Voci -
Le donne tra internazionalismo e globalizzazione
Il ”movimento dei movimenti” porta oggi alla luce la tendenza di fondo della fase storica attuale: la crisi dell’ideologia del pensiero unico e delle magnifiche sorti e progressive della globalizzazione neoliberistica e il concomitarsi dei sussulti sociali e delle sofferenze umane che la globalizzazione produce su scala planetaria.
Il “movimento di movimenti”, nella più eterogenea e sfaccettata molteplicità dei popoli e dei soggetti che lo compongono, sul finire del XX secolo porta in superficie e proietta ovunque l’esistenza sommersa di ampi e diversificati fenomeni tellurici di disagio, critica e opposizione al nuovo ordine imperiale. Evidenzia l’emersione di una domanda sociale e politica del tutto nuova e il profilarsi della spinta a un’inedita significazione di senso della realtà. Si tratta di un processo complesso e di non facile lettura, alimentato dalla convergenza di contraddizioni e di percorsi spesso diversissimi e tortuosi.
Una moltitudine di frammenti sociali, incarnazione postmoderna del “popolo”, dispersa nelle nicchie del disordine planetario, cerca nuovi orizzonti in questo presente che il capitale e i suoi signori vogliono deprivato di senso, tutto sussunto nella onnivora pervasività del mercato e delle sue leggi. Frammenti che, presenti nel movimento quale grande alveo unificante, mostrano le crepe della globalizzazione nella materialità del suo farsi e delle sue contraddizioni interne.
Questo movimento fa oggi da evento spartiacque e periodizzante, avendo la forza dirompente di segnare una cesura di non ritorno nell’irrompere sulla scena pubblica delle grandi questioni eco-umane che i processi in atto producono. Di questo spartiacque, tutto ancora in fieri, può considerarsi prologo l’evento femminista della IV Conferenza Mondiale Onu tenutasi a Pechino nel 1995. E il fatto che il movimento abbia rimosso dalla memoria e dai propri riferimenti politici quella data costituisce senza dubbio la ragione principale che rende necessario un riposizionamento critico del movimento mondiale delle donne rispetto al “movimento dei movimenti”.
È ancora in ombra, infatti, il versante di genere delle contraddizioni della globalizzazione, il contributo decisivo in termini di elaborazione teorica e agire concreto sui temi della globalizzazione e delle sue strategie neoliberiste che le donne hanno prodotto nell’ultimo ventennio lungo un percorso che ha trovato nella Conferenza di Pechino il punto di approdo più ricco e fecondo. A metà degli anni ’90, quando la scena mondiale appariva in larga parte deprivata di voci altre e critiche rispetto allo stato di cose, migliaia di donne riunite nell’assise ufficiale della IV Conferenza Onu e in quella di movimento a venti km di distanza nel villaggio di Huairou, elaborarono contributi decisivi sulle grandi questioni della globalizzazione.
Pechino risulta, alla luce dei recenti fatti e dello stato attuale del movimento, una Porto Alegre ante litteram.
L’impatto di genere della globalizzazione, ovvero gli effetti reali sulle condizioni materiali, culturali e sociali delle donne e degli uomini, è fortissimo. Le donne, parte oggettivamente più colpita dai processi della globalizzazione, costituiscono il nocciolo duro del movimento contro questo processo: la condizione delle donne è, dunque, metafora dei disastri sociali della contemporaneità. Nel senso che i rapporti di genere, nella materialità delle vite e nella significazione simbolica dell’intreccio pubblico-privato, continuano a costituire il punto focale delle contraddizioni tra la modernizzazione e l’arcaico che resiste e si riproduce.
Dall’insieme di queste contraddizioni e dall’esperienza del proprio genere le donne possono trarre la massima capacità di lettura critica della realtà e la massima forza di cambiamento. Riconoscere la centralità dei ruoli, dei bisogni, dei desideri e delle esperienze delle donne rispetto al destino del nostro pianeta, acquisire come fatto la necessità che esse siano protagoniste, non aggiuntive, nella progettazione e nella realizzazione di un mondo altro da quello presente, è la questione di fondo che le donne hanno posto nel complesso e intenso percorso di relazioni e discussioni internazionali che da Pechino si è protratto fino ad oggi: in questo senso, non è più possibile ignorare l’autoevidenza che le donne sono un soggetto internazionale. Lo sono singolarmente in un variegato emergere di leadership femminili, dalla Norvegia al Nicaragua, e collettivamente come reti di intesa e scambio di donne che attraversano tutto il pianeta.
