sindacale" appaiono perfettamente in linea con le strategie europee piuttosto che, come scrive Parlato, su "il manifesto" all'indomani della firma, "l'atto conclusivo, e fortemente traumatico, della fine della prima Repubblica", ormai incamminata verso una "fase in cui populismo e autoritarismo si intrecciano in chiave di presidenzialismo". A meno che non si intenda collocare il contesto della crisi politica ed economica dell'Italia all'interno dello scenario europeo.
Naturalmente c'è una specificità del caso italiano, che va letta, rispetto alla storia del sindacato, dai successi dei primi anni Settanta fino al periodo 1992-93, allorché i governi Amato e Ciampi riconobbero al sindacato un ruolo di supplenza dei delegittimati partiti politici, necessario per varare politiche volte a controllare l'inflazione e la dinamica del costo del lavoro; e, rispetto alla storia del padronato, dalla conclusione del ciclo del capitalismo di stato fino all'elezione dell'attuale vertice di Confindustria.
Si tratta, del resto, di due storie fortemente intrecciate, delle quali vanno richiamati, anche a rischio di una eccessiva esemplificazione, alcuni snodi decisivi.
Senza volere, in poche battute, ripercorrere la storia di tre decenni del movimento sindacale italiano, dobbiamo ricordare che nel ciclo del capitalismo di stato maturò quella compartecipazione alla gestione del welfare, che ebbe il suo apice agli inizi degli anni Settanta.
La legge n. 300 del 20 maggio 1970, meglio conosciuta come "Statuto dei lavoratori", apriva quel decennio come espressione di una intesa legislativa del PCI e della DC, amministrata dai rispettivi referenti sindacali sui luoghi di lavoro, allo scopo di contenere la forza rivendicativa di un movimento operaio tempratosi nell'autunno caldo del 1969.
È in quegli anni che, con la gestione di funzioni previdenziali e fiscali, le confederazioni sindacali cominciano a trasformarsi in enti sussidiari della macchina pubblica. A quegli anni risale anche la tendenza delle attività sindacali a concentrarsi maggiormente nel settore del pubblico impiego e in quello delle grandi imprese del settore industriale e commerciale.
La crisi che, da quel periodo, sarebbe gravata sul sindacato si sarebbe manifestata nella sua pienezza negli anni Ottanta, con un passaggio significativo nelle eliminazione della "scala mobile" e nelle vicende referendarie che ne conseguirono, per culminare nei tagli salariali contenuti nell''intesa del 1992 con governo e padronato.
È l'accordo del 1993 a segnare, secondo i rappresentanti del sindacato, l'uscita dalla crisi, tanto che ad esso si richiama, ancora oggi, nel contesto della crisi attuale, un importante esponente della cultura sindacale della CGIL, come Bruno Trentin.
Invitato a pronunciarsi sul modello di concertazione contemplato dal "Libro Bianco" di Maroni, dopo aver attaccato il sistema della delega al governo, ritenendolo responsabile dello svuotamento della pratica concertativa, Trentin vede in questa riduzione della concertazione a "puro e fragile strumento di consultazione su un atto già compiuto, concepito come compiuto da parte del potere esecutivo, magari in accordo preventivo con la Confindustria", una "negazione dell'accordo del 1993".
Dopo aver precisato, da parte nostra, che il sistema della delega venne usato già nel 1992 dal riformista-modernizzatore Amato su un tema decisivo come la riforma delle pensioni, ciò che ci appare davvero sconcertante nel discorso di Trentin, non è il richiamo al metodo concertativo, che, in fin dei conti, ha consentito nel passato di smascherare la subalternità del sindacato.
Dopo aver spento con la "politica dei redditi" le spinte rivendicative reali del ciclo di lotte operaie apertosi negli anni Sessanta, il sindacato, infatti, ha trovato in quel metodo uno strumento prezioso per gestire la profonda fase di passività sociale, che si apriva, e per imporre grossi sacrifici ai lavoratori, basti pensare al costo del lavoro per unità di prodotto che è oggi, in Italia, fra i più bassi d'Europa.
Ciò che è davvero sconcertante nel discorso di Trentin, e in generale in quello del sindacato, è che il modello concertativo venga richiamato in "epoca imperiale", quando cioè, ad esempio, è possibile che, sotto la supervisione del WTO, come è accaduto nell'aprile del 2001 a Quebec City, i capi di stato e di governo delle Americhe si incontrino per definire un accordo di libero scambio, che riguarderà gli 800 milioni di abitanti del continente americano, e la cui articolazione sarà progettata solo all'interno di negoziati segreti, che vedranno la partecipazione di rappresentanti del mondo industriale e la rigorosa esclusione delle organizzazioni sindacali.
