Terrorismo: il gergo dell’ideologia dominante
di Pasko Simone

Parole

L’unanimità di opinione può essere adatta per una chiesa, per le vittime atterrite o bramose di qualche mito antico o moderno e per i seguaci deboli e disponibili di qualche tiranno.
Paul K. Feyerabend

Nella storia italiana i combattenti per l’indipendenza e la libertà sono sempre definiti “patrioti”. Patrioti e liberatori sono considerati i partigiani italiani e francesi che hanno combattuto contro l’invasore nazi-fascista.
I palestinesi che combattono per conservare e liberare le loro terre occupate dai più forti israeliani sono oggi definiti “terroristi”. È evidente che qui si attua una di quelle operazioni di manipolazione linguistica sempre molto gradite al potere.
Già altri prima di noi nel passato hanno evidenziato che anche la lingua non ci appartiene, ovvero appartiene a chi sa manipolarla a suo vantaggio.
Se con la guerra in Afganistan l’operazione linguistica era semplice: chiunque è con Bin Laden è un terrorista; con il conflitto in Palestina il gioco si complica e l’ambiguità si raddoppia: chi è kamikaze è un terrorista e chi è con loro è un antisemita.
Noi che ci sentiamo, oltre che europei, anche semiti ed ebrei, serbi e albanesi, arabi e palestinesi, occidentali ed orientali in tutto ciò che c’è di meglio nelle due culture, noi diciamo che siamo con i sofferenti di tutte le etnie. Confermiamo una volta di più di essere con i poveri e i derelitti della Terra. Siamo contro povertà, ingiustizie e soprusi, siamo contro le armi e gli armamenti di ogni tipo, nucleari o spaziali che siano, siamo contro tutti i razzismi e gli antisemitismi, siamo con tutte le razze che soffrono ed aspirano a pari dignità e ad un giusto riconoscimento.
Ci chiediamo: combattere per la propria terra non è dunque più considerata un’azione meritevole? L’autodifesa, armata o disarmata che sia, nel gergo omologante dell’ideologia dominante sarà sempre e soltanto “terrorismo”? Ed il popolo di Israele ha a tal punto cancellato dalla propria memoria il ricordo delle sofferenze patite appena ieri, tanto da non vedere più quelle che gli altri subiscono oggi?
Il kamikaze, chi è costui? È di sicuro un corpo vivo che non porta mitraglie né possiede carri armati. La sua unica arma è quella assoluta della morte assoluta, fuori e dentro di lui. Il kamikaze è colui che ha totalizzato l’irreversibilità del suo destino: l’alternativa paradossale di una vita senza speranza che si esalta, paradossalmente, sulla morte generalizzata. È la liberazione dal proprio corpo quando ogni altra liberazione gli è negata. Da questo punto di vista il kamikaze non è un terrorista. Non più del soldato armato fino ai denti che spara su donne e bambini, su vecchi e religiosi. Non più di chi ordina, in violazione di ogni diritto umano, di radere al suolo le povere case della povera gente, non più di chi vieta alle autoambulanze di prestare soccorso o blocca ogni servizio di assistenza ospedaliera.
Il kamikaze spaventa noi occidentali che abbiamo paura della morte e abbiamo perso qualsiasi cognizione del sacrificio. Il suo è per di più il sacrificio massimo, quello inammissibile al di fuori dal suo universo religioso irrazionale: quello umano, costruito dentro e fuori di lui con una serie infinita di rinunce e di perdite. Inconcepibile nel sistema mercantile occidentale. Semmai l’unica cosa che accomuna il terrorismo, meglio “i terrorismi”, ed il sacrificio improduttivo del kamikaze è qualcosa che essi prendono in prestito dalla società occidentale: la spettacolarizzazione degli atti.
Non è una “scelta di vita”, ma una “scelta di morte”, impossibile da ricambiare e che sta a dimostrare fino a che punto Occidente e Oriente si sono distanziati.
Se qualcuno (tutto l’Occidente) parla di “terrorismo” si sbaglia e lo sa: non è terrorismo, è disperazione. Se qualcuno parla di “cultura della morte” (tutti i media occidentali), si sbaglia e lo sa: non è una cultura, è una visione lontana anni luce dall’attaccamento morboso alla vita, dal nevrotico legame alla terra che caratterizza l’individualismo occidentale. Come ha detto un mussulmano durante la guerra in Afganistan: “I bombardamenti americani non servono a nulla! I nostri uomini hanno tanta voglia di morire quanta ne hanno gli americani di vivere!”
Se è vero ciò che dice Vera Slepoj (Il Messaggero 7/4/02): “Il bisogno di giustizia, di pace, di coerenza, di futuro, non può stare nelle mani né del delirio manicheo né dei carri armati né delle bombe umane… Perché l’alternativa avvenga ci deve essere una rinuncia culturale alla violenza come sistema”. È anche vero quanto riferisce Ian Chambers (L’Unità 17/4/02): “Per l’israeliano Uri Avnery sarebbe propro Ariel Sharon a fomentare il terrorismo e le fila dei kamikaze palestinesi”, con l’uso cieco della violenza armata, forse con il segreto intento di arrivare a una “soluzione finale”.

