Sui fondamenti finanziari della pace
di Francesco Mancini

Analisi
“La minaccia maggiore per la pace mondiale verrà negli anni a venire non dai comportamenti irrazionali di stati o individui, ma dalle legittime richieste dei diseredati del mondo. La maggioranza di queste persone povere e senza diritti vive un’esistenza marginale nei climi equatoriali. Il surriscaldamento del pianeta – originato non da loro, bensì da pochi ricchi – colpirà soprattutto le loro fragili ecologie. La loro situazione sarà disperata e manifestamente ingiusta. Perciò non ci si può attendere che essi si accontentino sempre e comunque di aspettare la beneficenza dei ricchi. Se permetteremo dunque alla potenza devastante delle armi moderne di diffondersi in questo esplosivo paesaggio umano, innescheremo una conflagrazione in grado di travolgere tanto i ricchi quanto i poveri. La sola speranza per il futuro riposa nella collaborazione internazionale, legittimata dalla democrazia.
“È tempo di voltare le spalle alla ricerca unilaterale di sicurezza, in cui noi cerchiamo di rifugiarci dietro ai muri. Dobbiamo invece insistere nella ricerca dell’unità d’azione per contrastare sia il surriscaldamento del pianeta che un mondo armato.
“Questi obiettivi gemelli costituiranno due condizioni fondamentali per la stabilità, mentre ci muoveremo verso il più ampio grado di giustizia sociale che, esso solo, può dare una speranza di pace. Alcuni degli strumenti legali necessari sono già a portata di mano, come il trattato sui missili anti-balistici (Anti-Ballistic Missile Treaty), la convenzione sui cambiamenti climatici (Convention on Climate Change), i trattati strategici sulla riduzione di armi (Strategic Arms Reduction Treaties) e il Trattato sul bando dei test nucleari (Comprehensive Test Ban Treaty). In quanto cittadini preoccupati, chiediamo a tutti i governi di impegnarsi per questi obiettivi, che costituiscono dei passi in avanti affinché il diritto prenda il posto della guerra.
“Per sopravvivere nel mondo che abbiamo trasformato dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. Mai come oggi, il futuro di ciascuno dipende dal contributo di tutti.”

Il quotidiano “Il Manifesto” dell’8 dicembre 2001 ha pubblicato l’appello cui hanno aderito 104 premi Nobel (su un totale di 225 viventi), rivolto a tutti i governi affinché si adoperino per stabilire reali condizioni di pace.
L’elenco delle firme, raccolte ad iniziativa del canadese John Polany, Nobel per la chimica 1986, comprende 34 premi Nobel per la fisica, 32 per la chimica, 23 per la medicina e la fisiologia e solo 8 per la pace (Norman E. Boriaug, Desmond M. Tutu, Oscar Arias Sanchez, il Dalai Lama, Mikhail S. Gorbachev, Joseph Rotblat, Carlos F. X. Belo, Jody Williams), 4 per l’economia (Lawrence Klein, Franco Modigliani, Daniel L. McFadden, Joseph E. Stiglitz) e 3 per la letteratura (Nadine Gordimer, Dario Fo, José Saramago).
Risalta subito evidente la notevole differenza di comportamento fra i cultori delle cosiddette scienze esatte o sperimentali, che hanno aderito in massa all’appello, e la componente umanistico-umanitaria e socio-economica, che invece lo ha largamente snobbato.
In qualche misura, a rischio di essere irriverenti, la spiegazione può essere in una certa avventatezza nell’attribuzione dei premi, come nel caso di Henry Kissinger, insignito del premio Nobel per la pace nel 1973, lo stesso anno in cui organizzò il colpo di stato in Cile (fatto storico pienamente provato), mentre il rappresentante del Vietnam del Nord Le Duc To, ben più dignitosamente, rifiutò lo stesso alto riconoscimento.
Più in generale, la differenza potrebbe essere dovuta a pura casualità e, quindi, i diversi comportamenti rifletterebbero effettive differenze di opinione e di pensiero. Un’altra possibile e forse più verosimile spiegazione è che le scelte siano state dettate non da diversità di opinioni, ma da motivi di opportunità, di schieramento politico-ideologico o da preoccupazioni di salvaguardia delle proprie fonti di reddito e di prestigio sociale.
