Il Podestà di Paraflà
di Antonio Allegretta

Racconti

La spartizione
Oh sì, se aveva brigato! Oh sì, sì, se aveva brigato! Ne aveva combinate davvero tante! pur di diventare il Podestà della città di Paraflà.
Aveva tradito il suo migliore amico, gli ideali e s’era venduto perfino alcune proprietà. Oh, per Dio, quante ne aveva combinate!
E, finalmente, aveva realizzato quel sogno covato nel segreto dell’anima, con rabbia e frustrazione, per tutta la vita: era lì, seduto dietro la scrivania, nell’ufficio del Podestà. Era il Podestà, il Podestà della città di Paraflà.
Ma quando ripensava al passato e a tutto quello che aveva fatto, provava compassione per sé stesso ed un mesto sorriso appariva sulle sue labbra. Allora volgeva lo sguardo alla finestra ed il volto si faceva serio e assorto.
Da qualche tempo, ormai, era preda di una strana mania: trascorreva quasi per intero le giornate affacciato alla finestra preferendo le ore del meriggio quando quel muro alto e largo davanti a sé, di fronte alla finestra dell’ufficio del Podestà - quel muro di pietra bianca e sagomata, candida come un giglio, che terminava nel cielo lasciando scorrere uno strettissimo e chiuso viottolo tra sé e il palazzo municipale - s’indorava della luce del sole mentre l’azzurro del cielo diventava turchino per l’avanzare della sera.
D’inverno, il cielo grigio, le pietre purificate dall’acqua limpida della pioggia, i ramoscelli nudi di arborescenze solitarie e l’aria fredda e tersa, gli alleggerivano il cuore: pensava alla povertà, alla dolcezza della morte che tutto riduce al silenzio rendendo nulla di più che impercettibili gemiti le umane gesta.
“Vanità! Umana vanità!...” ripeteva tra sé con gli occhi smarriti nel cielo grigio. Poi reclinava il capo e chiusi gli occhi, lasciando fluire nella mente le immagini impresse, si faceva condurre dal mesto ticchettio della pioggia come da una nenia dei giorni d’infanzia, nelle terre lontane del candore e dell’innocenza.
Ora, ch’era giunta primavera, restava assorto ad ascoltare la sinfonia del vento il grido lacerante colmo di malinconia delle rondini che solcavano il cielo e meditava sui quei piccoli e deboli fiori gialli che qui e là sbucavano sulla candida pietra apparendogli come eremiti nel deserto.
“Oh! Cos’è quest’ossessione?” si domandava, chino sul davanzale della finestra, e contemplando tutte queste cose.
Cos’era quel muro che lo ammaliava, che imponente, dolce e tremendo rimprovero, gli copriva la vista sul mondo obbligandolo a guardare in su, a volgere lo sguardo al cielo, all’infinito, all’ineffabile? Masolino Nervetti, il Podestà della città di Paraflà, se lo chiedeva spesso senza trovare risposta e restava avvinto da quella presenza trascorrendo le ore di luce, alla finestra.
Al sopraggiungere della sera, la richiudeva e sedeva alla poltrona dietro la scrivania, rimanendovi ben oltre la chiusura degli uffici comunali, a rimirare l’insinuarsi attraverso i vetri dei raggi della luna che pian piano rendevano argentea la stanza del Podestà.
-”Posso entrare, Eccellenza?” - Chiese Giovanni, l’amico fedele di Masolino, il fedele servitore, una specie di angelo custode.
-”Entra pure Giovanni, ti prego.”
-”Eccellenza, mi scusi. Non avrei mai voluto disturbarla, ma... capisce..., c’è qui il Consigliere... si ricorda?”
- “Sì, Giovanni. Ricordo, ricordo tutto perfettamente...” - un sorriso bonario e triste al tempo stesso apparve sulle labbra di Masolino, seduto alla scrivania, mentre osservava colorarsi della luce giallognola del mattino quel ritaglio di muro che lo spazio della finestra lasciava apparire.
- “Ti prego Giovanni, occupatene tu. Io... vedi.... Ti prego, Giovanni...”
Giovanni accennò un inchino e uscì chiudendo la porta lentamente. Sentì un groppo in gola e gli occhi si velarono di lacrime: era commosso dall’umiltà di quell’uomo, dal suo candore.
Allora, con un cenno appena della mano, sostenuto da uno sguardo colmo di disprezzo, fece intendere al Consigliere di seguirlo.
Giovanni decise che, da quel momento in poi, lui, si sarebbe occupato di tutto: nessuno, mai, avrebbe più osato infrangere la quiete dell’amico e turbarne le meditazioni.
Il Podestà continuava, così, a trascorrere le giornate preda di quella strana mania sempre chino sul davanzale della finestra con un cuore che ormai vibrava come una cassa di risonanza: il cinguettio di un passero solitario, il suono di una campana in lontananza... tanto bastava perché la vista gli si appannasse e lacrime rigassero le guance. A sera, richiusa la finestra, sedeva alla scrivania contemplando l’avverarsi quotidiano dell’incantesimo: l’argentarsi della stanza e lo spazio intorno avvolgersi nel manto del silenzio.
- “Carabinieri! Carabinieri!”- bussarono alla porta dell’ufficio di Masolino.
Egli era seduto al solito posto, anche quella sera, vittima com’era della malia che giorno dopo giorno lo consumava.
- “Carabinieri, Carabinieri! Aprite!”
- “Mi arresteranno, mi condurranno in Tribunale. E poi lì mi processeranno, mi chiederanno conto... ma di che? Cosa potrei mai spiegare loro? Quest’ossessione che mi sconvolge, che mi ammalia, che mi pesta il cuore? Il cielo, l’infinito e quel muro... l’ineffabile, l’inesprimibile, la gioia! Di che dovrei giustificarmi? Di essere innamorato?” - il Podestà pensava a tutte queste cose osservando il contrasto tra la quiete della stanza in cui il timido incedere della pallida luce della luna animava gli oggetti di ombre fantastiche e l’accalorarsi, l’affanno, di quegli uomini dietro la porta.
-”Carabinieri! Aprite o sfondiamo la porta!”
Un sorriso illuminò il volto di Masolino, nascosto nella semioscurità della sera, mentre una rondine solitaria lanciò l’ultimo grido prima del sopraggiungere della notte.

