Introduzione.
Con questo documento ci proponiamo di tracciare una sintesi storica, nonché un bilancio sociale del decennio concertativo. Non intendiamo con questo, ovviamente, sostituirci al lavoro di competenza dei sindacati dei lavoratori. Tuttavia non vogliamo nemmeno rinunciare ad una riflessione approfondita e, per quanto possibile, documentata, su un decennio (1992-2001) che ha cambiato in maniera profonda il mondo del lavoro nel nostro Paese, incidendo in maniera rilevante sull'esistenza di decine di milioni di donne e di uomini.
Il punto di vista che assumiamo come nostro nello stilare questo bilancio storico e sociale, è quello delle lavoratrici e dei lavoratori.
Il nostro punto di partenza, coerente con la posizione del movimento mondiale dei Forum Sociali e con i lavori di Porto Alegre, è il rifiuto pieno del neo-liberismo, in tutte le sue differenti forme, articolazioni e manifestazioni concrete. Intendiamo in questo modo proseguire nel percorso di costruzione di "un mondo diverso", nel quale ci sentiamo interamente coinvolti e del quale ci sentiamo pienamente protagonisti.
L'ultimo decennio, ha rappresentato un'accelerazione particolarmente spinta di una fase di transizione di marca neo-liberista, che ha coinvolto l'organizzazione della produzione italiana.
Le riflessioni che abbiamo condotto in questi mesi, ci hanno portato a rilevare come, in materia di neo-liberismo, esistano degli equivoci possibili attorno alla sua reale configurazione. Non ci convince l'idea che vede nel neo-liberismo unicamente il trionfo della dimensione economica sulla dimensione politica e di governo. In realtà, la globalizzazione capitalista ha nel proprio codice genetico azioni pesanti di governo politico del mondo.
Nella retorica neo-liberista l'economia sarebbe governata da una sorta di mano invisibile. In realtà, la mano è non solo visibilissima, ma persino pesante. La guerra, la repressione poliziesca, i controlli alle frontiere contro l'immigrazione, gli accordi trans-nazionali, la produzione giuridica globale, così come quella nazionale e territoriale, dimostrano l'esistenza di una politica di governo autonoma ma pur sempre coerente con le richieste dell'economia capitalista.
Persino le esperienze di "deregulation" più pure, come quelle dell'ex primo ministro britannico Margaret Thatcher, non hanno potuto fare a meno -per apparente paradosso- di una corposa produzione normativa e di regolamentazione giuridica.
È per questa ragione che troviamo non corrispondente alla realtà una lettura che vede una sorta di incompatibilità a priori tra neo-liberismo e governo concertato dell'economia e delle "riforme".
Questa lettura, tendente ad operare una distinzione marcata tra un liberismo radicale ed un liberismo temperato, ci appare inconsapevole dell'articolazione e della varietà degli strumenti di governance, su cui le classi dirigenti hanno da sempre potuto (e saputo) contare.
Ci concentreremo innanzitutto su due accordi chiave della concertazione in Italia, quello del '92 e quello del '93, di cui tracceremo specificamente un profilo storico e un bilancio sociale, per poi continuare nella sintesi storico-politica del periodo. Intendiamo infine tracciare un bilancio complessivo della concertazione per l'intero decennio. La questione previdenziale merita un capitolo a sé.
1. L'accordo del '92.
1.a. La sintesi storica.
L'accordo intervenuto nel luglio 1993 tra governo Ciampi, Confindustria e Confederazioni sindacali introduce nelle relazioni sindacali il metodo della concertazione, che prevede che le scelte di politica economica e del lavoro vengano preventivamente negoziate dalle parti sociali con il governo.
Questa innovazione segue ad una vicenda, a dir poco drammatica, intervenuta l'anno precedente, che aveva portato al famoso accordo del 31 lugliò92, e che era culminata nelle lotte e negli scioperi del settembre-ottobre di quell'anno.
Per la verità, a voler definire con precisione una data di inizio delle politiche concertative in Italia, bisognerebbe risalire ancora più indietro negli anni, partendo addirittura da un Protocollo d'intesa del 1983 (il c.d. Accordo Scotti). Lo stesso accordo del '92 fa riferimento ad altri accordi, che gli sono stati in qualche modo propedeutici. Tuttavia non vi è dubbio che è dal '92 -e più ancora dall'anno successivo- che la concertazione assume una forma organica, strutturata e in qualche modo formalizzata. Per questo motivo iniziamo la nostra ricostruzione da questa vicenda.
Il 31 luglio 1992, nell'immediata vigilia della chiusura delle fabbriche per le ferie estive, la Cgil si convince a firmare, insieme con le altre due Confederazioni, un accordo che prevede la completa eliminazione della scala mobile e la sospensione, fino al 31 dicembre 1993, della contrattazione articolata. La logica di questa intesa è quella di scaricare sui lavoratori il peso della grave crisi del paese, segnata da un altissimo e crescente debito pubblico e da preoccupanti processi inflattivi, e di far pagare loro i costi imposti dal Patto di Stabilità previsto dal recente trattato di Maastricht. Il segretario generale della Cgil si decide a firmare sotto il ricatto delle minacciate dimissioni del governo del socialista Amato, e sotto la minaccia di una spaccatura interna, prospettata apertamente da Ottaviano Del Turco, vicesegretario generale della Confederazione per conto della componente socialista. Così recita un comunicato della segreteria Cgil: "La decisione di siglare l'accordo è stata presa a causa della preoccupazione per la gravissima situazione economica e finanziaria del paese, dei possibili pericoli di destabilizzazione politica e per l'esigenza di evitare rotture tra le confederazioni sindacali in una fase come l'attuale". Ad aggravare la situazione interviene la decisione a maggioranza del Direttivo Cgil del 3 settembre 1992, di non sottoporre l'accordo alla consultazione vincolante dei lavoratori, e di limitarsi ad "una campagna di consultazione con gli iscritti e i lavoratori che vorranno partecipare".