In un caso o nell’altro almeno per ciò che concerne i premi Nobel, appare pienamente dimostrata, in contrasto con quanto correntemente si pensa, la maggiore sensibilità e preoccupazione degli uomini di scienza sui temi della pace, della tutela dell’ambiente, della giustizia sociale e della democrazia, rispetto agli operatori di altri campi di attività intellettuali.
È pur vero che questi appelli non servono a niente, se non a mettere a repentaglio i redditi dei firmatari dipendenti direttamente o indirettamente da società multinazionali o dai governi dei paesi industrializzati; è, anzi, da ritenere che proprio questo sia stato l’argomento utilizzato da qualcuno dei non firmatari per tacitare la propria coscienza.
Un non addetto alle scienze esatte può forse addurre anche una insufficiente o dubbia conoscenza del reale grado di gravità delle “malattie” del pianeta e dell’umanità. Ciò non vale per gli economisti. È vero che costoro possono non avere una conoscenza approfondita degli aspetti fisici, chimici e biologici della degenerazione e dei rischi attuali per il pianeta e le specie viventi che lo abitano. Essi sono, però, in possesso di conoscenze specifiche, attinenti alla sfera economica, affaristica e finanziaria, tali da suscitare altrettanto se non maggiore allarme circa le possibilità di sopravvivenza dell’umanità e, per altro verso, idonee a chiarire dubbi ed errori che per lo più caratterizzano l’approccio della gente comune alle materie economiche.
Gli economisti possono, ad esempio, chiarire al pubblico che la moneta, diversamente da ciò che ancora si afferma in molti manuali di economia politica, confondendola con la materia di cui in passato è stata composta, non è una merce o non lo è più, ammesso che lo sia mai stata, ma un bene immateriale privo di valore intrinseco.
Essi, inoltre, potrebbero e dovrebbero spiegare che la creazione aggiuntiva continua ed eccessiva di mezzi monetari, creditizi e finanziari ha fatto sì che alla lunga le attività finanziarie praticamente abbiano finito per emarginare, asservire e fagocitare le attività produttive, ormai ridottesi ad una aliquota pressoché trascurabile del totale dei valori finanziari. Essi sanno anche che operazioni all’apparenza innocue, come il deposito di una somma in banca, l’accreditamento degli interessi e l’emissione di banconote, nelle modalità con cui vengono poste in atto nel mondo attuale, sono in sostanza espedienti truffaldini, sempre vietati e condannati, finché il capitalismo moderno, in epoca piuttosto recente, ha ritenuto opportuno legalizzarli. Essi sanno, quindi, che il conseguente processo di espansione esponenziale dei mezzi e valori finanziari e dei connessi oneri per interessi e rendite finanziarie sono la vera e principale causa dei mali e degli squilibri del mondo contemporaneo.
A titolo di esemplificazione, si sottolinea che il semplice deposito di una somma in banca comporta il raddoppio della proprietà della medesima e, quindi, del corrispondente potere d’acquisto e valore finanziario, con conseguente incremento, questa volta più del doppio, dell’onere per interessi a carico della collettività. Ciò accade perché ad un certo punto, abbastanza recente, della storia dell’Occidente l’obbligo del deposito regolare, per il quale il depositante restava unico proprietario della somma depositata, è stato sostituito dalla figura giuridica del deposito irregolare, in base alla quale anche la banca depositaria ne diventa proprietaria a pieno titolo.
È opportuno rammentare che, per effetto di questa sorta di acrobazia o equilibrismo o gioco d’azzardo giuridico-finanziario, nei decenni precedenti gli anni Trenta del 900, i risparmiatori hanno spesso dovuto subire pesanti o totali perdite, in conseguenza di fallimenti bancari, finché non sono state introdotte garanzie ed assicurazioni sui depositi bancari, che però hanno contribuito all’insorgere di problemi diversi e altrettanto gravi, quale appunto la formidabile finanziarizzazione dell’economia, che affligge la nostra epoca.
I mezzi e valori creati aggiuntivamente per effetto della struttura normativa e istituzionale del mondo odierno vengono spesso definiti fittizi, in quanto puro effetto di alchimie giuridico-finanziarie e non connessi a processi sostanziali o materiali di produzione e scambio di beni e servizi.