Per un verso la politica delle donne rischia la deriva indotta dai processi in atto che inaspriscano la tradizionale asimmetrica divisione sessuale dei poteri, trascinando le donne in un’idea di emancipazione-modernizzazione guidata dalla dittatura del mercato ma, per converso, allo stesso tempo spinge su posizioni di resistenza critica a questo passaggio.
Da circa un ventennio è in corso una riflessione internazionale, istituzionalizzata nell’Onu ma arricchita e significata concretamente da uno straordinario sviluppo di energie femminili dislocate in tutto il mondo e liberamente interagenti in reti sempre più attive che costituisce una realtà internazionale non più ignorabile. Le donne organizzate in gruppi, associazioni, Ong, nelle istituzioni e nei centri di ricerca, hanno messo a fuoco una nuova consapevolezza dell’insufficienza degli strumenti internazionali che mantengono invisibili i bisogni, i desideri e occultano le violazioni e le violenze subite.
È in costruzione una grande mappa politica di progettualità in un andirivieni tra luoghi e condizioni diverse che costituiscono l’intelaiatura di un nuovo internazionalismo della politica. Alle soglie del Duemila una molteplicità femminile inaudita ha iniziato a costruire luoghi e scenari da Stati Generali dove le grandi questioni dell’umanità fanno corpo a corpo con il mercato e i poteri forti costituiti.
Occorre una lettura globale dei processi in atto capace di cogliere specificità, aporie, diversificazioni, non ignorando che dietro le situazioni di recrudescenza esplosiva si nascondono le dinamiche della globalizzazione e, insieme, forme diverse di resistenza locale.
Un mosaico di eventi internazionali, nazionali e locali è andato componendosi in tutto il pianeta a partire dall’8 marzo 2000 quando fu lanciata, contemporaneamente in quasi duecento paesi, la “Marcia Mondiale delle Donne contro le violenze e le povertà”.
Dopo Pechino, le istituzioni nazionali e internazionali sono riuscite a fare molto poco e le condizioni delle donne, aumentando e acuendosi le forme delle povertà, i conflitti e le guerre su scala planetaria, sono ulteriormente peggiorate. Eppure, i piani di sviluppo istituzionali prevedono oggi per le donne forme di privilegio e di tutela mai contemplati.
Il rapporto tra i movimenti delle donne e i luoghi misti del “movimento dei movimenti” non è affatto di facile descrivibilità, né di facile praticabilità.
Le discussioni che hanno accompagnato gli appuntamenti di mobilitazione, in particolare quello anti-G8 di luglio 2001 a Genova passato agli onori della cronaca attraverso una pressione massmediatica selettiva degli eventi da cronaca nera, hanno affrontato molti punti dirimenti di analisi politica rispetto ai processi della globalizzazione e iniziato l’individuazione di un posizionamento autonomo femminista rispetto al movimento.
Questo tipo di autonomia ha radice proprio nella capacità di indagine a partire da un approccio che metta al centro il paradigma di genere, i rapporti sociali tra i generi e i percorsi del femminismo politico, facendone chiave di lettura essenziale per interpretare la contemporaneità e portare completamente alla luce il versante di genere dei disastri della globalizzazione, sia sul terreno delle conseguenze effettive dei processi in atto, sia su quello di un’assunzione di responsabilità politica delle donne nel costruire percorsi e trame di resistenza alternativa alle feroci dinamiche in atto. Non escludendo da questa ricostruzione le modalità per essere movimento nel movimento, insieme di soggetti politici e non già mera fusionalità indifferenziata o spezzone aggiuntivo di un movimento neutro, per ritrovare le fila di una politica sempre più segnata dalla responsabilità femminile che torni a parlare a tutte e tutti.