Nei giorni successivi, la svalutazione della moneta decisa dal governo lascia prevedere un rialzo dei prezzi e una conseguente ulteriore diminuzione del salario reale. Addirittura il 17 settembre il governo decide una manovra economica che prevede il blocco dei pensionamenti per anzianità, la sospensione per tutto il 1993 dell'aggancio delle pensioni alle retribuzioni, il blocco della contrattazione nel Pubblico Impiego fino al 31 dicembre 1993.
La situazione si fa incandescente. I sindacati non possono non indire gli scioperi che, del resto, partono spontaneamente in tutto il Paese; l'adesione è altissima, ma la protesta si ritorce contro i sindacati, accusati di avere aperto la strada al tatcherismo di Amato con la firma del 31 luglio. Il 22 settembre Trentin viene contestato duramente a Firenze: contro il palco di Piazza Santa Croce volano uova, ortaggi e bulloni. Nei giorni successivi situazioni simili si rinnovano a Torino, Milano, Napoli e Roma. Il 13 ottobre è il giorno dello sciopero generale dell'industria e dei trasporti, mentre nelle settimane successive partono scioperi indetti dall'autoconvocazione degli organismi sindacali di base. Era da dieci anni che non si assisteva ad un movimento di lotta di tali dimensioni, un movimento destinato, però, ad uscire sconfitto da un governo inflessibile e da una dirigenza sindacale indisponibile ad accollarsi la responsabilità di una crisi di governo.
Sono queste le vicende che convincono le centrali sindacali ad inaugurare la stagione concertativa.
1.b. Il bilancio sociale.
L'obiettivo principale dell'accordo del '92 è la lotta all'inflazione, non solo al fine di "riconvergere verso i parametri del trattato di Maastricht", ma anche - e soprattutto - di "salvare le nostre potenzialità di sviluppo e non cadere in una spirale incontrollabile che metterebbe a repentaglio [….] le prospettive di sicurezza economica di larga parte della comunità nazionale".
Tralasciando ogni ragionamento sull'accettazione acritica e "dogmatica" dei contenuti radicalmente liberisti dei c.d. parametri di Maastricht, vogliamo concentrarci brevemente sul tema del contenimento e della progressiva riduzione dell'inflazione.
Non si vuole qui negare il valore -anche nella vita delle lavoratrici e dei lavoratori- di tale rilevantissimo tema. Ottenere bassi livelli di inflazione è un obiettivo importante (certo non l'unico) per tutti i cittadini, anche se non bisogna negare neanche che un'inflazione a livelli un pòpiù alti, purché non elevatissimi, può essere segnale di una positiva dinamica della situazione economica.
Tuttavia, per semplicità, e tralasciando una non inutile discussione sugli effetti perversi che hanno avuto nell'economia italiana le politiche anti-inflazionistiche degli annì90, potremmo considerare un basso livello di inflazione (tenendo fermi tutti gli altri parametri dell'economia) come una sorta di bene pubblico, al pari dell'elettricità, del gas, dell'acqua potabile, della manutenzione delle strade ecc. Di pari passo al godimento del bene pubblico però, i cittadini dovrebbero anche sopportarne i costi, seguendo un principio di giustizia redistributiva, ovvero - per dirla in maniera un pò lapidaria- "ognuno secondo le proprie capacità".
Il che è come dire, l'esatto contrario di quello che è avvenuto. Il Protocollo del '92 prevede infatti il definitivo abbandono di ogni forma di protezione delle retribuzioni rispetto all'inflazione, attraverso l'abolizione della c.d. scala mobile. È questo l'aspetto centrale dell'accordo, che avrà come effetto diretto, negli anni successivi, un progressivo sgretolamento del potere d'acquisto di salari e stipendi.
A ciò si aggiunge l'impegno a tenere fredde le dinamiche retributive facenti seguito alla contrattazione collettiva. Quest'ultimo punto si svilupperà maggiormente nell'accordo dell'anno successivo.
In pratica, l'obiettivo della riduzione dell'inflazione viene pesantemente pagato dalle lavoratrici e dai lavoratori. E saranno gli unici a pagarlo.
Da parte sua, il Governo assume su di sé alcune responsabilità per portare il proprio contributo alla lotta all'inflazione. I capitoli di questo contributo sono riassumibili essenzialmente in tre: 1) congelamento delle retribuzioni nel pubblico impiego; 2) congelamento di prezzi e tariffe; 3) recupero dell'evasione fiscale.
Come si vede, il primo punto è un ulteriore elemento di svantaggio per il mondo del lavoro, gli altri due sono stati semplicemente disattesi, senza che ciò abbia comportato, da parte delle associazioni sindacali firmatarie, la denuncia dell'accordo e la conseguente ripresa di azioni di lotta e di conflitto.
2. L'accordo del 23 luglio 1993.
2.a. La sintesi storica.
Dopo l'accordo del '92, arriva, l'anno successivo, il "Protocollo sulla politica dei redditi e dell'occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo" del 23 luglio 1993.
L'accordo del '93, concertato col governo Ciampi -ministro del lavoro Gino Giugni- e con Confindustria, rappresenta una vera e propria carta costituzionale delle relazioni industriali, la "magna charta" della concertazione in Italia.
Esso interviene sulla struttura contrattuale attraverso:
· la predeterminazione concertata degli accordi salariali sulla base dell'inflazione programmata, in effetti sempre inferiore all'inflazione reale;
· la limitazione della contrattazione articolata che è mantenuta, ma viene condizionata alla produttività e competitività dell'impresa, di cui viene riconosciuto implicitamente il primato. È previsto, inoltre, che il salario aziendale non venga caricato di oneri contributivi, il che infirma la sua stessa natura di salario;
· l'allargamento della precarietà del lavoro e la disponibilità ad una legiferazione che stabilisca nuove forme di contratto, come il lavoro interinale.
Quanto al sistema pensionistico, l'accordo prevede l'avvio ad una legge di riforma che segni il passaggio dall'attuale regime retributivo ad un regime contributivo.
L'ispirazione che sembra animare questo accordo tradisce una mortificazione dell'autonomia contrattuale del sindacato e delle diverse categorie di lavoratori.