A scanso di equivoci, è bene precisare che questo carattere fittizio, che sarebbe più appropriato definire fraudolento, ancorché legale, si associa alla assoluta “realità” dei concretissimi effetti pratici di trasferimento di ricchezza in favore del sistema bancario e finanziario e relativi debitori, che i processi in questione comportano.
Salvo sporadiche od occasionali eccezioni, gli economisti preferiscono non approfondire questi argomenti o diffondersi su di essi, né sembrano interessati a presentarli all’attenzione della gente comune con la necessaria semplicità e chiarezza. L’indifferenza o scarsa sensibilità spesso dimostrata dagli economisti per temi come la pace, l’ambiente e la giustizia sociale ha, tra le altre, la conseguenza particolarmente negativa di permettere la diffusione di convinzioni tanto ferree quanto infondate fra i non addetti ai lavori, atte ad indurli a scelte erronee o controproducenti. L’ignoranza o il disprezzo per le materie e le discipline economiche, infatti, a differenza di ciò che accade per altri settori di conoscenza, si accompagna frequentemente alla pretesa di essere comunque in grado di capire, decidere e dare indicazioni in campo economico e finanziario.
Tutto ciò sembra valere anche per alcune delle associazioni che compongono i movimenti antiglobalizzazione. L’attenzione di queste appare troppo spesso attratta e monopolizzata dalla grandiosità dei movimenti internazionali di capitali e dalla speculazione finanziaria, tanto da attribuire a tali fenomeni, alle operazioni che li originano ed ai soggetti che le pongono in atto colpe e conseguenze negative, che competono invece ad altre cause ed istituzioni.
Accade, così, che ruoli e conseguenze sia dei fenomeni che dei soggetti che li determinano non siano talora neanche considerati e che, quindi, vengano elaborate soluzioni e misure mirate ad eliminare gli effetti ultimi, ma non in grado di rimuoverne le cause prime.
I soggetti incriminati sono per lo più, insieme ai fondi speculativi speciali o Hedge Funds o fondi per la copertura dei rischi, le grandi banche e società di intermediazione finanziaria, i fondi pensione, le compagnie di assicurazione e i fondi di investimento tipo SICAV o Mutual Funds.
In effetti, questi operatori movimentano colossali masse di capitali alla continua ricerca di più elevati rendimenti di natura esclusivamente finanziaria e, quindi, senza alcuna relazione con la produzione di beni e servizi idonei al soddisfacimento dei bisogni della gente comune, né preoccupazioni per le oscillazioni talora imponenti, provocate nei mercati dei cambi e dei titoli. E tuttavia questi soggetti sono solo l’anello terminale della catena. Essi agiscono nell’ambito di un quadro operativo, normativo ed istituzionale stabilito dai governi, dalle banche centrali e da organismi quali il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio (W.T.O.).
Proprio questi organismi ed istituzioni, in forza dell’immenso potere politico e finanziario detenuto ed esercitato a livello planetario, possono e devono essere ritenuti responsabili dei mali dell’ambiente naturale e dell’umanità. Essi operano al servizio o comunque nell’interesse delle grandi multinazionali, tramite la continua violazione e limitazione delle regole del mercato, della concorrenza, della libera iniziativa e, quindi, per il monopolio, il privilegio ed il blocco, la limitazione ed il condizionamento della produzione e del commercio di beni e servizi utili. Ovviamente, mentre fanno questo, in favore del profitto e della accumulazione e concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, affermano e, tramite i mezzi di comunicazione di massa da essi stessi controllati, convincono la gente comune di operare nel senso esattamente opposto.
In realtà, il profitto e, ancor più, i potentissimi monopoli detenuti dalle multinazionali, implicano una costante, sistematica, formidabile attività di distruzione, spreco e sottoutilizzo sia di risorse già esistenti sia delle potenzialità e possibilità future dei popoli in termini di benessere e prosperità. È erroneo o falso – secondo che si ipotizzi la buona o la cattiva fede di chi lo afferma – che dei mali dell’umanità e del pianeta sia responsabile l’eccesso di ricchezza e di consumi di alcuni popoli.
