La città di Paraflà
di Ardor

Racconti

La spartizione
Oh sì, se aveva brigato! Oh sì, sì, se aveva brigato! Ne aveva combinate davvero tante! pur di diventare il Podestà della città di Paraflà.
Aveva tradito il suo migliore amico, gli ideali e s’era venduto perfino alcune proprietà. Oh, per Dio, quante ne aveva combinate!
E, finalmente, aveva realizzato quel sogno covato nel segreto dell’anima, con rabbia e frustrazione, per tutta la vita: era lì, seduto dietro la scrivania, nell’ufficio del Podestà. Era il Podestà, il Podestà della città di Paraflà.
Ma quando ripensava al passato e a tutto quello che aveva fatto, provava compassione per sé stesso ed un mesto sorriso appariva sulle sue labbra. Allora volgeva lo sguardo alla finestra ed il volto si faceva serio e assorto.
Da qualche tempo, ormai, era preda di una strana mania: trascorreva quasi per intero le giornate affacciato alla finestra preferendo le ore del meriggio quando quel muro alto e largo davanti a sé, di fronte alla finestra dell’ufficio del Podestà - quel muro di pietra bianca e sagomata, candida come un giglio, che terminava nel cielo lasciando scorrere uno strettissimo e chiuso viottolo tra sé e il palazzo municipale - s’indorava della luce del sole mentre l’azzurro del cielo diventava turchino per l’avanzare della sera.
D’inverno, il cielo grigio, le pietre purificate dall’acqua limpida della pioggia, i ramoscelli nudi di arborescenze solitarie e l’aria fredda e tersa, gli alleggerivano il cuore: pensava alla povertà, alla dolcezza della morte che tutto riduce al silenzio rendendo nulla di più che impercettibili gemiti le umane gesta.
“Vanità! Umana vanità!...” ripeteva tra sé con gli occhi smarriti nel cielo grigio. Poi reclinava il capo e chiusi gli occhi, lasciando fluire nella mente le immagini impresse, si faceva condurre dal mesto ticchettio della pioggia come da una nenia dei giorni d’infanzia, nelle terre lontane del candore e dell’innocenza.
Ora, ch’era giunta primavera, restava assorto ad ascoltare la sinfonia del vento il grido lacerante colmo di malinconia delle rondini che solcavano il cielo e meditava sui quei piccoli e deboli fiori gialli che qui e là sbucavano sulla candida pietra apparendogli come eremiti nel deserto.
“Oh! Cos’è quest’ossessione?” si domandava, chino sul davanzale della finestra, e contemplando tutte queste cose.
Cos’era quel muro che lo ammaliava, che imponente, dolce e tremendo rimprovero, gli copriva la vista sul mondo obbligandolo a guardare in su, a volgere lo sguardo al cielo, all’infinito, all’ineffabile? Giuseppe Contini, il Podestà della città di Paraflà, se lo chiedeva spesso senza trovare risposta e restava avvinto da quella presenza trascorrendo le ore di luce, alla finestra.
Al sopraggiungere della sera, la richiudeva e sedeva alla poltrona dietro la scrivania, rimanendovi ben oltre la chiusura degli uffici comunali, a rimirare l’insinuarsi attraverso i vetri dei raggi della luna che pian piano rendevano argentea la stanza del Podestà.
-”Posso entrare, Eccellenza?” - Chiese Giovanni, l’amico fedele di Peppino, il fedele servitore, una specie di angelo custode.
-”Entra pure Giovanni, ti prego.”
-”Eccellenza, mi scusi. Non avrei mai voluto disturbarla, ma... capisce..., c’è qui il Consigliere... si ricorda?”
- “Sì, Giovanni. Ricordo, ricordo tutto perfettamente...” - un sorriso bonario e triste al tempo stesso apparve sulle labbra di Peppino, seduto alla scrivania, mentre osservava colorarsi della luce giallognola del mattino quel ritaglio di muro che lo spazio della finestra lasciava apparire.
- “Ti prego Giovanni, occupatene tu. Io... vedi.... Ti prego, Giovanni...”
Giovanni accennò un inchino e uscì chiudendo la porta lentamente. Sentì un groppo in gola e gli occhi si velarono di lacrime: era commosso dall’umiltà di quell’uomo, dal suo candore.
Allora, con un cenno appena della mano, sostenuto da uno sguardo colmo di disprezzo, fece intendere al Consigliere di seguirlo.
Giovanni decise che da quel momento in poi, lui, si sarebbe occupato di tutto: nessuno, mai, avrebbe più osato infrangere la quiete dell’amico e turbarne le meditazioni.
Il Podestà continuava, così, a trascorrere le giornate preda di quella strana mania sempre chino sul davanzale della finestra con un cuore che ormai vibrava come una cassa di risonanza: il cinguettio di un passero solitario, il suono di una campana in lontananza... tanto bastava perché la vista gli si appannasse e lacrime rigassero le guance. A sera, richiusa la finestra, sedeva alla scrivania contemplando l’avverarsi quotidiano dell’incantesimo: l’argentarsi della stanza e lo spazio intorno avvolgersi nel manto del silenzio.
- “Carabinieri! Carabinieri!”- bussarono alla porta dell’ufficio di Peppino.
Egli era seduto al solito posto, anche quella sera, vittima com’era della malia che giorno dopo giorno lo consumava.
- “Carabinieri, Carabinieri! Aprite!”
- “Mi arresteranno, mi condurranno in Tribunale. E poi lì mi processeranno, mi chiederanno conto... ma di che? Cosa potrei mai spiegare loro? Quest’ossessione che mi sconvolge, che mi ammalia, che mi pesta il cuore? Il cielo, l’infinito e quel muro... l’ineffabile, l’inesprimibile, la gioia! Di che dovrei giustificarmi? Di essere innamorato?” - il Podestà pensava a tutte queste cose osservando il contrasto tra la quiete della stanza in cui il timido incedere della pallida luce della luna animava gli oggetti di ombre fantastiche e l’accalorarsi, l’affanno di quegli uomini dietro la porta.
-”Carabinieri! Aprite o sfondiamo la porta!”
Un sorriso illuminò il volto di Pepé, nascosto nella semioscurità della sera, mentre una rondine solitaria lanciò l’ultimo grido prima del sopraggiungere della notte.

maggio - agosto 2002