Emigrazione e processi economici
di
Bepi Poli

Contrariamente alla rozzezza, pari solo all'ignoranza ed alla demagogica strumentalizzazione, dei programmi e delle posizioni avanzate dagli esponenti di alcune formazioni politiche e dai loro rappresentanti parlamentari e governativi, recentemente codificati nella legge Bossi-Fini sugli immigrati, i problemi posti dall'arrivo quotidiano e massiccio di extracomunitari non può risolversi semplicemente con il sistema della schedatura, mediante il rilevamento delle impronte digitali, o peggio, proponendo il ricorso alla dissuasione armata da parte delle forze militari.
Ricchezza e povertà costituiscono da sempre un binomio inscindibile. Tale dicotomia, prima ancora che nei rapporti tra gli individui, opera nelle relazioni tra gli stati e tra le diverse aree della terra. Si deve a questa disuguaglianza la lunga serie di spostamenti di popolazione riscontrabili nel corso della storia umana. Ovviamente, la realtà non è mai semplificabile e nell'andirivieni o negli spostamenti di popolazione rivestono un ruolo fondamentale responsabilità diverse che coinvolgono ai livelli più alti i gestori della politica e tutti coloro che hanno impegni nella organizzazione degli apparati economici e sociali. In questo gioco così complesso i singoli tendono a risolvere le proprie difficoltà nei modi apparentemente più consoni alle opportunità di cui essi hanno cognizione. Pertanto non bisogna meravigliarsi delle forme, talvolta scomposte e irregolari, che la cronaca quotidiana mette a disposizione di tutti grazie agli attuali strumenti di informazione.
Il livello di sviluppo raggiunto dai paesi industriali del mondo occidentale costituisce un elemento di forte richiamo per coloro i quali vivono in condizioni di miseria e di povertà insopportabile. In un contesto internazionale globalizzato dai mezzi di comunicazione, dalla tecnologia e dalla velocità dei trasporti questo fenomeno costituisce una conseguenza inevitabile di tali processi per tutti coloro che, provenienti da paesi ancora molto arretrati o non ancora avviatisi verso processi di crescita autosostenuta, tentano in vario modo di superare la loro infausta condizione. Le conseguenze del fenomeno migratorio sono ormai sotto gli occhi di tutti e in particolare di chi vive in realtà come la Puglia. Da circa un decennio, infatti, si assiste impotenti al dramma di milioni di poveri che invadono con i mezzi più disparati le coste meridionali della penisola.
È sufficiente sfogliare i quotidiani o i settimanali in un giorno qualsiasi, accendere la televisione o sintonizzarsi con qualche radiogiornale per apprendere in tempo reale di un imminente arrivo o sbarco di questi sfortunati individui che si dirigono verso di noi, come primo ponte dell'occidente, con la speranza di una possibile e spesso irraggiungibile salvezza in altre e più lontane contrade del mondo.
La fuga di albanesi, turchi, curdi, pachistani, cinesi, malesi, indonesiani, senegalesi, africani in genere e di tutti gli extracomunitari che definiamo "clandestini" rappresenta soltanto una delle tante manifestazioni, rubricabili nella medesima categoria, che storicamente si sono verificate per motivazioni analoghe o di altro tipo. È superfluo rammentare - come è noto - che gli italiani in epoche precedenti hanno vissuto una siffatta esperienza. Le immagini d'archivio e di pionieristici servizi cinematografici hanno sufficientemente documentato episodi simili di cui i nostri avi sono stati protagonisti ai quattro angoli del mondo, nella buona come nella cattiva sorte. Per chi fosse interessato a questo fenomeno esistono informazioni precise sull'emigrazione italiana negli U.S.A. dal 1880 al 1954 con liste di sbarco dei passeggeri italiani, l'indicazione del mestiere, la località di provenienza, il porto d'imbarco, il luogo di destinazione, la classe di viaggio, il nome della nave ecc., presso l'Ellis Island Family History Center. È il caso di precisare che si tratta di liste comprendenti i dati computerizzati di circa 17 milioni di immigrati italiani approdati su navi statunitensi a Ellis Island e di circa 12 milioni arrivati a Castle Garden i cui elenchi possono essere visualizzati attraverso la banca dati della Fondazione "G. Agnelli" di Torino.
