"la riorganizzazione "umanizzante" del lavoro comporterà, se si spingerà oltre i gadgets psicologici promossi dai servizi di relazioni pubbliche delle imprese, una forma di autogestione estesa che entrerà in collisione con la gerarchia capitalista all'interno come all'esterno del mondo del lavoro."
(di Herbert Marcuse, "Un nouvel ordre" in Le Monde Diplomatique, luglio 1976) "Il braccio di ferro non funziona. Non è possibile " costringerli" a fare qualcosa. Devono essere convinti che sono loro stessi a " volere" quel risultato. Perciò è necessario lavorare sulla cultura. L'idea è di educare le persone senza che se ne accorgano. Riuscire ad inculcare loro una certa religione senza che sappiano da che parte è arrivata!"
(dichiarazione di un manager di un'impresa ad alta tecnologia raccolta da Gideon Kunda, "L'ingegneria della cultura")
Negli ultimi anni, le televisioni di tutto il mondo sono state imperversate da un nuovo e -sembrerebbe - fortunato evento mediatico: Il Grande Fratello.
I protagonisti diretti dell'evento, una decina di uomini e di donne di giovane età, venivano introdotti in un'abitazione attrezzata (La Casa del Grande Fratello) in cui si trovavano per settimane (o anche per mesi) sotto lo sguardo incessante delle telecamere. Chiunque, da casa tramite un televisore o, meglio ancora, tramite un PC e un modem, poteva scrutare 24 ore su 24, la vita degli abitanti della Casa, anche nei momenti più intimi. Un'altra caratteristica dell'evento, era la possibilità del pubblico, di decidere l'esito del "gioco", votando per il partecipante che si voleva eliminare, sulla base di una designazione (nomination) effettuata dagli stessi abitanti della Casa. Si stabiliva quindi una forma di controllo mista su ciascun partecipante, caratterizzata dalla compresenza di un controllo verticale attraverso l'occhio onnipresente delle telecamere che rimandava ad un decisore esterno (il pubblico), ed una forma di controllo orizzontale, reticolare, interno alla Casa, che intrecciava le relazioni di ognuno dei suoi abitanti, che si trovava ad essere contemporaneamente oggetto e soggetto del controllo, controllore e controllato. Per quanto l'immagine possa sembrare forte ed esasperata, è probabilmente possibile affermare che quello del Grande Fratello, sia un modello che si sta affermando progressivamente come il modello del controllo nei luoghi di lavoro, nel nuovo paradigma produttivo post-taylorista.
La vecchia produzione taylorista era rappresentata da una doppia catena: una catena orizzontale (la catena di montaggio) che collegava le varie fasi della produzione in una sequenza lineare orizzontale in cui ad ogni addetto alla produzione si richiedeva l'espletamento di un'unica operazione rigidamente codificata; una catena verticale che scandiva l'essenza della disciplina gerarchica e che, attraverso vari e odiosi livelli intermedi, legava i lavoratori alla disciplina delle gerarchie aziendali, venendo in tal modo disciplinato, tra l'altro, il rispetto delle norme tecniche di produzione nell'esecuzione della prestazione lavorativa. Nel nuovo paradigma, l'immagine della catena è assolutamente inadeguata ad offrire qualunque forma di rappresentazione per quanto generica e stilizzata, mentre si affaccia, prepotentemente, l'immagine della rete.
Il vecchio paradigma è andato in crisi sotto il peso di diversi e disomogenei fattori. Se da un lato hanno contato fattori interni al capitale, quali - in sintesi estrema - lo choc petrolifero degli annì70, la saturazione del mercato dei principali beni di consumo del "trentennio glorioso" del fordismo-taylorismo, la caduta del tasso di redditività del capitale ecc., dall'altro non bisogna ignorare l'importanza della spinta esercitata dall'antagonismo operaio, e dalla ribellione contro la rigidità della gerarchia di fabbrica.
Il protagonismo operaio della fine degli annì60, ha avuto non solo un carattere quantitativo legato alla richiesta di forti miglioramenti salariali, ma anche un carattere qualitativo legato alla spinta verso il miglioramento delle condizioni di lavoro e verso l'alleggerimento del peso della gerarchia. Ma c'è di più: dentro il movimento operaio, e al di là di esso, si è sviluppata una spinta a liberare i desideri, le aspirazioni, le capacità di relazione, di comunicazione, di cooperazione oltre le rigidità dell'organizzazione taylorista di fabbrica.