Sembra che nessuno in Occidente voglia capire il messaggio dell’11 settembre. Sembra che non si voglia in nessun modo cambiare atteggiamento, come se l’Occidente fosse l’intero mondo.
Il filosofo Jean Baudrillard, riflettendo sullo “spirito del terrorismo”, sottolinea: “Nessuno sembra aver capito che il Bene e il Male crescono in potenza contemporaneamente, e secondo lo stesso movimento. Il trionfo dell’uno non comporta l’annientamento dell’altro, anzi. […] Il Bene non riduce il Male, e non è vero neppure il contrario: Bene e Male sono irriducibili l’uno all’altro e il loro rapporto è inestricabile”.
Come può l’Occidente che ha operato una cancellazione della morte “positiva” a favore di una morte tutta “negativa” (quella dei genitori che ammazzano i figli e viceversa) comprendere il valore simbolico di una protesta che si esplica nel sacrificio di sé, nell’eccesso di morte come unica arma rimasta per combattere l’eccesso di potere? Per uscire dalla spirale della disperazione?
I nuovi pellerossa da combattere e respingere sono oggi per l’Occidente i mussulmani e i palestinesi: anch’essi, nei loro territori, chiusi in recinti senz’acqua e senza luce. Colpevoli di non essere stati bravi come gli israeliani. Il risultato è che molti giovani vedono nella morte l’unica possibilità di liberazione e nell’estremo sacrificio il massimo riscatto.

I metodi sono sempre quelli, ma l’ottica è diversa, come diverse sono le armi del confronto. Le pietre prima, il proprio corpo dopo, uno scontro impari come quello di biblica memoria tra il piccolo Davide e il grande Golia, con la differenza che gli attuali protagonisti si sono dati il cambio.
Il fatto è che ciò che è nella tradizione storica bellicista e violenta dell’Occidente: gli aerei da bombardamento, gli elicotteri da combattimento, i carri armati e le mitragliette, viene accettato come buono e positivo e quindi perdonato; ciò che, invece, è completamente fuori da tale tradizione, e cioè il martire kamikaze, l’uomo-bomba, il lancio della pietra o della biglia, è rifiutato e condannato come violenza “terroristica”.
Naturalmente, la diretta conseguenza è il dilagare delle paure “terroristiche” funzionali al mantenimento delle tensioni che giustificano l’uso e l’abuso delle cosiddette “operazioni umanitarie”: terrorismo informatico, terrorismo biologico, terrorismo dell’antrace e terrorismo della chiacchiera (vedi le apparizioni virtuali e le sparizioni reali del fantomatico Bin Laden!).
Se si vuol parlare di “terrorismo”, questo, come la storia di tutte le nazioni dimostra, è presente dovunque c’è guerra, dovunque ad un fondamentalismo si risponde con un altro fondamentalismo.
Denunciare la gravità degli atti del più forte che spara all’impazzata, condanna senza regole e senza processi, uccide non distinguendo tra presunti colpevoli e sicuri innocenti, è dovere, questo sì fondamentale, di chi ha una mente critica sgombra da pregiudizi. È esattamente l’opposto dell’antisemitismo, è la testimonianza della più radicale contrapposizione al razzismo di qualunque etnia e di qualunque colore. È infine una netta ripulsa morale e politica del concetto e della pratica del terrorismo, anzi dei “terrorismi”, sia di quello generato dall’esplosiva miscela di disperazione e di fanatismo, sia – a maggior ragione – del terrorismo di Stato, che viola i diritti umani, pratica la violenza indiscriminata e scatena guerre aggressive camuffate da guerre “umanitarie”.

Così come l’ottuso autore del massacro di Sabra e Chatila, Ariel Sharon, non rappresenta e non può rappresentare il popolo ebraico, così non si può trasformare un popolo intero in una armata di terroristi. Confondere le intelligenze manipolando le parole, facendo passare per feroce estremismo quella che è disperata resistenza popolare, è una scelta politica precisa dell’attuale leadership statunitense che Ariel Sharon interpreta alla lettera.
Si dice ingenuamente che il kamikaze ha subito il “lavaggio del cervello”. Ma cos’è l’adesione netta e acritica del popolo americano al pensiero unico di Bush secondo cui tutto ciò che non va a genio o non piace alla sua politica è diventato terrorismo e quello che l’America sta facendo e vuol fare all’infinito – “combattere il terrorismo” – è solo e soltanto un bene, poco importa quante vite umane, quanta ricchezza e quanta distruzione siano in gioco? Se i sondaggi nazionali, che sono una forma di “taratura” dei cervelli, indicano un’adesione totale a tale volontà di guerra “infinita”, che altro nome dare a tale omologazione mentale?

Noi ci chiediamo perché la tempestività e lo spiegamento di forze usato nella guerra dei Balcani non viene mostrato nella guerra in Medio Oriente? Perché l’ingerenza cosiddetta “umanitaria” deve valere per il Kossovo e non per la Palestina?
Qualcuno ha osservato che il terrorismo è “connaturato” al fanatismo religioso. Noi riteniamo, al contrario, che il “terrorismo” non sia connaturato ad una particolare etnia: noi crediamo che esso costituisce un fenomeno storico ricorrente, oggi acuito dalle contraddizioni che il dominio imperiale sta producendo su scala mondiale con una presunta “apertura” dei mercati che si rivela invece, ogni giorno di più, un nuovo modo di oppressione degli uomini e di sfruttamento delle risorse, ancora una volta penalizzante per coloro che Franz Fanon chiamò i “dannati della Terra”.
Smuovere le cause che alimentano il fenomeno significa intervenire sulle condizioni di progressivo depauperamento dei paesi arabi, dei paesi sottosviluppati, dei paesi del sud del mondo perennemente senz’acqua e senza luce.

Per questo auspichiamo la creazione di “brigate internazionali per la pace”. Per questo auspichiamo anche per la Palestina una “terra libera a maggio”.
Ed è su queste proposte, su queste libere “asserzioni” - fuori dall’omologazione gergale di chi detiene il potere economico, politico e mediatico del mondo – che noi vorremmo aprire un libero dibattito con chi ci legge, confrontarci sulla “autenticità” delle nostre e delle loro “passioni”.

maggio - agosto 2002