Dalle nostre parti questa "epoca imperiale" è ben esemplificata dall'entrata della FIAT nel dominio della General Motors, o dalla crisi in Confindustria dei grandi gruppi sollecitati, da sempre, dalle commesse della pubblica amministrazione e, da sempre, impelagati in complesse relazioni bancarie.
L'analisi di Trentin, a questo riguardo, non sembra tener conto della crisi di quei gruppi del capitalismo italiano affezionato alla concertazione, e del fatto che l'attuale vertice di Confindustria è espressione soprattutto degli industriali del nord-est, cioè di una delle zone con una presenza del sindacato relativamente più debole, dei gruppi Lucchini e Benetton, degli industriali meridionali, della Mediaset e della RCS.
Vale forse la pena di richiamare un passaggio di una intervista concessa da Cesare Romiti, grande elettore di D'Amato, a "Il Secolo XIX" il 10 marzo 2002, nella quale la "logica della concertazione" veniva argutamente sostituita con quella della "confrontazione": "La concertazione non finisce. Io - affermava Romiti - preferisco il termine confrontazione, cioè che nessuna delle parti sociali prenda iniziative senza il confronto con le altre. La concertazione, invece, viene spesso intesa come obbligo di raggiungere l'accordo a tutti i costi".
Dopo aver sperimentato, il 5 luglio, una variante significativa della "confrontazione" romitiana ed aver assistito, il 24 luglio, all'accordo separato firmato da FIM, UILM, FISMIC con governo e FIAT sul piano di rilancio industriale dell'azienda torinese, la CGIL dovrebbe prendere atto che si è sgretolato il fronte di quei grandi gruppi (FIAT, Pirelli, Gruppo Marzotto, CIR, Gruppo Pesenti) che sostennero, a suo tempo, Carlo Callieri contro D'Amato.
Si dovrebbe prendere atto che posizioni come quelle, ad esempio, di Tronchetti Provera, grande mediatore fra D'Amato e il gruppo FIAT, che, fino ad un anno prima della firma del "Patto per l'Italia", si era espresso contro l'ipotesi di accordi separati con CISL e UIL, preferendo trattare con un sindacato unito, sono tutte confluite in una linea di Confindustria che vede nella fine della concertazione un modo per esercitare una pressione più forte su legislativo ed esecutivo.
Chi, come D'Alema, credeva che l'epoca dell'euro avrebbe scompaginato il capitalismo italiano, indebolendone la propensione ad essere assistito, dovrebbe rapidamente riprendersi dalle sue illusioni.
La prevista competizione sullo scenario internazionale, infatti, il capitalismo italiano ha deciso di farla alla sua maniera: all'interno di uno scenario molecolare, che poco ha a che fare con il sistema europeo della grande impresa e della grande finanza, esso ha mirato ad una competizione su fasce medio-basse di prodotto, realizzabile facendo esclusivamente pressione sul costo del lavoro e sul salario.
Questa strategia comporta, fra l'altro, l'aumento dei ritmi del lavoro e l'ingresso sempre più massiccio di precari nella catena produttiva e determina, fra le tante sue conseguenze, l'aumento degli incidenti sul lavoro. Non a caso, nel periodo 2000-2001, nel rapporto annuale dell'INAIL si denuncia un incremento degli infortuni (da 1.022.693 a 1.029.925) e degli incidenti mortali (da 1.412 a 1.452).
In questa prospettiva, il capitalismo italiano non ha bisogno di quella impegnativa "alleanza dei produttori", vagheggiata da D'Alema come la soluzione più adeguata al livello di modernizzazione che il paese avrebbe raggiunto.
Ai padroni basta, ed avanza, un governo di centro-destra in grado di garantire facili sfondamenti delle tutele sul costo del lavoro e sul salario, lasciando al sindacato un compito di "erogatore di servizi", o, ammesso che ce la faccia, di lobby elettorale.