Mentre il direttivo Cgil approva con il 75% dei voti l'accordo, non senza contrasti anche assai significativi che travalicano i confini di Essere Sindacato (la componente di minoranza), viene decisa una consultazione destinata a realizzarsi in modo assai limitato; saranno infatti chiamati al voto soltanto 3.700.000 lavoratori su una platea di 16.000.000. Dei votanti (1.300.000) i Sì saranno il 73%, i No il 27% destinati a toccare, tra i metalmeccanici, il 38%; in Lombardia i No avranno la maggioranza (51%). 2.b. Il bilancio sociale.
L'incidenza di questo accordo sulle retribuzioni riguarda gli elementi qualitativi non meno che quelli quantitativi, e subisce gli assetti contrattuali per come vengono immaginati dall'accordo stesso.
Per chiarire questo punto occorre partire da una fotografia su come cambiano, con l'accordo del '93, gli assetti contrattuali in Italia.
L'accordo prevede tre livelli, e non già due come a volte si sostiene.
· Un primo livello interconfederale nazionale nel quale le dinamiche retributive, e le rivendicazioni salariali dei lavoratori vengono ancorate (e quindi, ovviamente, limitate) alle decisioni che il Governo prende col Documento di programmazione economica e finanziaria (Dpef) e con la legge finanziaria.
· Un secondo livello nazionale di categoria (quello del Contratto collettivo nazionale di lavoro - CCNL) nel quale si contratta una parte normativa (ogni quattro anni) ed una retributiva (ogni due anni).
· Un terzo livello aziendale o territoriale che definisce le variabili salariali legate alla produttività e alla redditività a livello aziendale, oltre che quanto concerne l'organizzazione del lavoro, la salute e la sicurezza in azienda ecc.
Questo assetto contrattuale si struttura ribaltando interamente la logica che, sul finire degli annì60, aveva visto la nascita dei consigli di fabbrica, i quali ebbero un ruolo determinante nell'ampliamento conflittuale della democrazia nei luoghi di lavoro e -per restare al tema di cui si sta ragionando- nel miglioramento delle retribuzioni delle lavoratrici e dei lavoratori.
Allora la contrattazione in azienda, da parte dei consigli si svolgeva nell'ambito dell'inderogabilità in peius di quanto stabilito dai livelli superiori; oggi vale, nella sostanza, una sorta di inderogabilità in melius. In altri termini, allora ogni livello costituiva una base su cui costruire nei livelli successivi, oggi costituisce un tetto entro cui contenersi.
Un triste cambio di prospettiva.
Se questa è la fotografia di partenza che ci offre l'accordo del '93, vediamo ora cosa questo accordo ha comportato concretamente.
I dati, da un punto di vista quantitativo, parlano chiaro.
Le retribuzioni reali italiane sono in caduta libera da un decennio, la distribuzione della ricchezza tra lavoro e capitale non è mai stata - nel dopoguerra - così svantaggiosa per il lavoro come è ora, gli aumenti di produttività delle lavoratrici e dei lavoratori italiani, oltre ad avere effetti negativi sull'occupazione, creano ricchezza che va interamente a vantaggio delle imprese, senza che il lavoro (che tale ricchezza ha prodotto o, per lo meno, ha contribuito a produrre) possa, in alcun modo, avvantaggiarsene.
Non meno interessanti sono i dati che ci illuminano gli aspetti qualitativi degli effetti dell'accordo del '93 sulle retribuzioni italiane. Si assiste innanzitutto ad un consistente scarto tra salari contrattuali e salari di fatto. Per alcune categorie (p.es. vetro, come si vede nella tabella che segue) il contratto nazionale incide per meno del 70% sui salari delle qualifiche operaie e meno del 50% su quelli degli impiegati. Lo scarto è colmato da erogazioni discrezionali dell'azienda sia attraverso i superminimi, sia attraverso premi individuali per i dipendenti più docili. Quindi, dal punto di vista qualitativo, si rileva l'aumento della parte della retribuzione liberamente gestita dal datore di lavoro come strumento di potere in azienda. Certamente è questo un dato sul quale il sindacato dovrebbe interrogarsi anche ai fini della propria mera autoconservazione.
Tabella 1: COMPOSIZIONE MEDIA DEL SALARIO PER IL CAMPIONE NEL 1997 (comparto vetro) |
LIVELLO |
Paga base, anzianità, contingenza residua |
Retribuzione definita con la contrattazione di 2° livello |
Elemento residuo (slittamento e altra contratt.) |
1 |
|
|
|
2 |
74.2% |
10.7% |
15.1% |
3 |
73.4% |
11.0% |
15.6% |
4 |
70.1% |
10.9% |
19.0% |
5 |
67.9% |
9.1% |
23.0% |
5a |
77.8% |
8.1% |
14.1% |
6 |
61.7% |
5.3% |
33.0% |
6a |
64.5% |
8.6% |
26.9% |
7 |
59.7% |
8.3% |
32.0% |
8 |
50.4% |
7.1% |
42.5% |
Fonte: A. Scacchi, Un bilancio del protocollo del 23 luglio e della concertazione. |
Da un punto di vista più generale, c'è da dire che l'accordo del '93 ha provocato un peggioramento per quantità e qualità delle condizioni del mondo del lavoro, anche da un punto di vista retributivo.
Il fatto che una poderosa redistribuzione della ricchezza a vantaggio delle imprese e contro il lavoro si sia potuto verificare in una situazione di bassa conflittualità sindacale, e addirittura attraverso un percorso concertato con le organizzazioni confederali, richiederebbe, già di per sé, una riflessione approfondita e rigorosa.
3. Gli anni del centro-sinistra.
La vittoria del centro-destra alle elezioni politiche del 1994 provoca un'interruzione della politica concertativa, praticabile, evidentemente, soltanto con un governo "amico".
3.a. Il governo Prodi.
Durante il 1996, dopo la vittoria elettorale del centro-sinistra e, dunque, la formazione del governo "amico" di Prodi, l'evento concertativo più importante è il Patto per il lavoro siglato trilateralmente il 24 settembre (di cui parleremo più avanti).