Come è noto, anche quella ondata di emigrazione ha creato grossi problemi allo stato americano che è intervenuto con opportuni interventi legislativi per regolarne flussi e distribuzione sul territorio. Proprio per questa dimensione, sia pure diluita nel tempo, ma pur sempre massiccia se considerata nella sua concomitanza con quella di altre nazionalità, non si possono trascurare le conseguenze negative e positive determinate da tale flusso di immigrazione. Accanto alle forme di delinquenza organizzata che alcuni italiani hanno avuto il merito di esportare oltreoceano, non si può tralasciare l'apporto consistente (in termini di lavoro, di conoscenze e, quindi, di sviluppo) dato da altri italiani a quel paese. Diversi settori dell'economia (dall'edilizia all'industria in genere) si sono avvantaggiati in misura notevole dell'esperienza e delle competenze acquisite in patria e poi esportate all'estero dagli scalpellini, dai muratori, dai falegnami, dai numerosi artigiani come dai contadini e da tanti lavoratori generici arrivati dall'Italia e da altri paesi europei. In mancanza di quelle innumerevoli abilità e conoscenze pratiche importate dall'estero ampie zone degli Stati Uniti avrebbero subito un ritardo di crescita o non avrebbero, addirittura, raggiunto così rapidamente quel livello di sviluppo che ne ha consentito la crescita economica e la successiva affermazione come prima potenza mondiale.
Senza indulgere a forme di un sentimentalismo di maniera, questi riferimenti intendono sottolineare l'importanza che, storicamente, ha rappresentato l'emigrazione sui processi economici. In tutte le epoche e sotto le più diverse situazioni il fenomeno migratorio ha costituito un arricchimento per i paesi che, reciprocamente, ne sono stati fruitori. Se è vero che spesso l'emigrazione ha consentito ai paesi di origine di accumulare riserve monetarie in seguito alle rimesse dei propri emigrati consentendo, non poco, allo stesso sviluppo di questi ultimi, mediante il rastrellamento e l'investimento del credito (come, appunto, dimostra anche il caso italiano), è altrettanto vero che essa ha consentito ai paesi di arrivo di beneficiare immediatamente - come si è appena sottolineato - di tutte quelle competenze che, altrimenti, avrebbero richiesto una notevole spesa in termini di istruzione per l'acquisizione e la diffusione delle tecniche non immediatamente disponibili in loco. Fino a tutta l'età moderna l'emigrazione di manodopera è stata lo strumento più idoneo e più immediato di diffusione del know- how.
Durante la rivoluzione industriale essa ha rappresentato su scala europea il sistema più semplice di adattamento del fattore lavoro ad altri fattori della produzione caratterizzati da una maggiore rigidità e immobilità, come la terra e le prime industrie su base regionale. Per tutto il diciottesimo secolo, quando l'ammontare della popolazione e, quindi, la disponibilità di manodopera veniva considerata una ricchezza per gli stati, la politica mercantilista dei sovrani favoriva le immigrazioni concedendo benefici su terre abbandonate e sottoutilizzate. Esistono diversi esempi di questo fenomeno. Si pensi al trasferimento dei numerosi agricoltori che andarono a popolare le province nord-orientali della Prussia, o dei tedeschi, rumeni, bulgari, cechi che furono attratti dalle politiche della zarina Caterina II, dei croati, serbi, slovacchi e tedeschi che si diressero in Ungheria. Come dimostrano questi brevi cenni, si trattava di manodopera per lo più generica da utilizzare nei lavori agricoli.
Le caratteristiche dell'emigrazione cambiarono nei primi decenni del diciannovesimo secolo. In questo periodo le terre libere e scarsamente popolate si erano ridotte e gli interessi dei sovrani si dirigevano verso una politica di incentivazione del sistema manifatturiero. Bisognava importare macchinari piuttosto che uomini. Più che la quantità era necessaria la qualità. Pertanto si richiedevano competenze specializzate per fare funzionare le macchine. Di conseguenza, gli spostamenti della popolazione avvenivano verso zone industrializzate come l'Alsazia, la Francia del Nord, la Renania, la Sassonia, verso le aree tessili dell'Italia del Nord e verso le capitali. Tutto ciò non riuscì ad assorbire l'incremento della popolazione che si era realizzato nelle campagne europee fino a quando, in conseguenza delle crisi alimentari del 1840-50 e delle tensioni così accumulatesi, dalla Germania, dall'Irlanda, dalla Scozia e successivamente, dalla Scandinavia si riversarono gruppi sempre più numerosi di gente verso la Russia e il continente americano. Anche nelle aree più sviluppate dell'Europa (è il caso della Ruhr) si determinò una forte richiesta di manodopera, indotta dalla esplosiva crescita industriale verificatasi intorno al 1880 che, fino a tutta la prima guerra mondiale, attrasse numerose masse di contadini polacchi, prussiani e di altre zone ad est dell'Elba.