Il giustiziere della notte
Era tutto un camminare a scatti nel Palazzo di Città di Paraflà da quanno era arrivato il nuovo Podestà. Vuoi che fosse per via di un moto inconscio dell’animo che rispunneva agli ordini secchi e perentori del nuovo Podestà, vuoi che chisto c’aveva un barbone c’assimugliava a Mangiafuoco, insomma si movevano tutti come a tanti pinocchietti.
E poi ... “Ti denuncio!, Ti denuncio!, Ti denuncioooooooo!!!”, lo si sentiva sempre urlare dappertutto nel Palazzo, che faceva impallidire a tutti. E tutti parevano pallidi pinocchietti.
Eppure un Consigliere, una volta, si permettette di fare osservare al Podestà che forse sarebbe stato meglio dicere “Ti denunzio!” invece che “Ti denuncio!”, ché pareva più aulico, più nobile, più consono alla carica del Podestà. “Ti denunzio!”, certo, da pronunciarsi con la zeta dolce, si capisce, e lentamente, magari accompagnando con un gesto elegante e imperioso della mano, comm’a chillo di un imperatore romano, chissà!
E poverino il Consigliere, il Podestà non ne volette sapere. Anzi, s’incazzò e ordinò che s’isitituisse una Commissione d’Inchiesta per stabilire con quale spirito il Consigliere avesse fatto quell’osservazione, semmai avesse voluto offendere Sua Eccellenza. Se avesse mai voluto dargli dell’ignorante oppure dire che Sua Eccellenza non era sufficientemente autorevole, nel parlare.
Ma solo nel parlare, perché la barba - quella sì, nessuno lo metteva in dubbio - quella sì, faceva paura.
Insomma c’avevano tutti paura.
E pure lui, il Podestà, sebbene inorgoglito incominciava ad avere un pochino paura di sé stesso.
Una notte stava ancora sveglio, in piedi dietro alla finestra della camera da letto. La stanza era al buio e isso stava lì che sfugliava le carte per il giorno dopo sotto alla luce di un flebile raggio di luna che trasiva dalla finestra.
S’avevano da prennere decisioni difficili, delicate. Si sa, ci stavano tanti da accontentare, ma sempre nei limiti della legalità, si capisce. Si no che figura ci faceva come Podestà?
Ma non era semplice.
C’aveva la fronte sudata, era pallido pure, poverino. Tanti erano i pensieri che gli frullavano ind’a capa e pure la paura faceva la parte sua.
Ad un certo punto, vuoi per l’ansietà, per il nervoso che teneva in corpo, s’allontanò dalla finestra e s’incamminò per la stanza quando, all’improvviso, vide un’ombra passargli accanto.
Mamma mia! Si girò di scatto e senza pensarci due volte gridò all’ombra “Ti denuncio!”
C’aveva i capelli rizzati. Tutto pallido, sudava freddo. L’urlo, nel silenzio della notte, era stato accussì potente che pareva che il mondo tutto quanto dovesse risponnere da un momento all’altro.
Tremanno tremanno s’avvicinò dove aveva visto l’ombra e nell’oscurità, appena appena smossa dalla luce della luna, vide a isso stesso riflesso nello specchio.
Allora, fissanno l’immagine, col cuore smarrito, gli occhi sbarrati e una confusione carogna ind’a capa, “Ti denunzio!” dicette con voce malferma, quasi quasi s’aspettasse una risposta da chillo che stava ind’o specchio.
Ma chillo non diceva niente e lo guardava fisso fisso con quella faccia bianca come un fantasma e la barba nera nera, brutta come a chilla di Mangiafuoco, che il Podestà si sentiva il freddo nelle ossa.
“Ti denunzio!” allora gli dicette un’altra volta, ma con voce più gentile, lentamente, accompagnando con un gesto elegante e imperioso della mano. E un sorriso appena appena.