Il dentro e fuori delle donne rispetto ai processi e alle dinamiche in atto, la loro compromissione con i meccanismi della violenza, la responsabilità delle donne per l’incapacità di pensare forme altre di risposta politica e, insieme, l’emergere di una soggettività femminile autonoma ma dialogante con il movimento di resistenza alla globalizzazione, costituiscono un fondamentale terreno di interpretazione della modernità.
Il movimento antiliberista ha una forte matrice pacifica e affonda le sue radici in settori sociali non adusi né all’esercizio, né all’ideologia delle armi.
Ma sono presenti nel movimento anche una diffusa vocazione guerriera e una cultura machista, più o meno esplicita, la tentazione di alcune sue parti a costruire la propria visibilità mediatica, il proprio portato simbolico e il proprio immaginario collettivo in forme di auto-rappresentazione e in pratiche mimetiche di modalità e gestualità di controllo del territorio, di fronteggiamento del potere tali da riprodurre simbolicamente i rituali tipici della passione maschile della guerra.
I fatti di Genova durante i giorni del G8 del luglio 2001, punto di snodo da cui ripartire, costituiscono su questo terreno un prius ineludibile. In questione non è il falso dilemma “violenza sì, violenza no” o, ancor più ovviamente, il dato storico che dalle dittature e dalle oppressioni infami i popoli difficilmente avrebbero potuto innescare processi di liberazione senza il ricorso alle armi. Il punto in questione è certamente un altro: la necessità di un processo di decostruzione critica dei rituali di guerra che così alla radice segnano le vicende storico-antropologiche, culturali e simboliche, la necessità di una rivisitazione dei meccanismi della “balcanizzazione della ragione”, di una sottrazione al fascino omologante delle ritualità guerresche, dei deliri di onnipotenza della forza eroica, l’elaborazione di una cultura che torni a dare senso a un’idea di società senza guerre e senza eroismi armati.
Le donne hanno elaborato questo discorso di presa di coscienza e di assunzione di responsabilità non già per ontologica inclinazione alla pace o per essenza biologica del loro essere madri, ma più probabilmente perché nella loro storia sociale e simbolica c’è una parte che parla di un diverso mondo possibile.
Le forme di rispecchiamento collettivo in atti di violenza simbolicamente sublimati nel sangue sparso eroicamente in atti sacrificali narrativamente epici, si fa speculare all’epica ipocrita delle guerre umanitarie e delle missioni di pace armate, una visione della politica che ha aperto il ’900 e che la sinistra riformista ha interiorizzato pienamente, subendola, agendola e pagando oggi un prezzo pesantissimo.
Oggi è in gioco la democrazia per come donne e uomini l’hanno conosciuta e costruita, anche e soprattutto come riconoscimento della legalità del conflitto.
Occorre allora sottrarsi radicalmente a queste logiche onnivore attraverso un riposizionamento autonomo rispetto alla spinta ai rituali di guerra fondativi della nostra cultura. La simulazione della guerra, d’altra parte, lo schiacciamento su posizioni difensive del movimento nella reiterazione all’infinito dell’icona guerresca ed eroica dei piccoli guerrieri no-global che arrancano attorno alle palizzate delle zone rosse del potere, rischiano di riaccendere e legittimare l’eroismo militare come strumento del cambiamento. Ma, soprattutto, restringono e immiseriscono la posta in gioco della partecipazione attiva, di un nuovo processo di soggettivazione critica e consapevole, di un’azione efficace di cittadinanza attiva che costruisca, nella mobilitazione consapevole e condivisa di uomini e donne, nuovi spazi pubblici, nuove idee della politica, nuove istanze e nuove modalità di democrazia partecipata, nuovi processi di decisionalità dal basso, la capacità dei soggetti di moltiplicare sul territorio i percorsi di ricerca di alternativa al dominio del mercato e al degrado dell’opulenza e della miseria.
Perché mai come oggi il “movimento dei movimenti” non può che essere un’esperienza di società, di donne e di uomini cui si aprono gli spazi per la rivoluzione dell’ordine mondiale.