"Niente di nuovo sotto il sole", direbbe qualcuno. Certo! Ma, ciò che è grave è che la soluzione dei padroni sembra non dispiacere nemmeno a quella burocrazia sindacale che concepisce il proprio essere sindacato come gestione di CAF, come cogestione del mercato del lavoro mediante agenzie di lavoro interinale e di collocamento privato, come gestione di fondi integrativi di pensione, come riproduzione autoreferenziale di distaccati sindacali; il tutto sostenuto con le trattenute effettuate sulla busta paga degli iscritti, che sono ormai per la metà pensionati.
E che questo non riguardi soltanto quei sindacati che, come CISL e UIL, firmando il "Patto per l'Italia" e il "Piano FIAT", aspirano ad essere i "gestori istituzionali" del nuovo mercato del lavoro berlusconiano, lo apprendiamo, con una certa inquietudine, da un osservatore ben informato, come Loris Campetti, che, riflettendo sul futuro della CGIL dopo Cofferati, scrive: "Abbiamo sentito dirigenti importanti della CGIL darsi appuntamento al 9 luglio per festeggiare il primo giorno senza Cofferati, quasi un 25 aprile della burocrazia sindacale, che sogna di ritornare a una normalità fatta di consociativismo e sicurezze, moderazione e di un simulacro di unità sindacale".

6. Sindacato europeo o critica dell'Europa di Maastricht?
Ad una residuale forma di consociativismo, Cofferati e la "CGIL di Cofferati" sembrano voler sottrarsi puntando più in alto, tentando cioè di dare consistenza al "sindacato europeo", assunto come luogo in cui avviare "la ricerca dei criteri di redistribuzione e di protezione sociale più giusti per la società postfordista".
Questo obiettivo, tuttavia, deve fare i conti con una serie di questioni, che, per la loro complessità, dobbiamo limitarci semplicemente ad enumerare.
La prima riguarda, da un lato, il declino del tasso di sindacalizzazione europeo che, negli ultimi trent'anni, è passato dal 45% a valori di poco superiori al 30% (nello stesso periodo, in Italia, è sceso dal 50% al 38% della forza lavoro attiva), e, dall'altro lato, soprattutto le strategie di intervento prospettate per invertire questa tendenza.
Esse, infatti, rischiano di appiattire sempre di più il sindacato sulla dimensione di "fornitore di servizi", se non a ridurlo a "truppa di complemento" dell'esecutivo, per usare una espressione circolata spesso in questi mesi. Fra queste strategie rientra, ad esempio, quella etichettata come "sistema Gand", praticato in Belgio e nei paesi scandinavi, che consentirebbe al sindacato di partecipare alla gestione di una assicurazione pubblica contro la disoccupazione, sostenuta con finanze statali. In questa pratica di cogestione, molto probabilmente, potrebbe determinarsi un equivoco rapporto fra sindacato e governo, allorché questo dovrà stabilire, in finanziaria, gli stanziamenti di bilancio destinati a sostenere il capitolo relativo all'assicurazione contro la disoccupazione.
La seconda questione con cui la proposta di "sindacato europeo" deve fare i conti è rappresentata dalla tendenza del movimento sindacale mondiale a stabilire forti rapporti con le multinazionali.
A questo proposito, possiamo richiamare l'intenzione della "Rete internazionale dei sindacati" (Union Network International - UNI), con i suoi 15 milioni di iscritti appartenenti a 150 sindacati di mille paesi, di sfruttare la leva dei fondi pensione dei lavoratori e dei sindacati per prendere parte alle assemblee generali degli azionisti delle varie multinazionali. In questo caso, anche se, come sostiene Phil Jennings, segretario dell'UNI, questa strategia mira ad "assicurarsi che gli investimenti delle multinazionali vengano realizzati in imprese socialmente responsabili", resta difficile valutare fino a che punto le burocrazie sindacali, nella loro funzione di "lobby etica", e il management non avvieranno nuove, deleterie, forme di corporativismo.
La terza questione, che ci sembra possa mettere in pericolo una iscrizione sopranazionale/europea è rappresentata dal disinteresse del padronato a stabilire delle condizioni salariali omogenee e definite all'interno di una complessiva vertenza contrattuale.
Il padronato europeo è di certo più orientato verso soluzioni aziendali, soprattutto in prospettiva dell'allargamento dell'Unione a una decina di paesi dell'Europa orientale, pronti a scaricare nell'ambito economico comunitario un centinaio di milioni di uomini, di cui quaranta di forza-lavoro attiva e con poca attitudine alla sindacalizzazione.
Qualcuno potrebbe obiettare che, proprio per questa tendenza del padronato, l'azione di un sindacato europeo avrebbe addirittura valore rivoluzionario.