Qualche settimana prima di questa pattuizione si era sottoscritto da parte di Cgil, Cisl, Uil, un accordo trilaterale che suonava come una sorta di riedizione delle gabbie salariai, con l'istituzionalizzazione di aree geografiche a salario più basso (25, 30% in meno rispetto ai contratti nazionali), prevalentemente dislocate nel Sud, in evidente contraddizione con l'art. 36 della Costituzione.
Questo accordo aveva dato luogo ad una guerra di interpretazioni diverse, che avevano visto Cisl e Confindustria contro la Cgil. Sta di fatto che con questi accordi, a cominciare dal Patto per il lavoro, si cominciava ad insidiare, sia pur indirettamente, la validità e la stessa sopravvivenza dei contratti nazionali.
Il 1997 è l'anno della prima crisi del governo Prodi. Inizia a febbraio con la stipula del contratto dei metalmeccanici che vede un'applicazione peggiorativa dell'accordo con Ciampi del luglio 1993: infatti, vi si legge che il salario acquisito attraverso la contrattazione articolata dev'essere legato "esclusivamente" agli indici di produttività e competitività delle aziende, dove quell'avverbio rappresenta una novità rispetto al 1993. Quanto al Trattamento di fine rapporto (TFR) si stabilisce che la tredicesima dovrà essere esclusa dai calcoli del TFR stesso.
Nel marzo passa in Parlamento il pacchetto Treu, secondo quanto accordato dalle parti sociali nel Patto per il lavoro dell'anno precedente. Oltre al lavoro interinale, passano i contratti a termine e di formazione lavoro.
Nella notte tra il due e tre Ottobre, in piena crisi dei rapporti tra governo Prodi e Rifondazione comunista (che si sarebbe risolta con un compromesso dell'ultimo minuto), il direttivo Cgil, su richiesta del segretario generale Sergio Cofferati, e contravvenendo al principio dell'autonomia del sindacato solennemente ribadito durante il congresso di Rimini del luglio 1996, sacrifica al salvataggio del quadro politico le istanze sindacali, dichiarandosi a maggioranza disponibile a trattare sul rallentamento previsto dal governo delle pensioni di anzianità, ed esprimendo un giudizio positivo sulla Finanziaria proposta. Significativo che, a giustificazione di questo orientamento, si dica apertamente nel documento approvato che è necessario salvare il rapporto tra deficit e Pil, secondo quanto richiesto da Maastricht. Inutilmente il segretario generale della Fiom Sabbatini presenta un documento che chiede di rifiutare i tagli previsti alla spesa sociale e di tenere sulle pensioni di anzianità, e propone di richiedere piuttosto interventi sull'evasione fiscale e su altri capitoli utili a risparmiare sulla spesa. È da ricordare che Cofferati si era incontrato precedentemente, insieme al segretario generale della Cisl D'Antoni, con esponenti di primo piano dei partiti del centro-sinistra, ed aveva espresso sui giornali un duro commento sulla posizione di Rifondazione comunista.
3.b. La concertazione: da metodo di contrattazione a valore in sé.
I sindacati,in particolare la Cisl, non avevano gradito l'accordo di Prodi con Rifondazione comunista sulla traduzione in legge delle 35 ore, un pò per essersi sentiti scavalcati da Bertinotti, e soprattutto perché, in questo d'accordo con Confindustria, ritenevano che la riduzione d'orario dovesse essere lasciata alla libera contrattazione delle parti sociali. In tal modo, però, si oscurava il fatto che i diritti individuali e sociali dei lavoratori (e l'orario attiene, certamente, a questi) non possono venir lasciati soltanto al terreno della concertazione, escludendo o lasciando in secondo piano le autonome competenze del potere legislativo. Si nascondeva in questa problematica la tendenza, emergente ora anche nella Cgil, a trasformare la concertazione da semplice metodo di contrattazione sui contenuti della politica economica e del lavoro dei governi, in un "valore in sé" come sempre era stata intesa dalla Cisl, e, come tale, principio della politica economica includente anche i diritti delle persone e i diritti sociali, al punto di marginalizzare la politica in un ruolo di pura sussidiarietà, e di avviare così l'istituzionalizzazione dei sindacati.
Questa trasformazione della concertazione in un valore in sé doveva emergere nel settembre del 1998, allorché alla vigilia della seconda e definitiva crisi del governo Prodi, gli incontri triangolari Governo-Sindacati-Confindustria sulla verifica dell'accordo Ciampi del 1993 su strutture contrattuali e politica dei redditi, evidenziano la tendenza ad un'appropriazione da parte delle parti sociali di competenze che appartengono alle istituzioni dello Stato.
3.c. Il governo D'Alema.
Il 1999 è un anno che vede una scarsa dinamica dei rapporti sindacali, anche perché la guerra del Kossovo (che fa registrare una grave caduta di autonomia della Cgil, che la definisce una "contingente necessità") non lascia molto spazio alle problematiche sociali. Da ricordare la levata di scudi dei sindacati nei confronti del Dpef approntato dal governo D'Alema che prevede una rimessa in discussione dell'accordo sulle pensioni (di cui parleremo più avanti) e un taglio difficilmente sopportabile delle spese sociali (circa 16.000 miliardi). Di fronte a questa reazione sindacale, D'Alema mitiga alquanto la prima formulazione, rinunciando a mettere in campo le pensioni e i tagli prevalentemente concentrati sulla spesa sociale. Del resto la Finanziaria del governo presentata nell'ottobre risulta essere una Finanziaria piccola piccola, per la prima volta non destinata a produrre lacrime e sangue. Il che, nonostante l'approvazione da parte della Cgil, ne rivela anche l'inadeguatezza: nulla, infatti, essa contiene che valga ad intervenire sulla disoccupazione, sulle protezioni sociali, sul fisco.
4. Le pensioni.
Oltre all'intervento sulle pensioni del governo Amato nel settembre del 1992 (blocco dei pensionamenti per anzianità e sospensione dell'aggancio delle pensioni alle retribuzioni), e al passaggio al sistema contributivo siglato dall'accordo del '93, di cui abbiamo già parlato, gli anni della concertazione hanno visto altri importanti accordi in materia pensionistica, che hanno profondamente cambiato il sistema previdenziale del Paese.
