Diritto di autodeterminazione tra scienza e politica
di Pasqua De Candia e Manuela Porta

Sfide - La bioetica è la figlia ribelle dell’etica, che raccoglie le sfide e cerca di rispondere a particolari urgenze emerse in virtù delle nuove scoperte
Il rapporto tra scienza e politica, la libertà della ricerca scientifica e i suoi eventuali limiti, la distinzione e i legami tra ricerca e applicazione del conoscere sono problemi con radici molto profonde, che negli ultimi tempi hanno acquistato un’attualità e una sonorità particolari, soprattutto in seguito allo sviluppo di tecniche e ricerche sperimentali sull’organismo umano.
Si tratta di temi che, per le loro implicazioni etiche, politiche, economiche, scientifiche, filosofiche e umane animano vivaci dibattiti fra specialisti di vari campi; dibattiti di specialisti che però hanno una ricaduta tanto ovvia e inevitabile, quanto spesso trascurata e passata in secondo piano, sulle vite di tutti noi, in quanto cittadini, in quanto persone e quindi soggetti morali portatori di diritti, indiscutibilmente coscienti di noi stessi e, infine, in quanto potenziali pazienti.
Partendo, quindi, dall’assunto che questi dibattiti non possono restare circoscritti agli esperti che siedono nelle varie commissioni, il nostro intento, nell’affrontare queste tematiche, non è quello di far valere un particolare punto di vista etico, né di mettere in rilievo concezioni morali che si sostengono su conoscenze al di là dell’esperienza comune, o prospettive che risentano di una religione particolare; ma quello di creare uno spazio in cui poter parlare e magari dialetticamente discutere in modo diffuso di ciò che riguardo la nascita, la morte o la cura degli esseri umani, televisione, radio e giornali riducono spesso in brevi spazi marginali (a meno che non si tratti di notizie eclatanti che mettano in moto animi, fantasmi e soprattutto risorse economiche). L’approccio di cui intendiamo avvalerci è quello di guardare ad esse in quanto tematiche determinanti scelte che riguardano in primo luogo ciascuno di noi.
L’orizzonte della bioetica ha a che fare con gli obblighi fondamentali che abbiamo in quanto persone morali, partecipi di una società civile e plurale. Affermiamo, anzi, che il pluralismo morale è una realtà di fatto e di principio, una realtà che persino coloro che fanno parte di commissioni etiche tendono a sottovalutare.
è innegabile che questo pluralismo morale abbia, al fondo, una frammentazione della prospettiva e della visione morale, dovuta in particolare ai cedimenti che la fede ha subito nelle società occidentali a vantaggio delle varie prospettive laiche: le società di oggi sono pluralistiche e comprendono comunità (a loro volta formate da singoli individui) caratterizzate da convinzioni e sentimenti morali diversificati.
La bioetica contemporanea, quindi, emerge da uno sfondo caratterizzato dall’affermazione di una razionalità laica articolata in molteplici forme; dall’avanzare di un accentuato scetticismo, di una confusione legata al tramonto di certe credenze e al persistere di altre; dal pluralismo delle visioni morali e dalla presenza di sfide che non possono essere disattese; sfide che riguardano i nostri corpi, ma anche la preservazione di tutto il bio-regno. La bioetica è, in breve, la figlia ribelle dell’etica, che raccoglie le sfide e cerca di rispondere a particolari urgenze emerse in virtù delle nuove scoperte e tecnologie; il suo nucleo centrale è costituito da tutte quelle questioni etiche originate, negli ultimi decenni, dai mutamenti che medicina e biologia hanno provocato per quanto riguarda nascita, cura e morte degli esseri umani.
Come termine linguistico, fa la sua prima comparsa negli anni ’70, in relazione al problema della possibilità di stabilire regole morali per le scienze biomediche che da quegli anni in poi si sono ritrovate strumenti che fino ad allora non avevano neppure pensato. La realtà, però, è che bisogna retrodatare la nascita della bioetica al 1947, al processo ai medici nazisti tenutosi a Norimberga, in cui 23 medici erano imputati e accusati di aver condotto brutali esperimenti violando il codice ippocratico, il patto sacro del prendersi cura dell’altro. La difesa di questi medici fu impostata in modo da affermare che non di violazione del codice ippocratico si trattasse, ma di attività di ricerca sperimentale su materiale biologico.
Al di là dei diversi sentimenti che una tragedia come l’olocausto medico può smuovere nelle coscienze di ciascuno, ciò che è evidente e che è una costante nelle sperimentazioni in generale (cosa che quindi permette di retrodatare ancora la nascita della bioetica ai primi del ’900) è una nuova concezione del corpo umano, non più considerato come unità organica indivisibile nella composizione delle sue parti, ma come un insieme di funzioni biologiche, i cui organi possono essere sottoposti a trasformazioni e adattamenti. La bioetica quindi nacque quando la malattia veniva non solo curata, ma studiata; quando la biologia non era più descrizione e studio del vivente, ma descrizione, studio e modellizzazione di esso e la medicina, pertanto, divenne applicazione di nuove pratiche di trasformazione dei corpi.
La biologia, dai primi anni del XX secolo, non si è più presa semplicemente cura dell’accaduto e delle sue regole, ma ha costruito l’accadimento, stabilendo nuove regole per la formazione di un modello ideale le quali portavano a fare un salto, a farla divenire, con l’utilizzo e l’influenza di forze economiche-sociali-politiche, prima genetica e, poi, eugenetica. Il paziente diventa, non più oggetto di cura, ma oggetto di studio, e il suo corpo sembra non appartenergli più, poiché, in questo scenario di miglioramento del vivente, subisce metodi altamente invasivi che rompono fortemente fino a tradire il corpus ippocratico e quindi il tradizionale prendersi cura.
Campo esemplificatore di questo mutamento può essere quello delle ricerche rianimative, le cui tecniche hanno modificato i confini della vita, spostandoli e tenendo fuori, da questi nuovi confini, il rapporto dialogico con “l’altro” .