Lo stesso modello del lavoro salariato ha subito una pressione da un nuovo desiderio di autonomia. Di fronte a queste spinte, si potrebbe dire - utilizzando una citazione di William Morris più volte ripresa da Hardt e Negri in Impero - che quello che nei decenni successivi è avvenuto, è che "ciò per cui i proletari hanno lottato si è realizzato malgrado la loro sconfitta". Il fulcro del ragionamento che vorrei sviluppare è tutto nella parola malgrado. Malgrado la sconfitta del movimento proletario degli annì60 è70, malgrado la sconfitta delle istanze di liberazione che innervavano quel movimento, malgrado la sconfitta del tentativo storico di rompere le catene che legano i lavoratori al capitale, malgrado tutto ciò, quelle catene sono state sostituite, il controllo datoriale sul lavoro ha aggiornato la propria configurazione, il lavoro salariato ha ridotto il suo peso - almeno nei Paesi più "avanzati" - cedendo una parte di tale peso al lavoro autonomo. Tuttavia il fatto che questo processo sia avvenuto malgrado una sconfitta, comporta che le redini di questo salto di paradigma siano state tenute saldamente nelle mani delle imprese, delle direzioni aziendali, in una parola del capitale.
Ciononostante, è utile tentare un'analisi sintetica sulla natura reale delle trasformazioni occorse, prima di chiudere questo articolo con una breve rappresentazione dei possibili scenari futuri.
Subordinazione gerarchica e dipendenza economica
Il mio punto di interesse prioritario è quello di riflettere sul come, nel nuovo paradigma produttivo si strutturi la linea di comando all'interno dei luoghi della produzione.
Mi pare che l'assoggettamento ad un potere altrui, riferito al rapporto di lavoro, possa derivare da due circostanze differenti, o comunque possa caratterizzarsi in due forme differenti.
La prima potrebbe definirsi subordinazione gerarchica (o tecnico-funzionale) e fa riferimento al potere del datore di lavoro (o di persona da lui indicata) di prescrivere -in modo più o meno dettagliato- le modalità di esecuzione di una prestazione lavorativa esercitando il controllo sul rispetto di tali prescrizioni e il relativo potere sanzionatorio. Ovviamente in questo potere è compresa anche la fissazione dell'orario di lavoro.
La seconda si può definire come dipendenza economica e fa riferimento alla circostanza che il lavoratore/committente dipenda economicamente -per una parte essenziale- da un datore di lavoro.
Il primo concetto si è modellato sulle esigenze dell'organizzazione del lavoro dell'impresa industriale taylorista ed ha trovato una definizione giuridica non facile che però, all'interno del modello organizzativo in cui si è sviluppata, ha acquisito col tempo un buon grado di precisione e chiarezza. Il secondo concetto, più attento rispetto al precedente, alla condizione di debolezza economica e sociale del lavoratore, è risultato tuttavia, difficilmente racchiudibile negli schemi del formalismo giuridico, e per tale ragione ha avuto scarso peso normativo, in diritto del lavoro, nei decenni fordisti - tayloristi. Per la verità, tale peso appare tuttora scarso, anche se l'ultimo decennio ha visto diversi ordinamenti giuridici prendersi carico timidamente della c.d. dipendenza economica, prevedendo specifiche e limitate tutele: e il caso dei cosidetti "quasi salariati" in Germania, in Francia, e dei c.d. parasubordinati in Italia.
In ogni caso, tralasciando gli aspetti giuridici, mi pare interessante riflettere sul come, ciascuna di queste due forme di assoggettamento (subordinazione e dipendenza) al potere e alle decisioni altrui, si sia strutturata concretamente nelle relazioni di lavoro, e sul se e come, nel nuovo paradigma, il peso di ciascuna si sia modificato.
Incidentalmente mi pare appena necessario chiarire che le due forme di assoggettamento non si escludano a vicenda, potendo coesistere contemporaneamente. Anzi, per essere più chiari, è utile anticipare che nella realtà concreta, nella maggioranza dei casi esse coesistono con peso differente e variabile a seconda delle circostanze.
Ma come cambiano la subordinazione gerarchica e la dipendenza economica nel nuovo paradigma?
Subordinazione gerarchica
Secondo molti, la subordinazione gerarchica avrebbe conosciuto negli ultimi decenni una tendenziale riduzione di peso, allentando la catena gerarchica e liberando il lavoro, rendendolo meno meccanico, meno monotono e più creativo, relazionale, vario.