Nel 1994 la proposta del governo Berlusconi di riforma delle pensioni scatena nei sindacati e nel Paese un'opposizione imponente, culminata nella manifestazione nazionale del 12 novembre 1994, che vede a Roma più di un milione di lavoratori e pensionati. In effetti, si tratta di un progetto di riforma che riduce di molto la misura delle pensioni: attraverso la riduzione dell'aliquota di liquidazione dal 2% all'1,5%, le pensioni, dopo quarant'anni di lavoro, vengono ridotte dall'80% della media dei salari e degli stipendi al 60%. Si prevede, inoltre, il trasferimento del TFR su fondi pensione obbligatori, mentre si pensa di innalzare l'età pensionabile a 65 anni per gli uomini ed a 60 anni per le donne. Quanto alle pensioni di anzianità, ne è prevista una diminuzione del 3% per ogni anno che separi da quell'età pensionabile il lavoratore che decida di lasciare. Infine, si stabilisce il blocco della contingenza sulle pensioni in corso per tutto il 1995, con la decisione di collegarla successivamente con l'inflazione programmata.
Com'è noto, la caduta del governo Berlusconi doveva far cadere questo progetto di riforma. Il governo di transizione, guidato dall'autore di detto progetto, l'ex-ministro Lamberto Dini, riesce a portare a compimento una riforma delle pensioni che viene sottoscritta da Cgil, Cisl, Uil e contestata, invece, da Confindustria. Si tratta di una riforma, destinata ad andare a regime nel 2013, che rallenta i tempi della sua attuazione, soprattutto per quanto riguarda le pensioni di anzianità, di cui si prevede un'abolizione progressiva, destinata a compiersi nel 2008.
Ciò che rimane fermo è il passaggio al sistema contributivo, ma anche qui esso viene previsto per i lavoratori che abbiano al momento meno di diciotto anni di anzianità. È da notare che l'abbandono del sistema "a ripartizione" in favore di un sistema "a capitalizzazione" rappresenta l'annullamento del vincolo solidaristico tra le diverse generazioni di lavoratori, a vantaggio di una logica che fa del trattamento pensionistico un affare puramente privato, che riguarda ogni singolo lavoratore isolato dal contesto di classe. Sono previste, naturalmente, le pensioni integrative private.
La riforma, infine, stabilisce che si possa andare in pensione tra i 57 e i 65 anni, oppure, indipendentemente dall'età anagrafica, con 40 anni di contribuzione. Solo chi andrà in pensione con almeno 37 anni di lavoro e 62 anni di età avrà prestazioni eguali a quelle previste finora.
Non va dimenticato, ai fini di una valutazione di questa riforma, che, al momento della sua approvazione, i salari italiani sono al minimo storico degli ultimi decenni, a fronte di una produttività crescente e di profitti alle stelle, mentre l'inflazione è in crescita.
Il referendum indetto dalle Confederazioni sindacali, cui vengono chiamati anche i pensionati, ha come esito il 65% di Sì ed il 35% di No. È da dire, però, che nelle grandi fabbriche del Nord prevalgono i No (Mirafiori 68%, Olivetti 60%, industrie milanesi 54%); in Toscana, soltanto al Nuovo Pignone e alla Zanussi prevale il Sì, mentre alle acciaierie di Piombino, alla Breda di Pistoia, alla Pirelli di Figline, alla Piaggio di Pontedera, vince il No. Vasto è il dissenso nelle categorie del pubblico impiego: tra i dipendenti pubblici del Lazio, tra i dipendenti dei comuni di Milano e di Roma prevale il No. All'affermazione complessiva del Sì contribuisce fortemente il voto dei pensionati che, a grandissima maggioranza, approvano la riforma.
Nell'autunno del 1997, risolta la prima crisi del governo Prodi, si va ad una ripresa della trattativa sindacale col governo sulle pensioni e sulla riforma dello Stato sociale. Il primo novembre arriva l'accordo sulla previdenza che salva gli operai e i lavoratori precoci (quelli che hanno iniziato a lavorare tra i 14 e i 18 anni) dalla revisione della riforma Dini del 1995 che posticipa gli accessi alla pensione d'anzianità, mentre il governo rinuncia all'innalzamento contemporaneo di età anagrafica ed età contributiva quale condizione per accedere alla pensione. Il governo s'impegna anche ad individuare le categorie di lavoratori "equivalenti" agli operai per il carattere usurante del lavoro, cui estendere i benefici riconosciuti agli operai. Si decide anche per una graduale parificazione del regime pensionistico tra dipendenti pubblici e privati, che prevede anche per i dipendenti pubblici l'età contributiva di 35 anni per poter accedere alla pensione di anzianità. Nel 2008, dopo un cammino graduato nel tempo, anche i dipendenti pubblici potranno godere della pensione con 57 anni di età e 35 di contributi, o con 40 anni contributivi indipendentemente dall'età anagrafica. L'accordo, sottoposto alla consultazione dei lavoratori, ottiene l'82% dei consensi, ma in presenza di una diserzione dal voto in aumento rispetto al referendum del 1995: votano 3.250.000 lavoratori, 1.200.000 in meno rispetto al 1995.
5. Per un bilancio sociale dell'intero decennio.
Allo scopo di tracciare un bilancio complessivo dell'intero decennio concertativo, prenderemo in esame i seguenti temi:
· retribuzione e distribuzione del reddito;
· democrazia sindacale;
· occupazione;
· diritti e garanzie dei lavoratori all'interno dei luoghi della produzione e nel mercato del lavoro;
· sicurezza sul posto di lavoro.
5.a. Retribuzione e distribuzione del reddito.
