Giovani e lavoro ai tempi della globalizzazione
di
Cristina Tajani

Lo stato sociale viene attaccato con argomentazioni economiche e politiche insieme, proprio mentre la caduta del tasso di crescita dei redditi da lavoro e il consistente aumento dell'orario di lavoro medio individuale (straordinari e lavoro nero) rendono ancor più necessarie le garanzie sociali.
Le trasformazioni nei processi della produzione e nel mondo del lavoro hanno travolto le prospettive delle giovani generazioni. Si tratta di un dato ampiamente acquisito che ci parla di precarizzazione delle condizioni materiali ed esistenziali, di impossibilità a progettare l'esistenza, di nuovi sfruttamenti e di nuove povertà. Secondo l'Istat sarebbero tre milioni i lavoratori con contratti cosiddetti "atipici", in prevalenza giovani, di cui il 61% sono donne ed il 39% uomini. Eppure, oggi ci troviamo a registrare un dato nuovo che finalmente ci dice di un radicalismo giovanile che non conoscevamo più da anni (perfino un giornale come Il Messaggero ne prende atto pubblicando, qualche mese fa, una ricerca de Il Mulino che conferma la nostra lettura), ci dice di un nuovo protagonismo dei giovani nelle lotte sociali (i ragazzi e le ragazze dei call-center erano in prima fila nelle agitazioni dei metalmeccanici e sono stati loro ad aprire i cortei dello sciopero generale del 16 aprile), ci dice di un aumento costante nella sindacalizzazione giovanile, soprattutto nei settori-giungla della new economy. Si tratta di dati positivi in un quadro che rimane nero. Dati e segnali che dobbiamo saper leggere e interpretare, a cui dobbiamo poter essere all'altezza di rispondere.

