Previsioni - Il futuro, gira e rigira, è nelle mani dei pescatori
Le misure di politica della pesca, adottate in questi anni dai governi nazionali e dall’Unione Europea per contrastare lo sfruttamento indiscriminato delle risorse del mare, sono considerate dai pescatori italiani fra le principali cause della crisi del settore ittico.
Si lamenta l’eccessiva produzione di regolamenti, leggi e normative di difficile interpretazione perché tendono a sovrapporsi, nonché l’assenza di flessibilità nell’applicazione delle restrizioni imposte. Queste ultime sono contestate perché, a parere dei pescatori italiani, non colpiscono nella stessa misura i paesi marittimi membri dell’Ue (il riferimento è alla Spagna e ai paesi del nord Europa); inoltre, non potendo essere vincolanti per i paesi costieri del Mediterraneo non aderenti all’Ue e per i Paesi Terzi, finiscono per esserlo solo per i pescatori italiani. Sotto accusa è l’incapacità propositiva dei nostri governi in tema di politiche della pesca e la mancanza di protagonismo dei nostri rappresentanti a Strasburgo, al fine di far valere gli interessi della nostra marineria da pesca. Non sarebbe difficile obiettare ai nostri pescatori che le restrizioni adottate dall’Ue si sono rese necessarie a causa del saccheggio indiscriminato, cui sono state sottoposte le risorse del mare, del sovradimensionamento della flotta peschereccia e lo scempio dei fondali marini, provocato dall’adozione di sistemi di pesca e dall’uso d’attrezzature (specialmente quella a strascico) molto distruttive. Ma le polemiche sono inutili e dannose. Il rischio è di far passare degli onesti e generosi lavoratori per spregiudicati attentatori dell’ambiente marino. La verità è che attorno ai problemi legati alla tutela dell’ambiente e delle sue risorse non c’è sufficiente consapevolezza dei danni arrecati all’ecosistema marino da metodi di pesca dannosi.
Ciò che desta maggiore preoccupazione è che nell’ambiente dei pescatori non c’è ancora sufficiente conoscenza della qualità della crisi. Tutto ruota, ancora, attorno al problema delle restrizioni. Ma dalla crisi non si esce abolendo o riducendo le restrizioni; ciò può servire per tirare il fiato nel breve e medio periodo. Nel lungo periodo si dovrà pensare a riorganizzare l’intero settore, sapendo due cose fondamentali: che la risorsa ittica va salvaguardata, perché materia prima attorno a cui ruota tutto il sistema pesca, e che l’ammodernamento del sistema commerciale dell’ittico serve a contrastare efficacemente il fenomeno dell’importazione. I dati di consumo del pesce rivelano una richiesta sempre maggiore di questo prodotto, i cui valori proteici e nutritivi sono via via sempre più apprezzati nelle diete alimentari dei paesi della CEE. Non è la domanda che fa difetto: in Europa è in fortissimo aumento ed in Italia è raddoppiata rispetto a qualche anno fa. Ciò che è entrato in crisi, ormai da qualche tempo, è il vecchio modello su cui si basava il mercato del pesce, impostato sul presupposto che le risorse ittiche sono inestinguibili. Così non è, necessita un autocontrollo nel prelievo delle risorse e l’Ue ha adottato misure di restrizione, che però stanno mettendo in ginocchio il comparto della pesca marittima nel basso Adriatico. Sta di fatto che oggi ad una domanda stabile del prodotto ittico non corrisponde un’offerta altrettanto stabile. Regolato questo disequilibrio, il prezzo del pesce al mercato tornerà ad essere più remunerativo per le imprese. Perché ciò avvenga, è necessario, nell’immediato, uscire dalla morsa delle restrizioni che obbliga tutta la flottiglia da pesca a fermarsi contemporaneamente, dal venerdì alla domenica, per il riposo tecnico e, per sei settimane, per il fermo biologico.