Forse ciò non è falso, ma la realtà è a mio giudizio più complessa.
Innanzitutto non bisogna dimenticare l'inossidabile successo che continuano ad avere nei tanti sud del mondo, ma anche nei tanti sud italiani, i "sottoscala dello sviluppo", che altro non sono se non delle fetenti officine dove tra gli altri, bambine e bambini lavorano per alcune ditte subappaltatrici delle marche più prestigiose e stimate della produzione globale.
La realtà mi pare più complessa anche se si emerge da questi sottoscala (che comunque non sono affatto un residuo e anzi, sembrano la "faccia nascosta della luna" dello sviluppo capitalista) per osservare ciò che succede nei luoghi alti ed eleganti della produzione.
In questi luoghi, la subordinazione ha - in alcuni casi - effettivamente cambiato configurazione.
Le direzioni aziendali hanno scoperto che la cooperazione e la comunicazione orizzontale tra i lavoratori, possedevano potenziali di produttività che, se liberati dal peso della rigida disciplina gerarchica, potevano costituire una carta vincente nella competizione globale.
La prescrizione rigida e predefinita di ogni singola fase del processo produttivo è diventata - specie in alcuni settori - un ostacolo all'innovazione e alla qualità.
Gli organigrammi aziendali hanno potuto snellirsi di numerosi livelli intermedi adibiti al controllo verticale sui lavoratori, adibendo de facto tale funzione alla stessa integrazione reticolare dei lavoratori.
Il collante di tale operazione complessa è stato lo sviluppo di una cultura aziendalista sia all'interno delle imprese, sia all'interno della società.
L'Impresa ha consentito il dispiegarsi del potenziale creativo, comunicativo, cooperativo, relazionale e pluriforme dei lavoratori, a condizione che ciò avvenisse all'interno di uno schema di valori ideologici e culturali che fosse saldamente ancorato all'interesse delle imprese per il profitto.
È stata - e per molti versi è ancora - una partita cruciale per le trasformazioni in corso, in cui i mondi dell'industria della comunicazione, della produzione culturale, della riproduzione dei saperi (istruzione, formazione e ricerca) sono stati ampiamente mobilitati e hanno avuto un'importanza strategica cruciale.
L'immaginario collettivo fondato dall'egemonia dell'impresa sulla società ha costituito il rigido, opprimente ed invalicabile recinto all'interno del quale paradossalmente sono diventate possibili le libertà e le autonomie relative degli uomini e delle donne al lavoro.
Peraltro, nel momento stesso in cui queste autonomie sono diventate possibili, una volta liberate dal peso della gerarchia verticale, il lavoro ha straripato gli argini che, nel paradigma precedente erano rigidamente segnati dall'orario di lavoro, per inondare ogni aspetto della vita privata, sociale e relazionale.
Nel momento in cui il capitale ha consentito che la creatività dei lavoratori potesse essere vista come un'attività ad alto valore aggiunto, ha reso tale creatività un elemento obbligatorio, costantemente al servizio dell'impresa.
Le forme di autosfruttamento sempre più socialmente tipiche di tanta parte del mondo del lavoro (portarsi il lavoro a casa, la sera, la notte, nei weekend; occupare il proprio tempo libero per leggere libri, relazioni, documenti che possano essere utili al proprio lavoro; riflettere, fuori dagli orari "di ufficio" sulle decisioni da prendere, sulle soluzioni da trovare; essere costantemente reperibili mediante il telefono cellulare o la posta elettronica; "non staccare mai la spina"), costituiscono ad un tempo, il completamento ultimo di tale interiorizzazione della subordinazione, e la dimostrazione più chiara del suo funzionamento.
Il lavoro - e i meccanismi di controllo che gli sono connessi - è diventato biopolitico; un tempo ai lavoratori si chiedeva il loro sudore… oggi gli si chiede l'anima. Il salto dal punto di vista qualitativo è talmente profondo che è impossibile dire quali delle due situazioni sia preferibile. Il sudore e l'anima sono due "grandezze" incommensurabili. Impossibile farne una comparazione oggettiva.
Dipendenza economica
L'imposizione subdola di una cultura e di un'ideologia egemonica (sintetizzata in maniera esemplare dalla seconda epigrafe con cui ho aperto questo articolo), strettamente legate all'interesse dell'Impresa, non è stata tuttavia l'unico strumento che ha consentito al capitale il salto di paradigma di cui si sta ragionando.