Il decennio concertativo che ha preso le mosse dall'accordo del 31 luglio 1992, ha avuto senza alcun dubbio degli effetti estremamente rilevanti sulle retribuzioni (da un punto di vista quantitativo e qualitativo) e sulla distribuzione del reddito tra capitale e lavoro. Nei dieci anni successivi a quell'accordo il livello dei redditi di impresa e capitale schizzeranno verso l'alto portando il nostro Paese a pieno titolo dentro il paradigma dell'accumulazione flessibile (il paradigma produttivo del liberismo). La c.d. politica dei redditi svelerà il suo volto autentico di politica dei salari o- per essere più precisi- di politica di riduzione dei salari. Gli altri redditi, quelli da capitale avranno solo i vantaggi della riduzione dell'inflazione, senza sopportane alcun costo ed anzi, trovando il modo di avvantaggiarsene anche su altri terreni.
Tabella 2: RETRIBUZIONI CONTRATTUALI E DI FATTO. Totale Economia |
Anni Retrib. |
Contrattuali reali Retrib |
Di fatto reali |
Produttività |
1994 |
-2.0% |
-0.7% |
3.5% |
1995 |
-2.3% |
-1.1% |
3.3% |
1996 |
0.3% |
1.1% |
0.6% |
1997 |
1.5% |
2.5% |
0.8% |
1997/1993 |
-2.8% |
2.1% |
8.4% |
5.b. Democrazia sindacale.
Nel parlare di democrazia sindacale vogliamo innanzitutto chiarire come questo tema si inserisca in una problematica più ampia. La democrazia in genere si è dimostrata in crisi. E non tanto per la situazione italiana, che a nostro avviso non rappresenta un'eccezione, ma per le istituzioni sovranazionali che influiscono sull'operato di ogni governo nazionale, del sud come del nord del mondo. In questo senso il problema della rappresentanza sindacale non si discosta da quello della crisi di rappresentanza politica, presente nei cittadini a livello locale, come nei governi a livello mondiale.
Uno degli elementi più sconcertanti contenuti nell'accordo del '93, riguarda il meccanismo di elezione delle rappresentanze aziendali.
Tale meccanismo prevede che solo i due terzi dei rappresentanti vengano eletti da tutti i lavoratori, mentre il restante terzo viene eletto o addirittura designato, unicamente dalle organizzazioni sindacali stipulanti il contratto nazionale di lavoro (CCNL).
Questa previsione, costituisce un'evidente rottura rispetto a qualsiasi ipotesi di democrazia sindacale, e, al tempo stesso, un indebito tentativo di coercizione a siglare qualunque contratto, anche quello meno accettabile.
Immaginiamo, per restare alle recenti vicende del contratto nazionale dei metalmeccanici, che nell'elezione per le prossime RSU la FIM e la UILM si vedano riconoscere una "rendita di posizione" per il solo fatto di aver firmato un contratto e che tale rendita possa essere negata alla FIOM, che dei metalmeccanici è senza dubbio il sindacato maggioritario, perché tale contratto non ha firmato. Questo ci mostra, su scala ridotta, quello che succede, dai rinnovi delle RSU successivi al '93, ai danni di tutte le organizzazioni sindacali più conflittuali.
Non è un caso, peraltro, che questa previsione, così vantaggiosa per i sindacati confederali, sia stata fortemente voluta, nel '93, dalla parte imprenditoriale.
5.c. L'occupazione.
I dati sull'occupazione e ancor di più quelli sulla disoccupazione, riferiti al decennio che è alle nostre spalle, sono decisamente sconfortanti.
È appena il caso di ricordare che il tasso di occupazione e quello di disoccupazione, non sono necessariamente due tassi a "somma zero", e ben può succedere che ad un aumento dell'uno corrisponda non una diminuzione corrispondente, ma addirittura un aumento dell'altro.
È precisamente quello che è successo nella seconda metà degli anni novanta.
Infatti, a partire dal '95 c'è stato in Italia (e anche altrove) un aumento del tasso di occupazione senza che questo abbia impedito, almeno fino all'inizio del '99, una crescita costante della disoccupazione.
Considerando che nei vari accordi interconfederali l'accento sull'occupazione è stato un elemento incessante, vi è da dire che, a fronte di sacrifici enormi per i lavoratori, i risultati sono stati modestissimi in termini di occupazione e rovinosi in termini di disoccupazione.
Peraltro, gli stessi risultati in termini di occupazione, andrebbero letti con la dovuta cautela.
Da un lato occorrerebbe tener conto dell'influenza di una lunga crescita economica a livello mondiale (certamente non influenzata dagli accordi italiani), crescita che già oggi appartiene al passato e potrebbe tirare nuovamente verso il basso il tasso italiano.
Un secondo elemento di cui tener conto, riguarda la qualità dell'occupazione creata.
In moltissimi casi si tratta di occupazione precaria, instabile, o semplicemente a tempo parziale.
È sufficiente guardare ai dati riferiti alle unità di lavoro standard per ridimensionare ulteriormente il già modesto dato sull'occupazione.
Se questo era il risultato che ci si attendeva dalle politiche intraprese dal '92 in poi, attraverso la concertazione con le parti sociali, non si può non rilevare, a distanza di dieci anni, l'assoluta incongruità tra i risultati raggiunti e i sacrifici fatti per raggiungerli.
Ciò, a voler tacere un ragionamento non particolarmente agevole con i dati a nostra disposizione, ma non per questo meno interessante, su quanto il raffreddamento dei redditi da lavoro abbia potuto influire negativamente sui consumi di beni e servizi e quindi, in ultima istanza, sull'occupazione.
Tabella 3: ANDAMENTO DELL'OCCUPAZIONE ANNI 1993/1996 |
|
1993 |
1994 |
1995 |
1996 |
Occupati (% anno precedente) |
-2.9 |
-1.5 |
-0.4 |
0.4 |
Lav. Dipendenti (% anno precedente) |
-2.7 |
-1.5 |
-0.8 |
-0.4 |
Disoccupazione |
10.2 |
11.3 |
12.0 |
12.3 |
Fonte: Istat |
5.d. Diritti, garanzie e tutele dei lavoratori all'interno dei luoghi della produzione e nel mercato del lavoro.