Il prodotto ittico è di facile deperimento; le sue virtù organolettiche sono elevate, quando il prodotto è fresco e può raggiungere in breve tempo la tavola dei consumatori. Qualità del prodotto pescato e sua freschezza devono costituire gli elementi fondamentali di una strategia commerciale, che non deve puntare solo alle esigenze delle città rivierasche ma a fornire in tempi brevi i posti più lontani. E’ necessario, inoltre, tener presente le fluttuazioni stagionali del prodotto ittico e trovare le strategie necessarie per tutelare le diverse specie ognuna delle quali ha tempi differenti di riproduzione. Per le qualità meno pregiate la lavorazione del prodotto potrebbe risultare una scelta vincente sul piano del risultato economico complessivo. Ma tutto ciò richiede un sostanziale cambiamento della maniera di fare impresa, limitata finora a realizzare un’elevata quantità di pescato per conseguire migliori guadagni. Non sarà più così ed è bene capacitarsene, pur nella consapevolezza che non è semplice compiere il salto di qualità, in un settore in cui non c’è stato ricambio generazionale e dove l’età media degli addetti è alta per mettersi in discussione. Si tratta di compiere la terza rivoluzione in cinquant’anni: questa volta di tipo culturale.
Una prima rivoluzione avvenne, infatti, negli anni ’50: fu la rivoluzione tecnologica. Riguardò la motorizzazione dei natanti, l’uso delle fibre sintetiche nella costruzione delle reti, la congelazione a bordo del pescato e la dotazione a bordo dei pescherecci di strumenti per una navigazione sicura; e, con essa, la possibilità di esercitare la pesca in zone nuove, più distanti dalla costa, e per periodi più lunghi. Ne seguì una forte crescita della flotta peschereccia, in numero e in tonnellaggio di stazza e un notevole incremento del pescato. La seconda rivoluzione si ebbe alla fine degli anni ’60, quando cominciò a porsi, a livello internazionale, il problema di un uso più razionale delle risorse del mare e in particolare della pesca. Questa fu di tipo giuridico nel diritto del mare: portò a definire mare territoriale quello dentro le 12 miglia dalla costa e ad abrogare il principio della libertà della pesca in alto mare. Si fece così la conoscenza delle prime restrizioni, le quali per la verità non provocarono particolari problemi all’economia delle imprese di pesca, perché il mercato garantiva una buona remuneratività alla produzione. Così come non provocarono eccessivi danni i ripetuti aumenti del gasolio, che per i natanti del basso Adriatico hanno una grande incidenza nella formazione del prezzo alla produzione, costretti a lunghi spostamenti per raggiungere le zone più pescose. Convertirsi ad una nuova idea di fare impresa è ben altra cosa rispetto agli adeguamenti richiesti alle imprese da pesca dalle due precedenti rivoluzioni. La terza sarà una rivoluzione culturale e richiederà a questa categoria di lavoratori di pensare e agire in maniera collettiva, rispetto al pensare ed agire in maniera individuale come accaduto finora. Naturalmente ci vorrà del tempo perché ciò accada. Con questa consapevolezza, le organizzazioni sindacali degli imprenditori e dei lavoratori sono impegnate a convincere sia il Governo italiano sia l’Ue ad una maggiore flessibilità nell’adozione delle restrizioni: le principali riguardano il regolamento sulle taglie, il fermo tecnico settimanale e il fermo biologico.
Il regolamento sulle taglie (allegato IV CEE 1626/94) fa divieto di pesca, detenzione a bordo e commercializzazione dei prodotti di taglia piccola, e nello stesso tempo definisce il tipo di rete da usare. Assume rilievo il tipo di rete perché questa taglia di pesci rappresenta il 60% delle catture possibili nell’Adriatico. Sta di fatto che le reti autorizzate non impediscono la cattura delle piccole taglie che, per evitare pesanti sanzioni, sono rigettate in mare anche se ormai è una risorsa perduta. Il fermo tecnico settimanale consiste nel limitare la pesca ai natanti, dal lunedì al venerdì, con divieto nelle giornate di sabato e domenica. Non sono autorizzati recuperi di giornate non lavorate a causa di avverse condizioni meteo-marine, o per avaria al natante. Le giornate lavorate nell’arco dell’anno non sono più di 170, considerando il fermo tecnico, il fermo biologico, le varie festività, le avverse condizioni del mare e le avarie ai natanti. Una maggiore flessibilità nel recupero delle giornate perse significherebbe dare all’impresa la possibilità di programmare meglio la loro attività. L’esperienza dimostra che il risultato di questa restrizione si traduce in un ulteriore depauperamento delle aree di pesca più vicine ai porti d’armamento raggiungibili in più breve tempo. Il fermo biologico, della durata di sei settimane continuative, è adottato al fine di permettere il riposo del mare il ripopolamento di alcune specie marine. Le navi che esercitano nel Mediterraneo la pesca marittima con i sistemi a strascico e traino pelagico sono obbligate a sospendere l’attività di pesca nel periodo stabilito dal Ministero della Marina Mercantile. Anche di questa misura si contesta l’efficacia perché, dopo una sosta così prolungata, la ripresa dell’attività è così intensa da vanificare in poco tempo lo sforzo di ripopolamento.
