Il teatro. Momenti e terapie di liberazione
di Menico Copertino e Pasqua De Candia

Sperimentazioni

“Sembra che ci sia un sentiero che ci porta, mediante il ragionamento, direttamente a questa considerazione, e cioè: fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra anima resta invischiata in un male siffatto, noi non raggiungeremo mai in modo adeguato ciò che ardentemente desideriamo, vale a dire la verità. (...)Pertanto, nel tempo in cui siamo in vita, come sembra, noi ci avvicineremo tanto più al sapere quanto meno avremo relazioni col corpo e comunione con esso, se non nella stretta misura in cui vi sia imprescindibile necessità, e non ci lasceremo contaminare dalla natura del corpo, ma dal corpo ci manterremo puri fino a che Iddio stesso non ci avrà sciolto da esso.
E così liberati dalla follia del corpo, ci troveremo con esseri puri come noi e conosceremo nella purezza della nostra anima, tutto ciò che è puro: questo io penso è verità.”
Platone, Fedone.

Può sembrare strano partire da Platone per parlare di teatro, ma noi partiamo da Platone perché vogliamo parlare del teatro che avrebbe potuto essere e che non è stato, o meglio che ha dovuto seguire un percorso diverso, ha dovuto trans – gredire per essere.
Partiamo da Platone perché parliamo della prima rete, quella rete in cui il corpo cadeva, risucchiato; quella rete che avvinghiava, oscurava il corpo e lo soffocava, riducendone drasticamente lo spazio, il respiro, il significato, lo richiudeva come un folle in un manicomio. Platone, il “pescatore”, in termini più rigorosi di Socrate, lancia la rete e Nietzsche dichiara, urla “La tragedia greca è morta!”.
Partiamo da Platone, da quel percorso di cui ancora possiamo vedere le tracce; partiamo dalla prima rete a cui tante altre si sono aggiunte, facendo oggi dell’uomo, dei suoi movimenti limitati, il risultato di ciò che esse permettono o impediscono. Ciò che Platone auspica, la liberazione dalla “follia del corpo”, ha storicamente segnato la morte della tragedia greca; ha introdotto una distorta separazione, quella dell’anima dal corpo, separazione che egli riteneva fonte e strumento per raggiungere la verità - quale verità? esiste una verità?
L’ambivalenza simbolica del corpo comincia ad essere considerata ostacolo e Pan viene cacciato dalla scena teatrale. Pan, dio del corpo, degli istinti, che cadenzava il ritmo della danza tragica, la danza dei capri, in cui il corpo degli attori era esibito, esaltato; Pan, le danze, i ritmi - elementi in cui si raccoglieva il senso della corporeità nella sua espressione di vita e di fonte di vita - vengono rinchiusi, folli.
La terra corporea, che la tragedia rappresentava, è un pericolo di cui liberarsi. Pan, il reietto, è diventato il diavolo tentatore della tradizione cristiana.
La tragedia greca è morta; la prassi, che lascia aperto e gelosamente custodisce lo spazio del possibile, della costitutiva ambiguità, ha dovuto lasciare il passo alla verità, alla teoria.
L’Occidente si è appropriato di questo tracciato, che ha caratterizzato tutti i suoi successivi percorsi; percorsi in cui le cose, soggetti e oggetti, che si incontrano, hanno perso la loro specifica identità perché costrette ad essere rappresentate ed espresse da un valore generico: l’anima. Oggi il grande mostro bifronte che è il progresso scientifico e tecnologico, il dominio del lavoro morto, vuoto, l’automatizzarsi di comportamenti, di forme, risposte, rendono inutilizzabili sia i tradizionali percorsi linguistici, le tradizionali forme di comunicazione, incontro e confronto, sia la più profonda attività comunicativa ed espressiva del corpo. Abbiamo, quindi, bisogno di eventi che rompano le maglie delle reti per fornire al corpo una nuova possibilità di senso, una nuova possibilità di dirsi, raccontarsi, divenire e, all’uomo, la possibilità di rifarsi, ripensarsi, ricostruirsi un corpo, restituire valore al linguaggio fisico.
Verrebbe da chiedersi: è più giusto affermare che abbiamo un corpo o che siamo un corpo? Il teatro contemporaneo sembra affermare senza ambiguità questa seconda ipotesi, permettendo al corpo dell’attore di riappropiarsi in quanto tale, con la vita che gli è propria – non, quindi, come veicolo di una fantomatica anima superiore – dello spazio e del tempo scenici.
Il teatro, la danza, il canto forniscono le forbici per tagliare le reti, consentono al corpo di scomporsi e ricomporsi al di fuori di tracciati imposti all’esperienza dall’ordine sociale; consentono ai movimenti, alle voci di liberarsi, venire fuori, di rompere automatismi radicati nel quotidiano. Riscoprire una necessità, un valore nella danza, nel canto, nel teatro come azioni reali, efficaci sull’uomo e per l’uomo sono percorsi costantemente e fortemente perseguiti oggi.