Il quadro in cui ci muoviamo
La forma fordista-taylorista del processo di produzione, cioè le condizioni della produzione di una data epoca storica, sembrano essere state superate, come prevedeva Marx, dal procedere delle stesse forze produttive. I due nessi forti, sui quali poggiava una certa stabilità anche sociale del fordismo, quelli che legavano aumento della produzione ad aumento dell'occupazione ed aumento della produttività ad aumento del salario, sono oggi invalidi. Del primo nesso, anzi, sembra rimanere valida solo l'implicazione inversa: è ancora vero che un rallentamento della produzione è in grado di provocare una contrazione occupazionale, ma non è più vero che ad una ripresa della produzione corrisponda una ripresa dell'occupazione. I dati relativi all'economia americana negli ultimi trimestri sembrano confortare questa interpretazione. Gli apologeti della new economy, che pensavano di aver trovato nel mix di innovazione tecnologica, flessibilità e snellimento della produzione in tutti i suoi aspetti (outsourcing, downsizing e lean production sono parole che abbiamo tristemente imparato a conoscere…) insieme a flessibilità estrema del mercato del lavoro (e una nuova divisione internazionale dello stesso) la ricetta per una crescita senza inflazione e senza crisi hanno dovuto rivedere le proprie previsioni. Già alla fine dell'Agosto scorso i più prestigiosi periodici economici nominavano il rallentamento dell'economia americana nei termini di una vera e propria recessione. Prima del crollo delle borse seguito agli attentati dell'11 Settembre 2001 gli indici di fiducia dei consumatori registravano una variazione negativa, così come quelli dei consumi e degli investimenti privati. Il 2002 si è aperto all'insegna degli scandali nei bilanci delle grandi imprese americane (vedi il caso Enron), del crollo in borsa dei titoli tecnologici e della crisi conclamata dell'economia americana. Nonostante il dato sia assolutamente parziale rispetto all'effettiva entità della disoccupazione USA (com'è noto le statistiche OSCE registrano come occupato anche chi abbia lavorato una sola ora nella settimana della rilevazione), nel giro di un anno e mezzo gli Stati Uniti hanno visto insieme l'esplosione di più di un milione di disoccupati e la crisi generalizzata dell'intero settore della new economy: la fusione che tenta il rilancio di due colossi come Hewelett-Packard e Compaq ha provocato l'annuncio di 30.000 licenziamenti.
La base materiale su cui poggiava il paradigma fordista-keynesiano del dopoguerra sembra essere definitivamente mutata. Nella sfera della produzione lo sviluppo delle nuove tecnologie consente un controllo a distanza della produzione. Il risultato è un paradosso: mentre si allargano i confini delle filiere produttive (attraverso una nuova divisione internazionale del lavoro) si restringono geograficamente i centri di controllo della produzione e della creazione dei saperi. L'identificazione geografica tra produttore e consumatore, che nell'ottica di Ford giustificava una politica di alti salari, viene definitivamente meno lasciando spazio a possibilità di dumping salariale e sociale.
Questo fenomeno di internazionalizzazione selettiva della produzione (economisti come Andrea Fumagalli sottolineano che alcune aree del pianeta -il continente africano e alcune regioni asiatiche- sono in parte escluse dalla "globalizzazione della produzione") si accompagna ad una sempre maggiore finanziarizzazione e globalizzazione dei mercati dei capitali e delle valute. Fenomeni questi che producono ulteriori distorsioni nei processi distributivi.
Se, prima del crollo di Bretton Woods, il 90% delle transazioni finanziarie in valuta estera erano destinate a finanziare il commercio e gli investimenti a lungo termine, oggi l'instabilità della domanda di beni, l'incertezza finanziaria, l'aumento dell'indebitamento nazionale e internazionale, il bisogno di utili a breve termine hanno contribuito a rovesciare le percentuali. I dati attuali ci indicano che oltre il 95% delle transazioni internazionali sono a breve termine, cioè a fini puramente speculativi. Le campagne per la Tobin tax, promosse da Attac, ma ormai assunte da tutto il movimento antiglobalizzazione, traggono spessore e rilevanza dall'analisi di questi dati.
I processi di globalizzazione economica che andiamo descrivendo producono una polarizzazione dei redditi tra rendita e profitti da un lato e salari dall'altro sia a livello nazionale che internazionale (come confermano, anche per il nostro paese, i dati ISTAT della primavera 2001). Il divario, in termini di reddito e qualità della vita, tra Nord e Sud del mondo si legge bene nei dati del Rapporto UNDP (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) del maggio 2001. Dal 1950 al 2000 la ricchezza complessiva del pianeta è aumentata di 6 volte, mentre il reddito medio degli abitanti di 100 dei 174 paesi censiti è in piena regressione, così come la speranza di vita. L'Organizzazione Mondiale della Sanità conferma che, sotto quest'aspetto, il paese che ha visto il peggioramento relativo medio più marcato sono proprio gli Stati Uniti (dove il 35% degli occupati vive sotto la soglia di sussistenza: il tristemente noto fenomeno dei working poors). Sempre nel Rapporto UNDP si legge che le 3 persone più ricche del mondo hanno un reddito superiore a quello dei 48 paesi più poveri messi insieme. Le 15 persone più ricche un reddito che supera il PIL dell'intera Africa Subshariana.
Anche i termini del "patto sociale" tra capitale e lavoro (con i momenti di maggior conflittualità e quelli di compromesso) su cui si sono fondati, nei paesi occidentali, keynesismo e Welfare State del dopoguerra, sono saltati. Politiche di alta occupazione e di sostegno alla domanda interna (anche attraverso una politica dei redditi adeguata) sembrano non essere più convenienti. Lo Stato Sociale viene attaccato con argomentazioni economiche e politiche insieme, proprio mentre la caduta del tasso di crescita dei redditi da lavoro e il consistente aumento dell'orario di lavoro medio individuale (straordinari e lavoro nero) rendono ancor più necessarie le garanzie sociali.