Il problema, tuttavia, risiede nel fatto che i padroni, nel loro chiedere a gran voce soluzioni aziendali che leghino il salario al livello di produttività, non sono isolati, ma sono accompagnati dal "raglio continuo" del sottofondo riformista, che condividendo la logica del "più produci, più guadagni" non è interessato a denunciare l'affermarsi di posizioni aziendaliste, "partecipazioniste", che, legando la forza-lavoro al destino del padrone, finiscono con l'esaltare il localismo e con l'impedire ai lavoratori di "alzare lo sguardo" per comprendere la dimensione imperiale dello sfruttamento.
Questo localismo è addirittura sostenuto con convinzione, in Italia, dalla CISL. Basti ricordare il discorso tenuto, due anni fa a Cernobbio, da un D'Antoni che, dopo aver insistito sulle flessibilità fiscale, salariale e del mercato del lavoro, riduceva la contrattazione nazionale alla definizione di "minimi nazionali" per poi puntare ad una "definizione locale del salario legato al luogo in cui si sviluppa la produzione".
Naturalmente resta aperta la questione se il localismo/provincialismo sindacale sia soltanto un "incidente di percorso" di alcune dirigenze sindacali, o non faccia parte del ruolo socialimperialista sostenuto dalla burocrazia sindacale e che porta oggi il localismo ad incastrarsi perfettamente con l'esigenza dei grandi gruppi di avere welfare e salari flessibili: "La flessibilità - scrive Casella - o meglio l'adeguamento di tutti gli aspetti della contrattazione della forza lavoro ai diversi livelli di produttività delle varie aree economiche della UE, è la linea su cui la tradizione localista del sindacato si combina con le esigenze attuali dell'imperialismo europeo".
A partire da tali questioni, ci sembra che, prima di puntare ad un sindacato europeo, si debbano rimettere in discussione i dogmi che caratterizzano le linee di politica economica europea codificate dal trattato di Maastricht.
Studi, come quelli di Emiliano Brancaccio, sull'inconsistenza analitica dell'impianto di Maastricht dovrebbero spingere la sinistra a rivedere l'assenso, troppo spesso, acriticamente accordato, in una sorta di "deriva ragionieristica", ad una politica economica europea fatta, nella maggior parte, di vincoli sui conti pubblici e di lotta all'inflazione.
È evidente che per il sindacato, e in modo particolare per la CGIL, è e sarà duro - dopo aver assunto, all'inizio degli anni Novanta, l'europeismo come orizzonte di riferimento della concertazione - sottrarsi a scelte politiche che hanno la sanzione dell'Europa.
Da questo punto di vista, per le destre è più facile il "doppio gioco" di mettere in discussione il "patto di stabilità", da un lato, e richiamarsi al "vincolo europeo", dall'altro.

7. Una battaglia di retroguardia: la "difesa dei diritti"
In un contesto che vede aumentare la mobilità e la flessibilità del lavoro, la sinistra e il sindacato non possono puntare soltanto sulla questione dei diritti (la certezza contrattuale), assumendo, al contempo, come postulati i parametri dell'attuale sistema di produzione, codificati in sede europea.
Questa tendenza, tuttavia, è purtroppo fortemente presente anche in illustri rappresentanti della cultura sindacale. Vogliamo citare, a questo proposito, Aris Accornero e, ancora una volta, Trentin.
Accornero: "Il sindacato dovrebbe andare all'attacco e proporre una frontiera di nuovi diritti, senza limitarsi a difendere quelli esistenti, come mi sembra oggi faccia la CGIL. Avventurarsi su questo terreno non è facile perché significa riconoscere uno dei postulati più crudi del postfordismo, e cioè che non si tratta tanto di tutelare la continuità quanto di tutelare la discontinuità; di difendere sì i diritti dei lavoratori, ma soprattutto le sorti dei singoli, facendosene carico in ogni momento". Trentin: "Rimanendo nelle condizioni di precarietà, almeno la certezza del contratto consente, sia pure in modi e in tempi diversi, ai lavoratori di impegnarsi nella realizzazione degli obiettivi sui quali hanno concordato con l'impresa".
Il richiamo di Trentin alle "condizioni di precarietà", assunte come dato di partenza, e quello più esplicito di Accornero alla "discontinuità" come "postulato del postfordismo", spingono inevitabilmente ad attestarsi sul piano legale dei conflitti del lavoro, nella forma del "rispetto delle norme contrattuali", senza chiedersi se la modernizzazione liberista possa essere efficacemente contrastata semplicemente rafforzando il piano della difesa delle tutele legali.