Gli anni novanta sono stati, tra l'altro, gli anni dello sviluppo enorme degli strumenti di flessibilità nell'utilizzo della forza lavoro da parte delle aziende. Su questo terreno, rileviamo una strettissima sincronia tra lo stato del dibattito politico come determinato dalla parte imprenditoriale, e i provvedimenti legislativi che hanno tradotto in norme tale dibattito. Gli accordi di concertazione sono stati l'elemento di legittimazione essenziale di questa sincronia.
Tra questi accordi spicca, per la materia che qui stiamo trattando, l'Accordo per il lavoro del 24 settembre 1996. Esso prevede l'introduzione per legge della flessibilità (lavoro interinale anche in edilizia e in agricoltura), la liberalizzazione dei contratti a termine, l'estensione dell'apprendistato a tutti i settori e a tutti i profili professionali con innalzamento dell'età fino a 24 anni (26 nel Sud), la flessibilità della durata e del mix di formazione e lavoro. Si concerta anche una flessibilità salariale attraverso l'ammissione di contratti di emersione dal nero con salari più bassi dei minimi contrattuali.
Questo accordo, estendendo le possibilità di utilizzo dei contratti di formazione e di apprendistato, non considera il fatto che tali contratti siano sempre serviti per mettere a disposizione delle imprese personale a basso costo e a ridotta garanzia, senza alcun vantaggio formativo per il lavoratore. Anche la tendenza ad una sostanziale privatizzazione del collocamento pubblico viene definita con tale accordo.
Il Patto per il lavoro del 1996, sarà portato a termine dal pacchetto Treu, nel marzo 1997.
Ad un livello più generale, c'è da dire che gli anni novanta hanno rappresentato gli anni dell'esplosione delle tipologie contrattuali in materia di lavoro.
Lavoro con contratto a tempo parziale, con contratto a tempo determinato, interinale, con contratto di solidarietà, socialmente utile, con contratto di formazione e lavoro, con contratto di apprendistato, a domicilio, in cooperativa, a prestazione ripartita, a ritenuta d'acconto, a prestazione d'opera, con collaborazione coordinata e continuativa, con collaborazione occasionale, con apertura di partita IVA, tramite stage, con varie forme di flessibilità dovute a patti territoriali o contratti d'area rappresentano lo scenario desolante di una "caporetto del lavoro" su cui il sindacato dovrebbe ulteriormente riflettere.
Ricomporre questa disgregazione rappresenta un'esigenza non procrastinabile per l'esistenza futura del fatto sindacale come fatto di tutela collettiva.
Del resto un primo bilancio, a grandi linee, della concertazione era già stato tentato dalla sinistra Cgil quando tenne un convegno nel marzo del 2000 in vista del congresso della Confederazione. Questo convegno assume un grande rilievo per l'impietosa denuncia della crisi del sindacato in termini di autonomia e democrazia. In particolare, viene espressa una denuncia della concertazione sulla base di un bilancio degli esiti dei rapporti sindacali quanto a condizioni del mondo del lavoro e dello stato sociale. Viene detto che il metodo concertativo ha requisito la negoziazione ai vertici dell'organizzazione sindacale, mortificando l'autonomia contrattuale e restringendo la democrazia sindacale. Quanto ai risultati ottenuti negli ultimi sette-otto anni, si rileva che l'Italia risulta penultima in Europa per la spesa sanitaria e per l'occupazione femminile; ultima nelle risorse destinate ai disoccupati e nella spesa contro l'esclusione sociale. I redditi da lavoro dipendente dal 1992 al 1997 risultano in calo di 5 punti sul Pil e di 3,3 punti sull'inflazione. Di contro gli utili delle imprese hanno raggiunto nel 1997 il livello più alto mai ottenuto nell'ultimo decennio, e nel 1998 essi aumentano del 53%, mentre nello stesso anno gli investimenti calano del 18% rispetto al 1989.
Tabella 4: QUOTA DEL REDDITO SUL PRODOTTO NAZIONALE LORDO AL COSTO DEI FATTORI. 1990/1996 |
% VA |
1990
|
1991 |
1992 |
1993 |
1994 |
1995 |
1996 |
Quota lav. Dip. e autonomo |
73.8
|
74.9 |
72.3 |
70.8 |
68.2 |
67.3 |
67.8 |
Fonte: OCDE e ETUI |
Tabella 5: PROFITTI CALCOLATI AL COSTO DEI FATTORI (differenza tra il valore aggiunto calcolato al costo dei fattori e i redditi da lavoro) 1992/1996 |
% VA costo dei fattori |
1992 |
1993 |
1994 |
1995 |
1996 |
1970-79 |
1980-92 |
Profitti |
36.6 |
37.7 |
40.8 |
42.3 |
41.5 |
31.4 |
36.5 |
Per ampliare il quadro riteniamo utile un confronto con i livelli europei.