In seguito, come recitano i manuali di storia, si determinò uno squilibrio tra l'aumento della popolazione e l'incapacità di queste economie industriali di assorbire il surplus di popolazione in contesti ormai condizionati dall'affermazione di determinate tecnologie, dalla disponibilità dei capitali interni, dal livello dei prezzi e dei salari in vigore. Tale squilibrio si manifestò soprattutto nelle aree periferiche dell'Europa (Austria, Ungheria, Russia, Polonia, Romania, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Italia, Spagna, Portogallo) dove le difficoltà di organizzare una efficiente base industriale e il permanere di un'economia con un'ampia struttura agraria, imponeva un ritorno all'emigrazione come valvola di sfogo al fenomeno della sovrappopolazione nelle campagne. Tuttavia nel periodo tra le due guerre, la disintegrazione dell'economia mondiale vanificò questa opzione, come dimostra la politica di contingentamento adottata dagli U.S.A.
Dopo il secondo conflitto mondiale, con il rilancio dell'economia, si ebbe una ripresa dell'emigrazione su larga scala con provvedimenti mirati che prevedevano garanzie di carattere istituzionale alla mobilità della forza lavoro. Ciò fu il risultato della nuova politica di cooperazione europea e del mutato clima internazionale in cui furono promossi accordi tra i paesi occidentali, compresi gli Stati Uniti e il Canada. Negli anni tra il 1946 e il 1950 l'emigrazione di lavoratori si diresse prevalentemente oltreoceano verso gli Stati Uniti, Canada, Australia, Israele, Argentina, Venezuela, Brasile. In seguito, tra il 1950 e il 1965 (e oltre) si aggiunsero i flussi di emigranti verso alcuni stati europei (Germania, Francia, Belgio, Svezia, Svizzera). In questo periodo l'emigrazione della manodopera europea raggiunse quasi i livelli precedenti alla prima guerra mondiale. Poiché i beni capitali avevano maggiori difficoltà di spostamento, il movimento della forza lavoro si sostituì a questi ultimi configurandosi come lo strumento più adatto a fare funzionare l'economia europea.
Questa rapida carrellata attraverso la storia e le teorizzazioni di alcuni economisti (da Ricardo, con la sua teoria dei costi comparati, a Heckscher e Ohlin, con la legge sull'equazione della domanda internazionale e la formulazione del vantaggio derivante dalle diverse dotazioni di fattori tra paesi scambisti, fino a Samuelson che dimostra come un incremento nel prezzo di una merce può contribuire a far aumentare il reddito del fattore di produzione che viene usato più intensamente nel produrla, in questo caso, la manodopera costituita dagli emigrati) confermano che l'emigrazione costituisce un fattore di sviluppo economico piuttosto che un impedimento in questa direzione. Tutti i paesi che hanno subito o hanno stimolato l'emigrazione hanno registrato alla fine delle favorevoli ripercussioni sulla propria economia.
Le dimostrazioni non sono poche e la storia fornisce prove significative in questa direzione come l'espulsione degli ebrei dalla penisola iberica, nel corso del XV e del XVI secolo, e quella degli ugonotti dalla Francia di Luigi XIV, alla fine del XVII secolo. Nell'uno come nell'altro caso i paesi che scacciarono queste minoranze subirono un impoverimento di imprenditorialità, di competenze e di operosità che si manifestò soprattutto sul piano economico, indebolendo alcuni settori e ripercuotendosi, inevitabilmente, su un più ampio spettro di attività. Al contrario, il loro esodo contribuì allo sviluppo delle aree geografiche in cui esse andarono a stabilirsi. La vicenda degli ugonotti è particolarmente emblematica, in quanto essi contribuirono allo sviluppo industriale e commerciale dei paesi protestanti europei, soprattutto in termini di trasferimento della tecnologia.