Entrambi i richiami, come la pur importante battaglia sull'articolo 18, sembrano non riconoscere fino in fondo la sovrastrutturalità del piano giuridico, cioè, detto in modo più crudo, la capacità che i poteri forti hanno di determinare la legislazione, adeguando gli ambiti di legalità/illegalità a seconda dei propri obiettivi produttivi.
Sul piano politico, questo inefficace "riformismo giuridico", buono soltanto a salvare le apparenze, è testimoniato perfettamente dal documento che raccoglie le riflessioni sviluppate dal gruppo di lavoro, guidato da Amato e Treu, per orientare le proposte dell'Ulivo sui nuovi diritti del lavoro.
Senza più tabù, la politica del centro-sinistra, che trova espressione nel documento, danza freneticamente intorno al totem della flessibilità con queste parole: "[…] scopo della nostra iniziativa è quello di recuperare le forme di flessibilità introdotte in questi anni ad un quadro generale di principi e di diritti, che corrisponda, senza alcun ritorno all'indietro, al nuovo mondo del lavoro".

8. Da dove ripartire?
Nella conversazione pubblicata sul numero di giugno de "la rivista del manifesto", a Rossana Rossanda che gli domandava se desiderasse avere una sinistra alle spalle, Sergio Cofferati rispondeva: "Un sindacato forte senza una politica forte nel medio periodo non ce la fa".
Questa battuta conclusiva della conversazione vogliamo riprenderla per chiederci se è stata una "politica forte" quella messa in campo, negli ultimi cinque anni, dal centro-sinistra, o se non è stata invece una mera espressione di quel "riformismo minimalista e gestionario" che, come scrive Magri, assume acriticamente "gli indirizzi e i meccanismi di una forma storicamente determinata di capitalismo, e le grandi strutture di potere che lo governano e ne determinano in ultima analisi la logica".
Se questa miseranda strategia riformista non sarà compiutamente accantonata, anche una futura, eventuale, vittoria elettorale del centro-sinistra conterebbe ben poco per le tante e varie "passioni" di sinistra, indisponibili a piegarsi alle "logiche" di chi coltiva il bieco disegno di "ripartire da Berlusconi, come Blair è ripartito dalla Thatcher".

Testi di riferimento:
AA.VV., I diritti del lavoro. Principi e indirizzi sui nuovi diritti e le nuove tutele, documento del gruppo di lavoro coordinato da G. Amato e T. Treu, in "Italianieuropei", a. II, n. 2/2002.
A. ACCORNERO, Se salta il sistema di relazioni, intervista di E. Galantini, in www.rassegna.it, 11 marzo 2002.
E. BRANCACCIO, Le servitù di Maastricht, in "la rivista del manifesto", luglio-agosto 2002; questo contributo offre una adeguata sintesi del vasto impegno teorico profuso da Brancaccio.
L. CAMPETTI, La CGIL dopo Cofferati, in "la rivista del manifesto", luglio-agosto 2002.
R. CASELLA, I sindacati logorati in un provincialismo inconcludente, in "lotta comunista", settembre 1999, n. 349. Nella stesura di queste pagine ci siamo avvalsi diffusamente delle analisi relative all'azione sindacale sviluppate da Casella per il periodico "lotta comunista", nel periodo 1999-2002.
R. CASELLA, La crisi sindacale degli anni Ottanta, edizioni LOTTA COMUNISTA, Milano 1989.
S. COFFERATI, Una sinistra che parla a tutti, conversazione con M. D'Alema e G. Amato, in "italianieuropei", a. II, n. 3/2002.
P. DAVOLI, Le Unions perdono il treno del ciclo - Concorrenza Hi-tech in casa dell'orso, in "lotta comunista", febbraio 2002, n. 378.
M. HARDT - A. NEGRI, Impero, Rizzoli, Milano 2001.
L. MAGRI, Un nuovo ciclo, "la rivista del manifesto", luglio 2002.
L. PARODI, Critica del sindacato subalterno, edizioni LOTTA COMUNISTA, Milano 1988.
B. TRENTIN, Rimettersi in discussione, intervista di M. Carrieri, in www.rassegna.it, n.4, ottobre- dicembre 2001.

settembre - dicembre 2002