La questione sociale e le prospettive
Siamo di fronte ad un modello di globalizzazione neo-liberista che attacca i più deboli in maniera complessiva. Non solo attraverso l'erosione salariale, ma con lo smantellamento del sistema di garanzie sociali, dei diritti e dei servizi (scuola, sanità, pensioni i principali obbiettivi, anche in Italia, dei Governi di centro-destra e centro-sinistra). La risposta non può che essere una risposta complessiva. Bisognerebbe poter prospettare alle giovani generazioni un altro modello di società e contribuire a costruirlo con quanti in questa direzione si muovono da tempo. Prima degli scioperi generali italiano e spagnolo della primavera scorsa sono stati proprio i temi del lavoro e del salario quelli intorno a cui, agli albori del movimento no global europeo, si sono costruite le mobilitazioni più importanti. Basti pensare alle varie marce per il salario europee e alla contestazione di Nizza contro la Carta dei Diritti europea nel Dicembre del 2000. Gli attacchi al mondo del lavoro che quella Carta contiene (per esempio sul diritto al lavoro trasformato in libertà di lavoro e sul diritto di sciopero) e contro cui abbiamo cercato di manifestare -sebbene bloccati alla frontiera di Ventimiglia- sono gli stessi che il Libro Bianco di Maroni e le deleghe del Governo ripropongono oggi in Italia. Gli obbiettivi sono la contrattazione collettiva, l'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, il vecchio sistema di relazioni industriali, l'istituto del processo di lavoro. La finalità è la flessibilità estrema del mercato del lavoro, in cui, come in una giungla, vince il più forte, o il più flessibile rispetto alle esigenze dell'impresa. I più deboli sono i giovani (più ricattabili perché con minor esperienza professionale), le donne (costrette ad una flessibilità tutta misurata sulle esigenze del profitto e non sui tempi di vita e del lavoro di cura) e gli immigrati. I nuovi orizzonti del lavoro flessibile si chiamano lavoro a termine, lavoro a chiamata (proprio quello bocciato dai lavoratori della Zanussi !), lavoro occasionale, a termine (con relativo permesso di soggiorno a termine per i lavoratori immigrati), accessorio, in affitto, a part time flessibile.
Seppure in un quadro con queste caratteristiche, sembra che il lavoro possa tornare ad essere un soggetto antagonista, motore della trasformazione, grazie ad una nuova generazione di lavoratori. Già da Genova abbiamo osservato come il movimento no global ed il nuovo movimento operaio non siano due corpi l'uno estraneo all'altro da fare incontrare sul terreno di una qualche campagna o di qualche rivendicazione specifica. L'intreccio è profondo già nei soggetti che li compongono. L'esperienza di Genova ed il colorato spezzone del movimento durante la manifestazione del 23 marzo scorso ci dicono di una nuova identità di classe, di una nuova generazione di lavoratori del web e delle comunicazioni (parliamo di call-center, di lavoro in internet, di telelavoro, di messa a valore delle capacità di relazione…) che sanno confrontarsi con le questioni ambientali, la piaga del debito dei Paesi poveri, l'ngiustizia della guerra e della finanza armata. Parliamo, dunque, di un meticciato sociale che ci chiede di mettere a punto un'analisi della composizione di classe (utilizzando anche lo strumento dell'inchiesta tra le nuove generazioni) adeguata a comprendere le trasformazioni sociali e produttive. Una sfida che la sinistra dovrebbe saper accettare.

* Nel precedente numero de "Le Passioni di Sinistra - Terre libere a maggio" abbiamo pubblicato a firma di Cristina Tajani l'articolo, Dalla parte del torto, di critica al libro di Oriana Fallaci La rabbia e l'orgoglio. Trattandosi di un saggio scritto dalla Tajani per un libro di prossima pubblicazione dal titolo La gabbia dell'orgoglio (Aracne, Roma), la Redazione si scusa con la Casa editrice per la mancata precisazione nello scorso numero.

settembre - dicembre 2002