I marittimi e l'art. 18
di Carlo Caradonna

Sillogismi - Le modifiche che il Governo di centro destra sta approntando all’ art. 18 della Legge n. 300 del 1970, Statuto dei Lavoratori, norma volutamente ed impropriamente definita divieto di licenziamento.

In realtà ed in parole molto povere, tale disciplina tende a colpire solo licenziamenti privi di giusta causa o giustificato motivo (ed una contrazione del fatturato dell’ impresa, ad esempio, è annoverato fra di essi), obbligando l’imprenditore che abbia alle sue dipendenze più di 15 dipendenti a riassumere il lavoratore illegittimamente licenziato, ovvero a pagargli una penalità, calcolata in un certo numero di mensilità di retribuzione.
Questa è la norma terribile, che scoraggia la sana, media impresa italiana (oltre 15 dipendenti) dall’assumere lavoratori e che la spinge a restare sommersa oppure sottopotenziata! In realtà, sembra che le teste pensanti di questo esecutivo ritengano che il posto di lavoro sia una benigna elargizione, fatta dall’imprenditore al sottoposto e non una componente di un contratto a prestazioni corrispettive. Ovvero, tu lavori ed io ti pago. Orbene, non sconvolgerò certamente regole giuridiche consolidate affermando che da tutti i contratti di questo mondo ci si libera solo a causa di alcuni accadimenti, genetici o sopravvenuti, che comunque determinano l’impossibilità di continuare il rapporto (sostanzialmente una giusta causa oppure un giustificato motivo). Quando, tuttavia, tali condizioni non ricorrono e l’estinzione del contratto risiede nel mero arbitrio di una delle parti, l’altra, comunemente detta diligente, ha diritto al ristoro dei danni sofferti a causa della unilaterale decisione di controparte. Ebbene, per il nostro governo, tale meccanismo, ritenuto pacificamente applicabile a tutti i rapporti a prestazioni corrispettive, improvvisamente soffre una sola eccezione: il contratto di lavoro subordinato. Direi che siamo di fronte alla resa del diritto dinanzi all’economia, se riuscissi ad annoverare in quest’ultima scienza le ragioni dei novelli riformatori.
Ma c’è di più. Se pensiamo alla grande impresa allora ci rendiamo conto che il singolo lavoratore, già spersonalizzato dal tipo di struttura produttiva, una volta privato anche della facoltà prevista dall’ art. 18, diviene solo uno strumento nelle mani dell’imprenditore, ovvero un fattore della produzione di natura fungibile.
Credo sia veramente difficile cercare motivazioni più pretestuose per portare avanti la grande crociata di Confindustria e dei suoi accoliti governativi.
Dal mio osservatorio professionale, orientato da anni nel settore del diritto del lavoro marittimo e della previdenza marinara, la polemica assume caratteri ancora più grotteschi poiché da tempo, ormai, diverse compagnie armatoriali straniere, hanno trovato il modo per eludere la tutela legale italiana, avendo ugualmente, alle proprie dipendenze nostri connazionali.
Ma andiamo con ordine. Il nostro Codice della Navigazione è, a mio parere, una delle più precise normative di settore, avendo tutelato in maniera ottimale il lavoratore marittimo. E tutto ciò, nonostante la nascita dello stesso in pieno periodo fascista. Il che sta a significare che quando si affida il compito di legiferare a valenti studiosi del diritto, è meno probabile che il prodotto risenta di orientamenti più o meno filo governativi. A partire, inoltre, dal 1977, un’ altra pregevole legge di materia, la n. 135, ha ulteriormente rafforzato la tutela del marittimo. Si tratta della Disciplina della professione di Raccomandatario Marittimo. Di tale ultima legge, l’art. 4 è forse il più importante. Esso dispone, in sintesi, l’obbligo del raccomandatario marittimo che ingaggi lavoratori italiani per imbarco su navi di nazionalità diversa da quella del lavoratore, di accertare prima dell’imbarco ed attestare, sotto la propria responsabilità, alle Autorità Marittime, che i lavoratori siano stati assicurati previdenzialmente, per il previsto periodo di imbarco, con tutele non inferiori a quelle previste dalla legge italiana. Egli, inoltre, prima dell’ingaggio, dovrà fornire alla capitaneria di porto la prova che l’armatore abbia prestato un’idonea garanzia bancaria o assicurativa per il pagamento degli stipendi dei marittimi relativi al previsto periodo di imbarco.