È una tesi, però, che fa comodo ai padroni del vapore, in quanto contribuisce fortemente a rafforzarne il potere, creando ingiustificati complessi di colpa e divisioni e contrapposizioni fra i popoli, che hanno invece una stretta comunanza di interessi. Fenomeni come il consumismo e la speculazione, possono certo opportunamente ritenersi da eliminare per tanti altri motivi, ma non perché siano da considerare causa prima di alcuno dei guai del pianeta, dei popoli del terzo mondo e, in genere, delle classi subalterne dovunque esse vivano.
Non la ricchezza, ma la distruzione di ricchezza ne è la causa. Se i popoli del primo mondo diventano più poveri, non per questo gli altri diventano più ricchi; è anzi da ritenersi vero l’esatto contrario, mentre gli unici a trarne vantaggio sono il big business e l’alta finanza.
I lavoratori, i pensionati, i disoccupati, i malati, gli emarginati del Nord America, dell’Europa Occidentale e del Giappone sono certo meno poveri o più ricchi, secondo i punti di vista, dei loro omologhi dei cosiddetti paesi in via di sviluppo. Si tratta, tuttavia, di una ricchezza precaria, messa sempre più in discussione e progressivamente ridotta dalle politiche di privatizzazione, deregolamentazione, liberalizzazione, flessibilità del lavoro e simili.
Circa l’argomento iniziale, andrebbe chiarito, da parte degli economisti che lo sanno benissimo, che il pericolo per l’ambiente e per l’umanità non deriva dal puro e semplice movimento dei capitali finanziari, ma dalla proliferazione e moltiplicazione dei medesimi e degli strumenti finanziari che li rappresentano. I danni incalcolabili all’economia, alla vita, alla natura derivano dal loro carattere parassitario, dalle loro dimensioni e dal ruolo dominante da essi esercitato a livello economico, politico e sociale; in altre parole, la moltiplicazione e la proliferazione dei mezzi finanziari fanno danno ovunque essi si trovino ad operare, sia che si muovano o che non si muovano.
La fame e la miseria dei paesi poveri dipendono dall’enormità del debito del mondo occidentale, ben più che dal loro stesso indebitamento, la cui eliminazione non risolverebbe i loro problemi né migliorerebbe in maniera significativa e durevole le loro condizioni. L’effettiva soluzione dei problemi delle popolazioni povere del pianeta sarebbe quindi nella eliminazione o almeno nel drastico ridimensionamento del debito pubblico e privato del primo mondo; ed è a questo obiettivo, per quanto proibitivo, che è indispensabile puntare.
È veramente degno di nota come il pubblico venga distratto dal problema reale, cioè la creazione ed il predominio degli strumenti finanziari, e dirottato sul falso problema dei loro spostamenti. Conseguentemente, molti sono ormai convinti che un qualche risultato utile o positivo possa essere ottenuto ostacolando o impedendo i movimenti dei capitali finanziari o con l’introduzione di una cosiddetta tassa Tobin sui movimenti internazionali a breve termine di capitali speculativi.
Negli anni è andata accumulandosi una letteratura di notevoli dimensioni su tale argomento, per lo più incentrata sull’analisi degli scopi e delle condizioni di applicabilità ed efficacia di una tale imposizione. Si deve rilevare, al riguardo, da un lato che la stessa concezione della Tobin tax è intrinsecamente contraddittoria, in quanto si prefigge contemporaneamente due finalità contrapposte di conseguire un gettito dalla tassazione dei movimenti di capitali e nello stesso tempo impedirli. Inoltre, si deve riconoscere che le condizioni per una sua efficace applicazione (universalità, uniformità e progressività dell’imposizione) sono praticamente irrealizzabili.
Ma, al di là di questo, è di tutta evidenza che si tratterebbe di un ulteriore balzello, che implica la creazione di ulteriore finanza aggiuntiva, di carattere tributario, che andrebbe a gravare, direttamente o indirettamente, sempre e comunque sulla gente comune e, in fin dei conti, sui più deboli, che non hanno la possibilità di scaricarne l’onere su altre categorie. Infatti, l’impresa o istituzione finanziaria che viene caricata di un costo o di un minore guadagno, se ne libera aumentando i prezzi e/o riducendo i livelli di attività, cioè, in entrambi i casi, arrecando danno alle attività produttive. D’altra parte, l’idea che veramente il gettito di una imposta sui movimenti internazionali dei capitali speculativi venga effettivamente speso nell’interesse dei poveri del mondo o per la tutela dell’ambiente naturale da parte di organismi come la World Bank o simili istituzioni appare a dir poco azzardata, alla luce delle passate esperienze.