Tabella 6: STRUTTURA,LIVELLO E COPERTURA CONTRATTUALE in Europa |
Nazioni |
livelli contrattuali |
livello dominante |
Copertura |
Estensione |
SVEZIA |
(N) |
C |
A |
C |
83 (1990) |
Volontaria |
FINLANDIA |
N |
C |
A |
C |
95(1989) |
Obbligo |
DANIMARCA |
|
C |
A |
C |
80+(1991) |
Volontaria |
NORVEGIA |
N |
C |
A |
N |
79(1992) |
Volontaria |
BELGIO |
N |
C |
A |
C |
90(1990) |
Obbligo |
AUSTRIA |
|
C |
A |
C |
98(1990) |
Obbligo |
GERMANIA |
|
C |
A |
C |
90(1992)W |
Obbligo |
|
|
|
|
|
80(1992)E |
|
SVIZZERA |
|
C |
A |
C |
53(1990) |
Obbligo |
OLANDA |
N |
C |
A |
C/A |
81(1993) |
Obbligo |
IRLANDA |
N |
|
A |
A |
70+(1993) |
Obbligo |
INGHILTERRA |
|
C |
A |
A |
47(1990) |
Obbligo |
ITALIA |
N |
C |
A |
N/C/A |
70(1990) |
Nessuno |
GRECIA |
N |
C |
A |
N/A |
|
Obbligo |
PORTOGALLO |
N |
C |
A |
N/A |
79(1991) |
Obbligo |
SPAGNA |
N |
C |
A |
N/A |
70+(1992) |
Obbligo |
FRANCIA |
N |
C |
A |
N/A |
82(1990) |
Obbligo |
Note:
N = contrattazione nazionale centralizzata
C = contrattazione di categoria
A = contrattazione aziendale
( ) = abbandonata negli anni recenti
Fonte: adattamento da J. Visser, "Trends and variations in European collective bargaining", Cesar 1996 |
Tabella 7 |
Nazioni |
Dipendenti occupati |
% sul totale occupa-zione |
indice di parteci-pazione della forza lavoro
|
quota di occupa-zione industria |
quota di occupati nelle piccole imprese e settori manifat-turiero servizi
|
SVEZIA |
3.535 |
89.1 |
78.5 |
25.4 |
|
|
FINLANDIA |
1.718 |
83.1 |
74.0 |
27.0 |
17.0 |
34.4 |
DANIMARCA |
2.274 |
87.9 |
84.4 |
26.3 |
|
|
NORVEGIA |
1.765 |
88.1 |
76.8 |
23.1 |
|
|
BELGIO |
3.073a |
79.9a |
63.8a |
27.7a |
13.0 |
45.0 |
AUSTRIA |
3.072 |
86.1 |
69.2 |
35.0 |
|
|
GERMANIA |
31.286 |
88.7 |
68.4 |
30.1 |
11.0 |
47.0 |
SVIZZERA |
2.930b |
86.5b |
75.5 |
33.2 |
... |
|
OLANDA |
5.805 |
87.3 |
69.9 |
24.6 |
14.0 |
38.0 |
IRLANDA |
873c |
75.8c |
62.7 |
28.9c |
... |
|
INGHILTERRA |
21.554 |
85.1 |
73.9 |
26.2 |
11.0 |
42.0 |
FRANCIA |
19.242 |
86.3 |
66.7 |
27.7 |
12.0 |
38.0 |
ITALIA |
15.193 |
69.6 |
59.1 |
33.0 |
38.0 |
68.0 |
GRECIA |
1.981 |
53.3 |
58.9 |
24.2 |
23.0 |
61.0 |
SPAGNA |
8.634 |
71.5 |
58.6 |
30.7 |
32.0 |
56.0 |
PORTOGALLO |
3.310 |
73.5 |
71.4 |
33.0 |
28.0 |
60.0 |
Note: tabelle riferite allE industrie manifatturiere e nei servizi commerciali nel 1991 o nel 1992, a) = 1992 b) = stime c) = 1991 |
6. Conclusione.
Come premesso la nostra analisi si colloca dal punto di vista dei lavoratori e delle lavoratrici.
È però evidente che la politica di concertazione chiama in causa tre distinti soggetti:
Stato - imprenditoria - sindacati che, nella cornice della politica economica europea, avrebbero dovuto produrre sostanziali modificazioni nella loro azione, in modo che il combinarsi delle tre avrebbe consentito al Paese di entrare a pieno titolo fra i grandi della politica europea.
Da una parte i sindacati si impegnavano in una fase contrattuale che rispettasse i limiti delle compatibilità; gli imprenditori si impegnavano al cambiamento della politica industriale attraverso investimenti (formazione, rinnovamento della qualità e della tipologia della produzione); lo Stato si impegnava a sostenere la ricerca in funzione dell'innovazione e della diversificazione produttiva e a modificare l'impianto degli ammortizzatori sociali.
Sarebbe lungo descrivere le inadempienze di quest'ultimi due soggetti: per brevità, basti portare ad esempio l'attuale crisi FIAT in cui si evidenzia la mancanza di progettualità diversificata (in un settore di crisi annunciata, anche solo sul piano della tutela ambientale) e la ricerca di soluzioni attraverso:
· la svendita di un patrimonio ampiamente sostenuto e foraggiato dall'intervento pubblico negli anni,
· l'intervento finanziario a sostegno da parte delle banche "amiche",
· l'abbattimento del costo del lavoro attraverso la soppressione di posti di lavoro.
Per quanto riguarda lo Stato, il suo intervento si è risolto più nella funzione assistenziale che in quella progettuale per una integrazione delle politiche del lavoro e dell'assistenza: la recente legge su interventi integrati nel settore sociale (328/00) conferma il Reddito minimo di inserimento sperimentato dal '99 in 39 Comuni senza evidenziare l'assoluta inadeguatezza dello stesso (soglia di integrazione del reddito a 520.000 lire al mese) e la mancanza di risorse destinate per un eventuale allargamento della sperimentazione ed introduce, sul fronte dei servizi (salario differito) criteri di selettività nelle politiche sociali che di fatto contravvengono i principi costituzionali del diritto al lavoro, alla casa, all'assistenza, ad una vita dignitosa per tutti, trasformando i cittadini utenti dei servizi in consumatori che acquistano prestazioni.
Questo rimanda ad un altro capitolo disatteso, pure nell'ambito dell'accordo a tre: l'assenza di una politica fiscale in funzione redistributiva.
Difficile pensare a scorciatoie politiciste nel tracciare un bilancio sociale della concertazione in Italia. La negatività di tale bilancio rimanda alla necessità del conflitto sociale come strumento di lotta democratica del mondo del lavoro.
Il momento storico che viviamo, non solo nel nostro Paese, con il riemergere e la progressiva maturazione di un nuovo movimento di opposizione al neo-liberismo, apre delle prospettive feconde per tutto il movimento sindacale.
Le straordinarie e convinte risposte che il mondo del lavoro e del non-lavoro hanno dato, non appena si è riaperta una fase conflittuale per la tutela dei diritti dei lavoratori, con le mobilitazioni dei mesi di marzo e aprile e, prima ancora, con gli scioperi dei lavoratori metalmeccanici chiamati dalla FIOM ad una lotta difficile ma importante, dimostrano efficacemente quanto il conflitto sia ancora, prepotentemente, uno strumento fondamentale per dar voce a chi lavora e a chi vorrebbe lavorare ma un lavoro non lo trova.
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settembre - dicembre 2002 |