Se da queste esemplificazioni che coinvolgono la grande storia è consentito fare un riferimento alle nostre contrade e considerare, nella prospettiva generale che informa questo contributo, il fenomeno dei lavoratori stagionali che nei secoli passati si recavano dalle province a mietere il grano e l'orzo nelle masserie della Daunia o del Vulture, si ripropongono le analoghe considerazioni avanzate in precedenza sull'utilità e sulla funzione economica dell'emigrazione. Anche in questo caso - come è stato affermato dal Galanti nel '700 ("se piacesse a costoro di comblottarsi e non discendere in un anno in Puglia i Pugliesi perderebbero l'intero raccolto") - quella manodopera stagionale si dimostrava più funzionale ai massari, cioè all'imprenditoria fondiaria dell'epoca, piuttosto che ai poveri contadini i quali riportavano spesso - sulla scorta del Giovene - "il seme di terribili malattie, che spargono miseramente nelle loro famiglie [così] la Daunia, povera essa di uomini, impoverisce di uomini le altre Provincie, e come un Vampiro succhia il sangue dè poveri di tutto il Regno".
Infine, sempre per restare a queste latitudini, è sufficiente aprire l'elenco telefonico di una delle cinque province pugliesi o di qualche altra regione meridionale per trovare patronimici riferiti a gruppi famigliari, oggi perfettamente inseriti ed affermati nelle nostre comunità che ripropongono denominazioni di regioni, località, isole, popolazioni ed altre indicazioni tutte esplicitamente echeggianti una provenienza dalmata, greca, albanese, dell'area ionica, egea, eccetera.
La casistica appena richiamata dimostra chiaramente da quale parte penda la bilancia che coinvolge uomini ed economia. L'urgenza di superare una condizione di precarietà si contrappone ai vantaggi ricavati da chi offre ai primi una qualche soluzione ai propri problemi.
Ma i benefici, oltre ad essere immediati e riguardare - come si è detto - la sfera della produzione e gli aspetti ad essa correlati, possono essere anche più indiretti e più dilatati nel tempo. Come è accaduto altrove, l'emigrazione di nuove popolazioni contribuisce allo svecchiamento e al rinnovamento di una collettività sotto diversi profili, anagrafici e non. In particolare, ciò vale per l'Italia dal momento che la popolazione della penisola sta subendo una crescita zero a causa dei mutati comportamenti demografici della sua società affluente. Tali fenomeni e il progressivo invecchiamento degli italiani creano problemi non solo di tipo generazionale ma di vera e propria sopravvivenza per coloro che in futuro dovranno godere dei diritti assistenziali finora garantiti dall'attuale ordinamento.
Inoltre è sotto gli occhi di tutti il fenomeno della scarsa disponibilità di manodopera che affligge i più diversi settori dell'economia, dall'industria all'agricoltura. Contrariamente alla rozzezza, pari solo all'ignoranza e alla demagogica strumentalizzazione, dei programmi e delle posizioni avanzate dagli esponenti di alcune formazioni politiche e dai loro rappresentanti parlamentari e governativi, recentemente codificati nella legge Bossi-Fini sugli immigrati, i problemi posti dall'arrivo quotidiano e massiccio di extracomunitari non può risolversi semplicemente con il sistema della schedatura, mediante il rilevamento delle impronte digitali, o, peggio, proponendo il ricorso alla dissuasione armata da parte delle forze militari. La lunga tradizione di solidarismo che da sempre è patrimonio comune degli italiani respinge queste forme di regolamentazione, come attestano le numerose prese di posizione di importanti settori della Chiesa e del mondo laico.