Si rammenterà, al riguardo, che il professor Stiglitz, uno dei pochissimi economisti firmatari dell’appello riportato in esordio, si è dimesso, sbattendo la porta, dalla carica di vice presidente della World Bank, verosimilmente da lui ritenuta scarsamente idonea al conseguimento degli elevati fini umanitari per cui è stata istituita. Viceversa, l’appello non è stato firmato dal professor James Tobin, poi deceduto a marzo 2002, premio Nobel per l’economia nel 1981, dal quale la tassa di cui trattasi ha preso il nome, avendone lo stesso proposto per primo l’adozione negli anni Settanta, riprendendo una vecchia idea di Keynes.
A differenza dei movimenti internazionali di capitali, il processo di finanziarizzazione dell’economia, che pure li crea, benché tanto noto e vistoso, viene invece spesso ignorato e sottovalutato, mentre è proprio da esso che è dipeso e dipende il progressivo soffocamento delle economie di tutti i paesi. Nei sistemi capitalistici moderni i valori e gli strumenti monetari, creditizi e finanziari vengono creati dal nulla un po’ da tutti gli operatori economici, ma, ovviamente, soprattutto e per la massima parte da banche, intermediari finanziari e multinazionali, oltre che dalle banche centrali e dai governi.
Questa creazione dal nulla dall’agosto 1971, ossia dal cosiddetto “Nixon shock”, in pratica non ha più freni ed ha comportato un progressivo accentramento di ricchezza nelle mani di chi l’ha posta in atto e di chi ne ha beneficiato, con il conseguente effetto di sobbarcare direttamente o indirettamente l’intera umanità, anche la più lontana e del tutto ignara di questi processi, di oneri per interessi, rendite e profitti finanziari sempre più gravosi e insopportabili.
Le guerre, gli armamenti, i colpi di stato, le tangenti a politici e governi compiacenti, le lobbies, i monopoli, i brevetti, la pubblicità e simili non entrano nei processi materiali per l’ottenimento di beni e servizi utili alle comunità nazionali ed ai loro componenti, eppure gravano pesantemente su di essi. A fronte di tutta questa roba, che implica distruzione, anziché produzione, di ricchezza attuale o potenziale, vengono creati mezzi monetari, creditizi e finanziari, con il carico di interessi, cioè di ulteriori mezzi finanziari, che gli stessi comportano.
A titolo di esemplificazione, si può fare riferimento alla spesa per armamenti. I governi stanziano a tale scopo annualmente migliaia di miliardi di dollari e si finanziano creando mezzi finanziari nella forma di titoli del debito pubblico, che a loro volta rendono interessi, cioè altri strumenti finanziari. Le imprese beneficiarie dei contratti per la fornitura degli armamenti, dal canto loro, si rivolgono alle banche, per ottenere, nella forma dell’anticipo, disponibilità finanziarie a fronte delle commesse da eseguire.
Le banche – anche questo è notorio – concedendo prestiti creano anch’esse moneta dal nulla, tramite il cosiddetto meccanismo del moltiplicatore dei depositi. Va opportunamente chiarito ai non esperti di materie economiche e finanziarie che non si tratta di stranezze o eccezioni o irregolarità commesse da questa o quella banca: si parla, infatti, del normalissimo e legalissimo modo di funzionare di qualunque banca moderna, quantomeno di quelle appartenenti al mondo occidentale (è, infatti, da ritenersi che, almeno per ciò che concerne il divieto degli interessi, le banche appartenenti al mondo islamico e rispettose della legge coranica funzionino in maniera forse anche notevolmente diversa). Ovviamente, in riferimento ai sistemi bancari occidentali, va invece sottolineato che anche la nuova moneta creata dal nulla rende interessi, cioè crea altra moneta e quindi ulteriori oneri per la collettività.