Il teatro, in particolare, è una forma artistica completa che coinvolge l’uomo tutto, in quanto tale. Quest’arte antichissima - che anche nel nostro territorio sembra nutrirsi di nuovo vigore ed entusiasmo, nonostante sia spesso frustrata dal disinteresse delle istituzioni - fornisce lo spazio in cui l’uomo può essere quello che crede di poter essere, crea la grande magia di ricollegare le parti separate e riequilibrare la psiche. Il dio Pan torna a vivere e il teatro contemporaneo lo sceglie come proprio nume tutelare.
Siamo “uno, nessuno e centomila” sempre in rapporto con altri “uno, nessuno e centomila” oggetti , persone, funzioni, finzioni; siamo sempre in movimento da un oggetto ad un altro; il grande pericolo è sostare, sclerotizzarsi su un oggetto, immobilizzarsi in una forma. Per restare libero nella società dell’apparente indispensabilità dei media, l’uomo dovrà sviluppare sempre più un’altra forma di comunicazione: la sua “follia del corpo”, quella che gli permette di entrare ed uscire da vari personaggi in occasioni e momenti diversi.
Fare teatro diventa salutare in quanto permette di giocare con il meccanismo di identificazione, all’interno del quale l’identità è il terreno delle dispute, il terreno in cui incertezza, estraneità, insicurezza non sono eliminabili e l’essere qualcuno o qualcosa significa essere continuamente nel movimento, sul punto di aprirsi, esprimersi, andare oltre, verso altro. Il teatro non è semplicemente spettacolo o rappresentazione; il teatro è un’azione reale in cui l’uomo – attore interagisce, si mette in gioco, si crea e si trasforma, senza fissarsi, stanziarsi stabilmente. Il corpo si libera, fluisce, fonda nelle sue dinamiche l’espressione, le voci, i respiri, le danze, i gesti. E’ uno scrollarsi continuo di corazze accumulate, di giudizi, sistemi sovrapposti da altri. Il canto, la danza, il teatro: momenti e terapie di liberazione dai compromessi, dai “vestiti troppo stretti”, che troppo spesso si è costretti ad indossare; da necessità o da altri che te li impongono; da quelle ingegneristiche costruzioni e trame di cui il pensiero si è appropriato e che troppo spesso rischiano di soffocarlo.
Il teatro è l’ora dei burattini che strappano i fili, si animano; Pinocchio diventa bambino di carne e ossa, alla fine della storia. I burattini rompono le catene, le reti, si riappropriano delle proprie voci, bruciano i copioni, si ribellano alle maniere, alle forme precostituite, prestabilite, dichiarano la loro indipendenza e si ripensano, decostruiscono la teoria, la verità e rifanno la pratica, si trasformano in corpi, che si muovono, agiscono sul palcoscenico come nella vita; si trasformano in “uno, nessuno e centomila” esseri possibili!
L’uomo-attore si libera, si trasforma, lavora alla propria ricomposizione. Ma non è solo, in questo: è supportato, in una relazione di reciproci scambi, dal lavoro dello spettatore teatrale.
Quello di cui stiamo parlando non è, ovviamente, il teatro della facile risata o della lacrima automatica, o tutt’al più quello che Dario Fo chiama il “rutto d’indignazione”. Parliamo del teatro che emoziona e stimola l’intelligenza, che è capace di mescolare i sensi: di far vedere quello che si sente, di far toccare il movimento, respirare l’energia, rendere corporeo ciò che abitualmente non si considera tale. Allo spettatore – e parliamo da spettatori – questo tipo di spettacolo teatrale non può che attivare l’intelligenza, far scaturire idee, stimolare la fantasia.
Il regista israeliano Amos Gitai sostiene che in Medio Oriente il pubblico che assiste a uno spettacolo – teatrale o cinematografico – non scinde questo momento dalla realtà: se lo spettacolo mostra la drammatica situazione del popolo palestinese, dopo aver assistito alla performance il pubblico palestinese scende in piazza e manifesta esaltando l’energia scambiata con gli artisti, rinvigorito dall’emozione di vedere la propria condizione e i propri moti dell’animo esteriorizzati e proiettati sulla scena o sullo schermo. Le emozioni sperimentate, le parole ascoltate, in Palestina – per dirla con Carlo Levi – diventano pietre.
Nel mondo occidentale questa diretta connessione è sparita – probabilmente sin dalla fine della tragedia greca e della commedia arkàia, duemilacinquecento anni fa. Ci sia concesso un breve salto ancora più dietro di Platone.
In quella forma eminente di partecipazione alla vita politica dello Stato che era lo spettacolo teatrale, attori e spettatori, uniti nello spazio nucleare del teatro greco, si scambiavano l’emozione della profonda riflessione su se stessi come entità sociale. Lo spettatore della tragedia andava a teatro conoscendo per sommi capi la trama, in quanto i tragediografi mettevano in scena miti molto popolari, elementi fondativi e formativi della cultura nazionale delle pòleis greche; l’aspettativa che si creava in tal modo era il primo grado della partecipazione all’evento. Allo spettatore della commedia tale privilegio non era concesso, poiché le storie mitiche non erano se non raramente fonte di ispirazione per i commediografi.