In Italia e in gran parte dell'Europa occidentale, le esigenze imposte dalla produzione pongono una domanda di manodopera non sempre soddisfatta dalle disponibilità locali, per effettiva carenza di maestranze o perché i residenti sono diventati più selettivi rispetto al mercato del lavoro. A fronte di questa realtà esistono gli allettamenti di una facile e semplicistica propaganda sulle opportunità del mondo occidentale e sulla sua recettività incondizionata che spesso viene strumentalizzata o non giustamente compresa dagli extracomunitari. Ciò va considerato in rapporto a quei paesi dell'est europeo usciti dal disfacimento dei regimi comunisti e alle regioni geograficamente più periferiche della terra che soffrono degli squilibri e della precarietà derivanti dalle proprie difficoltà e da quelle prodotte dall'organizzazione del sistema economico mondiale. Ovviamente non è questa la sede per affrontare tali e tanti argomenti che richiedono analisi più approfondite e coinvolgono questioni più complesse. Tuttavia, in una situazione del genere come quella derivante dallo spostamento di masse anonime che si dirigono dai diversi angoli del globo perché attratte dai miraggi dell'occidente, non vi è chi non veda una profonda contraddizione nelle posizioni politiche espresse dai conservatori italiani ed europei (e non solo da loro). Tra l'urgenza di avere forza lavoro disponibile per assicurare lo svolgimento di quelle mansioni che italiani ed europei non vogliono più fare e la necessità di continuare mantenere in vita settori e imprese altrimenti destinati al fallimento o ad una drastica chiusura (con conseguenze nefaste per ampi settori dell'apparato economico e produttivo), bisogna sforzarsi di trovare soluzioni adeguate, all'altezza dei tempi e della storia. Le soluzioni semplicistiche non sono (o, almeno, non dovrebbero essere) più consentite in un contesto nazionale e internazionale in cui i livelli d'istruzione, le conoscenze scientifiche e la diffusione delle competenze hanno raggiunto gli attuali livelli. Di fronte ad una realtà multietnica e interculturale è sciocco inneggiare alla difesa di una presunta identità nazionale che sarebbe compromessa dall'arrivo e dalla permanenza di queste minoranze e dalla loro cultura. La trasformazione della società occidentale è una realtà di fatto che altrove è già molto più avanzata, in paesi come la Francia, l'Inghilterra, gli U.S.A, per fare solo alcuni esempi. Né si può ritenere con saccenteria pari solo alla presunzione che i valori occidentali siano in assoluto i migliori e gli unici degni di attenzione. Esistono civiltà che nel passato hanno raggiunto livelli anche superiori ai nostri e che hanno contribuito non poco all'affermazione della vecchia Europa. Per tutti questi motivi i conservatori della politica e della cultura dovrebbero rispondere a domande come quelle riguardanti il funzionamento delle molte fabbriche esistenti nel nord-est del nostro paese o a quelle concernenti la possibilità di assicurare la raccolta di alcuni prodotti dell'agricoltura meridionale ovvero a richieste come quelle che attengono allo svolgimento di alcuni lavori nelle aziende zootecniche sparse negli angoli più diversi della penisola, fino a quelle concernenti la possibilità di assicurare alcune mansioni (derivanti, appunto, dall'invecchiamento della popolazione e dai mutamenti intervenuti nella struttura familiare) come quelle che in gran parte vengono assicurate dallèbadantì. E, infine, se è consentita qualche provocazione, costoro dovrebbero preoccuparsi di educare la numerosa clientela abituale (di italiani ed europei) che sostiene l'ampio settore della prostituzione di colore o di extracomunitarie, con tutto il suo turpe traffico di interessi e di sfruttamento umano!
Come si vede non si tratta di problemi che possono risolversi solo con la legge per difendere abitudini, tranquillità ed esigenze di una società assuefatta al benessere e narcotizzata da un perbenismo di facciata. La normativa e la disciplina dei flussi di immigrazione può avere un valore solo se si avvale della concertazione internazionale, nei luoghi e nelle istituzioni opportune, per affrontare una questione che è ben più complessa di quanto si pensi e si voglia o si possa risolvere mediante provvedimenti legislativi improntati a epidermiche fobie dello straniero. Se è possibile pensare a risoluzioni o a provvedimenti di breve e medio termine è altrettanto necessario trovare forme di intervento che possano risolvere le difficoltà in cui versano gli extracomunitari nelle stesse aree in cui esse si manifestano. I paesi più avanzati hanno il dovere di contribuire a tale risoluzione con tutti i mezzi a propria disposizione. L'economia non può essere regolata solo dal mercato ma deve obbedire anche a principi etici senza dei quali prevalgono forme di regressione nella regolazione dei rapporti umani che si ritenevano superate.
Si possono anche ricacciare indietro le torme di affamati che quotidianamente invadono le coste con le più disparate e sgangherate imbarcazioni, ma non si risolverà mai il problema che, purtroppo, dipende dalla divisione internazionale dell'economia e dalla esistenza di paesi poveri (in grande maggioranza) e di paesi ricchi (una esigua minoranza).

settembre - dicembre 2002