La difesa dei diritti non è frazionabile
di Michele Di Schiena

Il "patto per l'Italia", firmato a Palazzo Chigi il 5 luglio, è un accordo pessimo che privilegia gli interessi del Governo e della Confindustria, una intesa senza qualità che non aiuta lo sviluppo del Paese e riduce i diritti dei lavoratori manomettendo l'art. 18: è questo il messaggio della campagna per la raccolta di cinque milioni di firme promossa dalla CGIL a fine luglio per svolgersi con incessante impegno, senza soste vacanziere, nelle prossime settimane fino al raggiungimento dell'annunciato obiettivo. Si tratta di dire due "no" al lavoro come merce e due "si" a diritti e tutele per tutti: due "no" che preparano due futuri referendum abrogativi contro la modifica dell'art. 18 e le altre disposizioni contenute nei disegni di legge 848 e 848 bis e due "si" che si esprimeranno in proposte di legge di iniziativa popolare per estendere i diritti in favore dei lavoratori parasubordinati e delle imprese con meno di 15 dipendenti nonché per migliorare il sistema degli ammortizzatori sociali.
Una raccolta di firme di indubbio valore politico che si muove su tre direttrici: far coagulare anche fuori dalle fabbriche e dagli ambienti lavorativi il dissenso popolare nei confronti del "patto" e dell'intera politica del governo in materia di lavoro; dare visibilità democratica ai contenuti propositivi di questo dissenso; aggiungere una forte pressione sul versante degli strumenti istituzionali di produzione normativa alla spinta esercitata sul piano economico e sociale con gli scioperi e le manifestazioni di protesta per modificare il disegno della maggioranza. Ma diamo un fugace sguardo ai contenuti essenziali del "patto per l'Italia" e a ciò che esso è al di là delle orchestrazioni propagandistiche nonché al progetto del quale costituisce una prima, introduttiva e parziale attuazione. Il "patto" apporta intanto, con buona pace di CISL e UIL, una modifica dell'art. 18 di incisiva ed ampia portata dal momento che le aziende con meno di 15 dipendenti potranno assumere con licenza di licenziamento arbitrario e la stessa cosa potranno fare tutte le nuove imprese, comprese quelle "resuscitate" in vesti rinnovate dopo strumentali chiusure.
L'intesa del 5 luglio prevede inoltre: la possibilità di diversificazioni regionali e locali della disciplina degli ammortizzatori sociali col sostanziale superamento della cassa integrazione dietro la cortina fumogena di un modestissimo aumento dell'indennità di disoccupazione; l'intervento di operatori privati in tutti i servizi che riguardano il mercato del lavoro con la gestione di essi da parte di enti bilaterali costituiti da imprese e da sindacati e col conseguente coinvolgimento di questi ultimi in un sistema corporativo destinato a mortificare la legittimazione democratica e la libertà d'azione delle rappresentanze dei lavoratori; la rimodulazione degli sgravi per i redditi medio-bassi già previsti dalla legislazione vigente con l'intento di mascherare una futura riforma fiscale lesiva del principio costituzionale della progressività del sistema tributario e rivolta ad assicurare ai contribuenti più ricchi l'ottanta per cento della riduzione fiscale con ripercussioni negative sulla spesa sociale e, quindi, sulle tutele e le provvidenze in favore dei meno abbienti; l'assenza di scelte capaci di favorire una svolta espansiva della politica di sviluppo del Mezzogiorno strettamente collegata ad un forte impegno per il ripristino della legalità contro la criminalità organizzata e connessa ad un serio progetto per la realizzazione delle infrastutture necessarie oggi destinata di fatto all'accantonamento per far posto al poco utile, megagalattico, dispendioso e tortuoso ponte sullo Stretto.
Venendo poi al progetto complessivo di cui il "patto" è una prima traduzione operativa, va detto che l'impianto teorico-politico che lo ispira è quello del "libro bianco" presentato in ottobre dal ministro Maroni che prevede sostanzialmente la disarticolazione del sistema delle tutele normativamente predisposte in favore dei lavoratori dentro un disegno ultraliberista di restaurazione rivolto a portare indietro di decenni la storia democratica del Paese. La gran parte delle norme in materia verrebbe infatti abolita o resa derogabile dal legislatore regionale, dalla contrattazione decentrata e, addirittura, dal contratto individuale col progressivo ritorno ad una concezione servile del lavoro, con l'emarginazione dei sindacati e con lo svuotamento del controllo di legalità da parte della magistratura.
È dunque alle porte un autunno molto "caldo" e, se il governo non avrà un sussulto di responsabilità, roventi saranno pure l'inverno e le successive stagioni. Scenario questo nel quale la "campagna" della CGIL, che si muove sul terreno dell'opposizione alle controriforme in materia di lavoro, non potrà non incontrarsi con la lungimirante iniziativa referendaria di Rifondazione Comunista e di altre forze, già in corso di avanzata attuazione, per l'estensione dell'art. 18, la difesa della scuola pubblica e la tutela ambientale. E si incontrerà anche con gli impegni di sensibilizzazione e di lotta democratica dei movimenti, dell'associazionismo laico e cattolico e delle forze politiche che combattono, senza tentennamenti, le scelte governative sui versanti della giustizia, dell'informazione, della salute, dell'immigrazione e della politica estera con l'orientamento verso la partecipazione del nostro Paese all'ennesima guerra che il presidente Bush si accinge a scatenare contro l'Iraq. E sì, perché i diritti essenziali sono apparentati da uno stretto legame di sangue e l'attacco ad ognuno di essi ferisce l'intero sistema di valori delineato dalla nostra Costituzione ed è destinato a provocare prima o poi, a dispetto di artificiose distinzioni, una convergente, generalizzata e dilagante reazione.

settembre - dicembre 2002