Senza l’introduzione d’elementi di maggiore flessibilità nell’applicazione delle restrizioni comunitarie la sopravvivenza della nostra marineria da pesca è a rischio; lo dimostra il fatto che molte imprese preferiscono rottamare i natanti. Solo nel compartimento marittimo di Molfetta ne sono stati rottamati oltre quaranta; altri natanti possono seguire lo stesso destino alla riapertura del secondo bando Cee. La nostra marineria da pesca, soprattutto quella del basso Adriatico, oltre a lamentare fattori di debolezza propri, è penalizzata da una generale insufficienza d’infrastrutture e di servizi mirati a rafforzare la competitività delle imprese valorizzandone il prodotto. La vetustà della flotta peschereccia provoca aggravi nei costi di gestione. La difficoltà a recuperare forza lavoro qualificata, nelle diverse tecniche da pesca, specie tra i giovani, sta creando problemi irrisolvibili a breve termine. La storica incapacità ad unire le forze annulla le potenzialità di sviluppo del settore. Mancano o sono assolutamente insufficienti le infrastrutture di servizio e le dotazioni portuali, i magazzini, i depositi. Mancano le strutture per la conservazione del pescato, le strutture per la lavorazione, preparazione, trasformazione, conservazione e confezionamento del prodotto ittico.
Per ciò che riguarda la vetustà dei natanti, le statistiche confermano che la manutenzione ordinaria e straordinaria delle imbarcazioni da pesca, dopo 15 anni d’attività, aumenta in maniera esponenziale con un’elevata incidenza sui costi generali. L’età media dei pescherecci italiani è elevata, pari a 23 anni, e ciò conferma il basso grado di rinnovamento che caratterizza il settore. La percentuale dei natanti con età inferiore a 10 anni è nel complesso modesta e corrisponde a circa il 16% dei battelli e del tonnellaggio totale. I battelli con età maggiore di 20 anni rappresentano il 53% del complesso di natanti; dunque, oltre la metà della flotta italiana è stata costruita più di 20 anni fa. L’età media di quelle iscritte nelle marinerie della provincia di Bari è di 24 anni mentre quelle del compartimento marittimo di Molfetta è di 28 anni. Un’età media così elevata è in parte giustificata dal fatto che dal 1986 non sono più autorizzate licenze di costruzione di nuovi natanti se non nel caso di uno dismesso. Legata all’età dell’imbarcazione, secondo le stime dell’Ue, è la frequenza degli infortuni che si registrano a bordo. Per tale ragione è stata presentata una risoluzione del Parlamento Europeo del 12 marzo 2001, che “chiede che sia progressivamente vietato alle imbarcazioni con oltre 20 anni di continuare a praticare l’attività di pesca, salvo che non sia possibile dimostrare che esse siano in perfette condizioni”. Quella delle condizioni di vita e di lavoro a bordo dei pescherecci è diventata la questione centrale su cui si concentrano le attenzioni e gli interventi da parte dell’Ue. La stessa risoluzione “invita gli armatori ad integrare nella costruzione delle navi e delle attrezzature le innovazioni tecnologiche che consentono di migliorare le condizioni di lavoro dei pescatori”.
A questo riguardo non ci possono essere dubbi. La vetustà delle barche rappresenta un impedimento alle applicazioni delle misure di sicurezza, quando le stesse richiedono interventi che interessano la struttura delle barche. Ancora oggi i pescherecci che si costruiscono continuano a rispondere quasi esclusivamente alle esigenze della pesca; da ora in poi devono considerare prioritaria la sicurezza a bordo dell’equipaggio.