Il salto di paradigma è stato caratterizzato da un consistente e incessante assalto alle garanzie e alla sicurezza relativa del reddito dei lavoratori salariati.
Guardando un attimo al quadro italiano, è necessario rilevare come la vicenda terribile (per la violenza dell'attacco governativo) e appassionante (per la forza della resistenza delle lavoratrici e dei lavoratori) della controriforma dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, sia una tappa ulteriore di un percorso che negli ultimi anni ha visto l'erosione costante dei diritti dei lavoratori, in un processo i cui responsabili sono stati i governi della sinistra moderata quanto quelli della destra, i dirigenti dei sindacati dei lavoratori quanto quelli delle organizzazioni padronali.
L'esito - ancora provvisorio - di questa operazione è una forte dipendenza del reddito vitale dei lavoratori dalle vicende di un mercato sempre più selvaggio.
Tale dipendenza riguarda tanti lavoratori sottoposti a contratto di lavoro dipendente in forma atipica (contratto a termine, lavoro interinale, contratto formazione e lavoro ecc.), ma riguarda anche - e spesso di più - tanti lavoratori autonomi, che lavorano per un unico committente da cui finiscono per dipendere economicamente senza alcun tipo di tutela o di garanzia del reddito.
La dipendenza economica ha finito per rinforzare il collante ideologico di cui si è detto, agendo come arma di ricatto onnipresente, e contribuendo non solo all'aumento del senso di insicurezza del proprio lavoro, ma anche all'espropriazione della titolarità nella costruzione di uno statuto professionale.
Quest'ultima espropriazione - fonte di evidenti contraddizioni -è evidente soprattutto nel mondo del cosiddetto "lavoro autonomo dipendente".
Il punto di equilibrio
Giunti a questo punto, è possibile dire che, visto il problema dal lato del capitale, le ancore che stabilizzano il nuovo paradigma produttivo e ne evitano la "deriva", sono costituite da una forte ideologia di Impresa che ristruttura la gerarchia, il controllo e il potere in azienda, e da una crescente dipendenza economica che costituisce, in quanto arma di ricatto, il collante che chiude il cerchio da possibili fughe.
A seconda dei casi, e di una serie di fattori, il mix di subordinazione gerarchica e di dipendenza economica viene adattato alle circostanze intensificando o alleggerendo l'uno o l'altro.
La molteplicità di forme contrattuali con cui si lega un lavoratore subordinato o autonomo, ad un'impresa; la molteplicità delle modalità con cui si mobilizzano le donne e gli uomini al lavoro, non sono altro che le molteplici forme giuridiche che consentono le molteplici combinazioni tra questi due elementi fondamentali.
Se questo è il punto di equilibrio trovato dal capitale, non bisogna tuttavia pensare che tale punto di equilibrio sia stabile e inamovibile.
Anzi, a ben guardare, questa situazione è colma di contraddizioni.
La pretesa egemonica dell'ideologia di Impresa richiede nelle sue versioni più mature, l'invasione dell'azienda in tutti gli spazi della vita privata e sociale degli individui.
La liberazione della creatività del lavoro, fonte potenziale di ingenti guadagni di produttività, non è solo consentita, ma è addirittura pretesa, imposta in verticale dalle direzioni aziendali e in orizzontale dalla concorrenza e dal reciproco controllo reticolare dei lavoratori.
A ben guardare si tratta di una liberazione relativa e addirittura finta.
Tale creatività, per come è immaginata dalla cultura egemonica, trova il proprio senso, il proprio principio e il proprio fine, nell'interesse dell'Impresa. Il potenziale creativo, relazionale, comunicativo, cooperativo dei soggetti, deve dispiegarsi dentro un quadro di valori predefinito e preconfezionato dal potere manageriale.
Non è difficile accorgersi di quanto, in tal modo, tale creatività sia totalmente svilita.
Se il lavoro per l'azienda, l'azienda stessa, straripa nella vita delle donne e degli uomini, se la vita, con le sue passioni, con i suoi desideri diventa una variabile dipendente dall'interesse dell'azienda, la liberazione della creatività come fattore produttivo diventa un mero "gadget psicologico […] delle imprese" per riprendere il pezzo di Marcuse già citato in epigrafe.