Nel quarto di sfera, spazio contemporaneamente chiuso su di sé e aperto all’esterno, del teatro, gli attori chiamavano in causa gli spettatori parlando direttamente (commedia) o indirettamente (tragedia) di fatti e personaggi contemporanei. I moti d’animo esteriorizzati dal pubblico erano la risposta a questa sollecitazione; gli attori, a loro volta, traevano energia da questa risposta, e così via in un crescendo esponenziale indirizzato verso il momento della catarsi finale.
Aristofane sbeffeggiava i potenti, smascherava le sperequazioni e i giochi di potere, condannava l’assurdità della guerra; Sofocle indagava la misteriosa contraddizione esistente tra l’ignoranza di sé e l’esigenza di obbedire al comandamento delfico “gnoti seautòn”, “conosci te stesso”; Euripide metteva in scena la tragedia di chi rappresenta un elemento sociale debole in un mondo in cui vince il più violento, raccontando i drammi degli immigrati (meteci) in una realtà in cui conta il ghenos, l’origine, narrando delle vittime innocenti delle guerre, delle donne in una società maschilista.
Sostenere che questa diretta connessione sia sparita in Occidente, sostituita da un filtro che non permette alla metafora artistica di trasformarsi in forza cinetica e stimolare l’azione, non significa affatto rassegnarsi all’idea che il teatro non possa costituire un efficace momento di riflessione e impegno sociale e civile. Lo dimostrano le ormai frequenti occasioni in cui artisti attivi nell’ambito teatrale a Molfetta e in provincia di Bari sono chiamati a presentare performance durante giornate di analisi e mobilitazione su temi quali la pace, la giustizia, l’ecologia, come la recente settimana contro la guerra organizzata a Molfetta dal Social Forum, le iniziative di altri Social Forum cittadini, le campagne di Un Ponte per Belgrado in Terra di Bari.
Lo dimostra anche l’efficacia con cui i laboratori teatrali sperimentati nelle nostre città agiscono come alternative al disagio sociale provocato dall’handicap, dalle tossicodipendenze, dalla devianza, dall’indigenza, dalla clandestinità.
C’è da chiedersi in quale misura le nostre istituzioni favoriscano tali alternative. Gli ostacoli recentemente posti a una realtà come l’Opificio per le arti Kismet Opera, di cui paradossalmente le istituzioni locali rifiutano di riconoscere e valorizzare la caratura artistica internazionale; la recente chiusura di un fondamentale laboratorio del teatro contemporaneo italiano, la Casa dei Doganieri di Mola di Bari; il disinteresse per edifici storici come i teatri Petruzzelli e Margherita di Bari; il vuoto che caratterizza le nostre città al di là dei cartelloni estivi (che pure presentano spesso eventi culturali di altissimo livello): tutti questi non sono certo segnali che facciano sperare in un’azione istituzionale mirata a fronteggiare il disagio con la crescita culturale.
Berlusconi promette forze dell’ordine in ogni quartiere; le città vengono blindate e le zone disagiate sono rese ghetti invivibili.
Esistono contesti geografici e sociali in cui i soldi risparmiati dallo Stato togliendo una pattuglia di polizia potrebbero essere utilizzati per destinare spazi e occasioni a laboratori teatrali, ottenendo così risultati migliori e più duraturi nella prevenzione della devianza. Nutriamo la speranza che la fantasia vada al potere. Che si possa vivere in città più colorate, più verdi, più musicali e meno rumorose, più armoniche, più divertenti, più belle. Che nell’elaborazione dei piani regolatori e nelle scelte urbanistiche si interpellino meno imprenditori edili e più scenografi. Che nella costruzione delle periferie urbane si preveda l’intervento di muralisti. Pattuglie di clown affianchino le pattuglie di carabinieri. Quei burattini rompano i fili da cui sono ancora trattenuti. Quei corpi non ancora ricostruiti, quei corpi che non sono riusciti ancora a recuperare le proprie voci, quei corpi ancora impantanati nelle reti si liberino finalmente. Si educhi alla conoscenza del corpo come titolare della quattro dimensioni dello spazio e del tempo, alla scoperta di queste dimensioni nei corpi degli altri, al loro rispetto.
Istituzioni che si prefiggono il miglioramento delle condizioni del territorio e dei cittadini, che puntano a valorizzare le città, le risorse e le ricchezze di queste, in termini sia materiali che umani, devono tenere bene in conto il valore e la portata di strumenti dalle grandi potenzialità, quali dimostrano di essere i laboratori teatrali. Noi crediamo in tutto questo e siamo convinti di non essere i soli.
….Che inizi lo spettacolo!

maggio - agosto 2002