Il matrimonio del Podestà
Era mezzogiorno e già da due ore Masolino Nervetti, il futuro Podestà della città di Paraflà, aspettava immobile, sul sagrato della chiesa madre, l’arrivo della donna che aveva scelto come sposa.
Vestito di tutto punto, lo sguardo rivolto all’orizzonte, attendeva.
Invitati, amici e testimoni si lanciavano sguardi interrogativi ed era divenuto ormai abitudinario il gesto di consultare l’orologio quasi fosse una sfera di cristallo.
Ma la sposa non arrivava.
Nessuno sapeva dove fosse, ed era già l’una. Il parroco, padre Gennaro, persa ogni speranza, aveva chiuso dietro di sé il grande portale della chiesa su cui erano raffigurate scene del martirio di San Sebastiano, ed incurante delle suppliche dei presenti era andato via.
Masolino, invece, restava lì, sempre allo stesso posto, immobile, guardando l’orizzonte. Uno dei testimoni, un amico d’infanzia, gli si era avvicinato e nel tentativo di incoraggiarlo aveva sussurrato qualche parola, ma il futuro Podestà non gli aveva concesso nemmeno uno sguardo, né una piega sul volto. Continuava a fissare il confine tra cielo e mare, il mare. Il mare che portava la città in grembo e a cui guardava la chiesa madre, il Duomo di Paraflà.
Alle tre del pomeriggio Masolino Nervetti era rimasto solo.
Pian piano, quasi in silenzio, testimoni, amici e conoscenti, assiepatisi fino ad allora sul sagrato della chiesa da quando il prete li aveva costretti ad uscire fuori dal tempio, ad uno ad uno, erano andati via. Pacche sulla spalla, qualche parola sussurrata e poi via, con il capo chino e gli occhi colmi di pietà mentre Masolino, immobile, guardava all’infinito senza voltarsi un attimo, senza degnare di un saluto nessuno, senza mai scostarsi.
Il sole scendeva lentamente indorandogli il volto mentre una leggera brezza si sollevava dal mare avvolgendogli il corpo in un alone profumato e, solo, nel silenzio del meriggio, iniziava ad avere la sensazione che, nella sventura, l’universo intero gli si era fatto vicino. Era pervaso da una strana sensazione di benessere e di lucidità e mentalmente ripercorreva le illustrazioni di una “Vita di Gesù di Nazareth”.
Aveva sempre nutrito particolare ammirazione per i grandi personaggi della storia - era nota a tutti la tenacia con cui in fanciullezza aveva collezionato le figurine de “I Grandi della Storia” - Giulio Cesare, Alessandro Magno, il Buddha, Gesù di Nazareth, Napoleone e Giovanna d’Arco erano i suoi miti e la sera prima aveva pensato di preparasi santamente al matrimonio sfogliando le pagine del libro e meditandone i disegni ad acquerello.
Poi, la vita intera - gli anni della gioventù, gli amori, le passioni - gli passò dinanzi agli occhi in un istante e si rivide seduto ai banchi di scuola ascoltando, assorto, le lezioni sui sillogismi aristotelici. Ricordò con compiacimento quali importanti conquiste intellettuali avesse raggiunto in vita sua combinando con creatività i termini dell’argomentare e provando sentimenti di profonda gratitudine per il maestro di filosofia, pensò: “Se Gesù è figlio di Dio e camminò sulle acque ed io pure lo sono, come tutti del resto, anch’io potrò camminare sulle acque”.
Quale potesse essere il perché di quello strano ragionare non era chiaro nemmeno a sé stesso. Sapeva però di sentire un profondo trasporto, un trasporto cosmico verso il mare, il sole, il cielo in cui gli occhi si smarrivano come fossero coperti da un velo finissimo di seta azzurra.
- “Se la donna che ho desiderato, ha rinunciato a divenire la mia sposa, mi sposerò con Paraflà!” - pensò.
E con un sorriso ieratico, lo sguardo assorto rivolto all’orizzonte, si incamminò verso il bordo della banchina. Scese dallo scalo per le piccole imbarcazioni ed entrò in acqua, come guidato da una forza misteriosa.
Man mano che si addentrava in mare l’acqua gli saliva oltre le ginocchia, ma questo non lo preoccupava affatto: si sentiva avvolto dall’amore del cosmo, dal sangue della propria terra e soprattutto era convinto dell’esattezza del ragionamento.
“Mi sposo con Paraflà!”, ripeteva tra sé e sé. “Mi sposo con Paraflà!” ripeteva assorto scendendo sempre più giù.
L’acqua gli era arrivata al collo eppure Masolino procedeva guardando avanti, accecato dal sole che arroventava il mare, ripetendosi “Mi sposo con Paraflà, mi sposo con Paraflà!”
- Mi spsos.. glu!... mi spos... glu, glu!... pluff!.. glu! con Paraflà!
La superficie del mare aveva ormai coperto il capo di Masolino, quando il dubbio d’aver male impostato il sillogismo gli balenò nella mente.

maggio - agosto 2002