Deve far riflettere e desta preoccupazione il fenomeno dello scarso interesse dei giovani per il lavoro nel settore della pesca marittima, soprattutto quando avviene in regioni come la nostra, ad elevata disoccupazione giovanile e d’antica tradizione marinara. Si fa enorme fatica a formare gli equipaggi per le battute di pesca settimanali, e il fatto può apparire strano se si considera che nel solo compartimento marittimo di Molfetta oltre quaranta natanti sono andati a rottamazione. Non essendosi registrate richieste di lavoro da parte della manodopera messa in libertà è assai probabile che la stessa abbia scelto attività di lavoro meno pesanti e forse più remunerative anche se lontano dalle famiglie. Si è provato con la manodopera straniera senza successo. Nel 1999, per iniziativa dell’Associazione Armatori da Pesca di Molfetta, fu tentata una collaborazione con il governo albanese per impostare una politica comune della pesca nel basso Adriatico. Dei 20 giovani albanesi inviati per apprendere le tecniche di questo mestiere, continuano l’apprendistato soltanto poche unità. è diffuso il convincimento che il lavoro in mare, sui natanti da pesca, è pesante e per poterlo praticare bisogna godere sempre di una buona salute fisica. E’ pesante non perché è richiesto un particolare impegno fisico, ma perché si svolge in condizioni disagevoli sia per gli spazi ridotti a causa delle attrezzature ingombranti sia per la giornata lavorativa molto lunga - in media 12 ore - con pause distribuite in maniera irregolare. I dati che l’Ue fornisce annualmente fanno della pesca un settore in cui è molto elevato il rischio di incidenti a causa delle condizioni di lavoro; il 40% degli stessi accadono per disattenzione in seguito allo stress derivante dall’accumulo di disagio. è un lavoro che col trascorrere degli anni non è cambiato nelle sue tecniche; sono rimaste sostanzialmente le stesse tranne la gettata e il ritiro delle reti che avviene con l’ausilio d’argani elettrici.
Le figure in ordine d’importanza a bordo dei pescherecci sono quelle del comandante, del motorista, del capopesca, del marinaio e del mozzo. Nel settore vige il contratto di lavoro “alla parte” ed è stabilito un minimo monetario garantito dal contratto nazionale di lavoro. Il contratto alla parte è una variante del lavoro a cottimo; il guadagno si lega non solo alla quantità di pescato ma anche alla qualità e al valore di mercato al momento del suo conferimento. Il contratto alla parte è regolato da consuetudini locali. Presso la nostra marineria da pesca, esso funziona sottraendo ai ricavi i costi di gestione della barca e dividendo il risultato a metà. Delle due parti una spetta al proprietario della barca e l’altra metà va all’equipaggio. Il guadagno medio mensile parte dai 4 milioni di lire del comandante ed a scalare arriva ai 1,8 milioni di lire per il mozzo. Se il lavoro a bordo delle barche da pesca non suscita alcun entusiasmo tra i giovani, una qualche ragione deve pur esserci dal momento che la maggior da parte delle famiglie di pescatori e dei proprietari di motopescherecci hanno indirizzato i loro figli verso altri mestieri e professioni. Si tratta a questo punto di capire bene le motivazioni e cercare di rimuovere gli ostacoli per avvicinare i giovani ad una professione che sebbene faticosa non risparmia gratificazioni a condizione che tutto il settore della pesca compia il salto di qualità del quale abbiamo parlato prima.
Un’ultima considerazione per finire. La marineria da pesca della nostra regione fa benissimo a denunciare le insufficienze delle politiche dei vari governi ai diversi livelli (europeo, nazionale e regionale), sapendo però che ciò non l’autorizza a sentirsi immune da responsabilità se la crisi coglie il settore incapace di prendere in considerazione le iniziative idonee a superare i ritardi esistenti. A meno che non bisogna dar ascolto a quanti danno della crisi una lettura di tipo geopolitico. Abbiamo ascoltato in vari convegni affermazioni del tipo: “A livello centrale si ritiene che la pesca pugliese sia troppo aggressiva e competitiva, per questo bisogna limitarne la capacità. E questo è stato fatto. La crisi è voluta dall’alto, da volontà chiare a livello politico”. A rafforzare questa tesi, cioè che non esiste una crisi della pesca italiana, si porta l’esempio delle marinerie siciliane, le prime a livello europeo, che potendo contare su una regolamentazione autonoma, duttile e flessibile, non sono state lambite dalla crisi. A noi piace invece guardare alle marinerie marchigiane, alla loro organizzazione e alla forza contrattuale in virtù della quale riescono ad orientare l’indirizzo legislativo in materia di pesca. Una solidità che si esprime nella capacità di assumere, in forme associate, iniziative imprenditoriali a sostegno del settore pesca. In quelle zone la crisi non è avvertita dal momento che il trend positivo della produzione e soprattutto del commercio non ha subito rallentamenti.
Il futuro, gira e rigira, è nelle mani dei pescatori. |
maggio - agosto 2002 |