Si tratta, in pratica, di una forma di tutela rafforzata del marittimo quando egli si trova ad essere alle dipendenze di un armatore straniero, difficile da raggiungere con gli strumenti del diritto italiano, al fine di costringerlo ad adempiere le proprie obbligazioni.
Dunque, il marittimo avrà sempre, in Italia, un interlocutore solvibile a cui dirigere le proprie istanze. Se a ciò si aggiunge la circostanza che il rapporto di lavoro va consacrato in un atto pubblico, la convenzione di arruolamento, stipulata dinanzi all’autorità marittima e che i crediti di lavoro del marittimo godono del privilegio speciale sulla nave, ovvero della possibilità di sequestrarla a titolo di garanzia, si giunge alla conclusione che siamo di fronte al mondo perfetto.
Il che, naturalmente, non è.
Qualora un armatore straniero, costituendo una propria rappresentanza all’estero, riesca a far firmare in quel luogo, a marittimi italiani dei normali contratti di lavoro, retti dal diritto straniero, ecco che salta tutta la preziosa tutela del marittimo italiano.
Mi è capitato ultimamente che un marittimo molfettese, dopo avere svolto vari imbarchi con una grande compagnia di navigazione estera, armatrice di navi da crociera, stipulando le regolari convenzioni di ingaggio, dinanzi all’Autorità Marittima Italiana, avendo per controparte il legittimo raccomandatario dell’armatore straniero, sia stato ingaggiato per recarsi nel Principato di Monaco, precisamente a Montecarlo, presso l’ufficio di una società che rappresenta in quello Stato la stessa compagnia di navigazione. Egli ha incontrato un manager italiano che, fornitolo di titolo di viaggio, lo ha spedito negli USA, come equipaggio di una nave armata dalla stessa impresa straniera, battente bandiera ombra. Naturalmente, sul libretto di navigazione del nostro connazionale non vi è traccia di tale rapporto, avendo richiesto al lavoratore il solo passaporto.
Tutto fila liscio finchè, dopo circa 15 giorni dall’inizio della navigazione, nelle acque dello stato di Bahamas, il Comandante della nave (italiano) gli ordina di svolgere attività rientrati in mansioni inferiori alla sua. Il lavoratore si rifiuta e viene prontamente licenziato, accompagnato al primo aeroporto utile e rispedito a Molfetta.
Avrete capito che le possibilità del lavoratore di impugnare il proprio licenziamento sono seriamente ostacolate, in primo luogo dall’assenza in Italia di un raccomandatario marittimo che garantisca le obbligazioni nascenti da quel contratto, in secondo luogo, dall’inapplicabilità ad un contratto di diritto straniero dello Statuto dei Lavoratori.
Ed ho notizia di diverse compagnie straniere che stanno ingaggiando nostri connazionali allo stesso modo, magari allettandoli con offerte di paghe migliori di quelle previste dalla contrattazione collettiva italiana. In questo modo è improvvisamente venuta meno la temuta concorrenzialità tra marittimi stranieri ed italiani, potendo assumere questi ultimi al prezzo ed alle condizioni contrattuali dei primi. Ovvero si ricerca la nota professionalità del marittimo italiano evitando, tuttavia, di sopportarne il costo, anche in termini di conseguenze derivanti da una normativa di tutela molto efficace.

Le grandi multinazionali, nel loro delirio di onnipotenza, ritengono di avere costruito un perfetto strumento per eludere le nostre leggi. Ed è evidente che per ottenere il risultato hanno anche investito in termini di consulenze professionali. Tuttavia, qualche falla c’è e una magistratura del lavoro attenta e preparata sullo specifico rapporto di lavoro nautico possiede margini per orientare gli esiti di vicende come quella descritta.
Riflettendo su queste vicende e sull’attuale agone politico circa le modifiche da apportare all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, nonché sullo strano sillogismo “licenziare meglio, lavorare tutti”, mi torna alla mente la campagna elettorale di Berlusconi, partita, guarda caso, a bordo di una nave da crociera. E ricordando i ridicoli manifesti del leader di Forza Italia (un presidente operaio…), faccio caso al fatto che egli non ha osato proporsi come presidente marinaio. Forse preferisce continuare a fare l’armatore.

maggio - agosto 2002