Al contrario se questo potenziale continua ad essere incoraggiato e stimolato - e si presume che sarà così almeno nelle attività ad alta intensità di lavoro, dove forte è la presenza di lavoro immateriale - si potrebbero aprire possibilità di contraddizione talmente forti da poter rendere attuale la partita della rottura delle ancore che impediscono al capitale la propria deriva.
Ovviamente, bisogna rifuggire da ogni determinismo stupidamente ottimistico. Non siamo di fronte ad un processo che ci condurrà in un viaggio confortevole e lineare, verso la "terra promessa" della liberazione dallo sfruttamento capitalista.
Siamo piuttosto dentro uno spazio incerto, all'interno del quale si aprono delle possibilità di conflitto che bisognerà saper cogliere, e dove la maggior parte delle "partite" devono essere ancora giocate, sapendo comunque che non saranno mai giocate una volta per tutte, e dove la nostra volontà di liberazione e la nostra volontà di assumersene la responsabilità, saranno elementi determinanti.
Diversi sono i luoghi dove si dovranno giocare queste "partite": i luoghi della produzione, ovviamente, e quindi la fabbrica, gli uffici, i laboratori ecc.; essenziali saranno anche i luoghi della produzione dei saperi e della cultura, le scuole, le università, i centri di ricerca, ecc.; importanti e strategici saranno infine i luoghi della produzione della comunicazione e dell'informazione.
Tuttavia non bisogna dimenticare che il secondo elemento di collante del sistema, la seconda "ancora" utilizzata dal capitale, è il ricatto della dipendenza economica.
Questo tema ripropone la sfida per un reddito universale di cittadinanza.
Da un punto di vista strettamente economico si tratta di una proposta racchiudibile sinteticamente dentro lo schema del riformismo radicale.
Da un punto di vista diverso però, guardandola nel contesto delle occasioni di lotta che può liberare, questa proposta va oltre il riformismo.
La sua forza, è rappresentata, già in prima battuta, dalla sua capacità di rappresentare gli interessi materiali di soggetti diversi, ricomponendone l'estrema disgregazione prodotta dall'offensiva liberista.
I disoccupati, i sotto-occupati, i lavoratori salariati tradizionali, i lavoratori precari, flessibili, atipici, i lavoratori autonomi, possono trovare, in questa battaglia, un terreno di interesse comune.
Liberare ciascuno di questi soggetti dal ricatto aziendale di dover comunque portare a casa un livello di reddito adeguato al soddisfacimento dei bisogni vitali, può significare, in una specie di "effetto domino", la possibilità di fondare uno statuto professionale autonomo, determinato e costruito dal soggetto stesso e non dalla sua controparte datoriale.
Questo può aprire, a sua volta, la possibilità di liberare realmente il potenziale di creatività e di autonomia delle donne e degli uomini, diventando un'arma potentissima contro le gerarchie capitaliste.
L'autunno
È questo - secondo me - lo scenario in cui si dovranno inserire le lotte di questo autunno che è alle porte.
La difesa dell'articolo 18 è sicuramente una necessità irrinunciabile.
Ma altrettanto irrinunciabile è la capacità del movimento di andare oltre la lotta difensiva.
In occasione dello sciopero generale dello scorso aprile, si è parlato della necessità di generalizzare lo sciopero e le lotte a tutto il mondo del lavoro - nelle sue forme plurali- e del non-lavoro.
Quest'esigenza è ancora - secondo me - totalmente aperta.
Il compromesso fordista, modellato sul modello del lavoro salariato, era basato sullo scambio tra subordinazione e sicurezza. Il lavoratore vendeva la propria libertà, la propria autonomia, subordinandosi all'impresa, ricevendone in cambio un posto di lavoro stabile che gli offriva una certa, relativa, sicurezza economica.
Per quanto la progressiva generalizzazione dell'insicurezza ci possano portare a vivere con nostalgia questo compromesso, è necessario ribadire che le lotte delle moltitudini dovranno rifiutare qualsiasi scambio fondato sulla rinuncia alla libertà.
In questo senso le lotte non potranno limitarsi a difendere un passato glorioso che, nella realtà, glorioso non è mai stato, ma dovranno saper colpire nei gangli vitali, biopolitici, dell'avversario.
È questo - a mio giudizio - l'unico livello di conflitto adeguato alla fase storica che stiamo vivendo.
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settembre - dicembre 2002 |