È inutile dire che neanche i mezzi monetari, creditizi e in genere finanziari entrano nella materialità dei processi produttivi di beni e servizi utili e acquistabili dal pubblico, sui quali, invece, gravano come una normale componente di costi. Come noto, nel mondo contemporaneo pressoché tutta la massa dei mezzi finanziari di qualunque genere in circolazione è assolutamente priva di valore intrinseco, essendo stata “sospesa”, dal 1971, la convertibilità in oro del dollaro (ultima moneta con tale caratteristica fino ad allora sopravissuta), mentre ha un valore immaginario, necessariamente variabile e precario in termini reali, dipendente dall’importo evidenziato dal relativo supporto cartaceo o magnetico e dagli umori e timori dei possessori, oltre che dall’andamento dell’economia e dalle decisioni delle istituzioni e autorità politiche e monetarie.
I governi e le autorità monetarie non appaiono assolutamente in grado di padroneggiare la situazione, che essi stessi hanno prodotto, tramite una legislazione ed una gestione eccessivamente permissive. È il caso di sottolineare che il sistema capitalista moderno è assai recente e poco collaudato, tenuto anche conto che, avendo goduto di ampie fasi di espansione territoriale, di progresso tecnologico e di ricostruzioni postbelliche, non è stato mai messo veramente alla prova, come invece sta accadendo nell’epoca odierna. In particolare, non è stata verificata la tenuta di norme, istituzioni e strumenti relativi alle attività bancarie e finanziarie, se non parzialmente, in occasione delle grandi crisi di fine ‘800 e del 1929. E tali precedenti, come noto, sono tutt’altro che rassicuranti.
L’attuale situazione storica sembra dare piena ragione ai padri fondatori, come John Locke, che già circa 300 anni fa aveva attribuito alla moneta un valore immaginario, o David Hume, per il quale “nessuna banca potrebbe essere più utile di quella che immobilizzi tutto il denaro che riceva, e non aumenti mai la circolazione monetaria”, o Adam Smith, il cui pensiero si caratterizza per una estrema diffidenza e contrarietà verso le società di capitali, gli strumenti finanziari e l’economia di carta in genere.
Il rimedio appropriato alle cause finanziarie dei mali del mondo odierno, come peraltro intuitivo, sarebbe la definanziarizzazione, da attuarsi tramite la elevazione della percentuale di riserva obbligatoria per le banche o, meglio ancora, con il blocco della ulteriore espansione monetaria del credito bancario, come suggeriva Hume. Ma è del tutto inutile proporre la adozione di provvedimenti di tal genere alle autorità nazionali sia governative che monetarie ed alle istituzioni finanziarie internazionali, forse sinceramente convinte della razionalità della loro follia o, più verosimilmente, non in grado di “liberarsi dalla prigione degli affari e della politica”. Tocca quindi alla gente comune, ammesso che si sia ancora in tempo, organizzarsi collettivamente per riappropriarsi della ricchezza affidata in gestione al sistema bancario e finanziario, attuando, per quanto possibile, un processo autogestito di definanziarizzazione dell’economia mondiale e battendosi per il ripristino di diritti, garanzie e regole eliminati soprattutto nell’interesse delle multinazionali e per la tassazione equa, cioè progressiva, delle rendite finanziarie.
Un’ultima annotazione si impone circa il nesso dei temi trattati con i recenti tragici avvenimenti negli Stati Uniti ed in Afghanistan.
Si è detto e scritto che chi afferma la complicità o la “benevola disattenzione” dei servizi segreti USA verso gli attentatori dell’11 settembre sarebbe affetto da paranoia antiamericana. E tuttavia, allo stato delle conoscenze, la convinzione che il vero nemico dell’umanità e della vita sulla terra sia l’apparato militare-affaristico-finanziario attualmente dominante negli Stati Uniti appare tutt’altro che ingiustificata o infondata; né avere una tale convinzione significa essere antiamericano. Il popolo americano non ha altri nemici, se non coloro che hanno organizzato ed eseguito l’attentato, i loro complici ed il gruppo di potere che governa il paese e sistematicamente ne distrugge la ricchezza ed il futuro.
Più in generale, sia nell’ambito delle singole nazioni che a livello globale, non si vede come possano instaurarsi condizioni durature di pace e benessere, senza la eliminazione degli apparati militari, affaristici e finanziari, strutturalmente finalizzati alla perpetuazione di condizioni di guerra e distruzione di ricchezza.

maggio - agosto 2002