La profonda possibilità di diverse posizioni morali a volte non viene riconosciuta fino in fondo e quando si incontrano stranieri morali, cioè persone con visioni morali diverse, ci si rende conto di come l’argomentazione razionale non sia sempre in grado di appianare le divergenze, di far “convenire”.
Per farsi un’idea della vistosità delle divergenze basterà pensare ai clamori del dibattito sull’aborto. Alcuni lo considerano una grande colpa morale (al punto da metterlo sullo stesso piano dell’omicidio), mentre altri pensano all’inizio della vita biologica umana come non coincidente con l’inizio della persona in quanto agente morale. La condanna dell’aborto, sostenuta dalla Chiesa Cattolica che dichiara intoccabile l’ovulo fecondato, in quanto essente già “persona”, ha prodotto conseguenze che sono andate molto al di là della dichiarazione di inviolabilità dell’embrione; infatti, dopo tale dichiarazione, qualsiasi ricerca che si svolga su di esso è considerata ricerca su persona umana. L’ordinamento giuridico, invece, ammette l’aborto; ricordiamo, infatti, che la legge sull’aborto fu approvata dal Senato il 29 maggio 1978 con 160 si e 148 no e, immediatamente promulgata.
Questi esempi di pratiche mediche, sono solo due tra tanti possibili in quest’ambito, che hanno innescato e innescano vivaci discussioni.

“Il solo aspetto della propria condotta di cui ciascuno deve rendere conto alla società è quello riguardante gli altri: per l’aspetto che riguarda soltanto la sua indipendenza è, di diritto, assoluta.
Su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l’individuo è sovrano.”


Questo affermava J. S. Mill nel 1859 nel suo “Saggio sulla libertà”.
Possiamo affermare nel 2002 che su noi stessi, sulla nostra mente, sul nostro corpo, in quanto individui siamo sovrani? Non era sicuramente intento di Mill, né tantomeno è nostra volontà, suggerire che tutto l’ambito della condotta affidato alla moralità sia per ciò stesso un campo in cui ciascuno è autorizzato a fare ciò che vuole e, non si può evitare di impegnarsi a cercare vie attraverso cui garantire stabilità e giustizia sociale in società complesse e pluralistiche, come quelle in cui viviamo.
Il punto è che, al di là della teoria, sono reali esseri umani a trovarsi in reali situazioni di conflitto e disaccordo e spesso ciò che è in discussione è proprio il riconoscimento pubblico di un qualche diritto morale proprio delle persone umane, diritti morali che siano indipendenti da una vera e propria codificazione giuridica. Essere a favore, affermare che ciascuna persona umana ha diritti morali, significherebbe, all’interno di una società pluralistica e aperta, che si afferma tale come la nostra, consentire a persone che hanno diverse opzioni morali (a condizione che non causino danni agli altri ) di coesistere, con eguale considerazione e rispetto e, di ricevere un trattamento equo. Questo tipo di coesistenza implica, infatti, un percorso che si sviluppa per “contrasti”, cosa che chiama inevitabilmente a riflettere su un concetto a dir poco “esplosivo” in bioetica: il concetto di uguaglianza.
Si è uguali dinanzi a cosa? Essendo inalienabile il diritto alla salute e quindi il diritto alla cura è tuttavia pericoloso concettualizzare gli individui come meri recettori di trattamenti o come destinatari di benefici. Non è questa, infatti, la sola condizione che conta e deve contare in etica.
Se in modo opposto e simmetrico a questa concezione (utilitaristica) abbiamo delineato che gli aspetti della capacità di agire e, quindi, della libertà di scelta delle persone sono gli unici rilevanti e che questo sia il modo, l’unico modo per prendere sul serio l’importanza della dimensione degli agenti morali, vien da porsi un’ulteriore domanda: se si è uguali “in salute” non lo siamo anche rispetto alle innovazioni scientifiche? Esse non devono essere a disposizione di tutti, al di là del ruolo sociale che ciascuno di noi riveste (uomo o donna, studente, anziano, imprenditore o operaio, immigrato o funzionario etc.)?
Sarebbe giusto che i fondi erogati per le ricerche tornassero a beneficio di tutta quanta la società ma la “protesta degli scienziati” per la libertà nella ricerca continua ad essere cieca di fronte all’ingiustizia sociale; e qualora lo scienziato usufruisse non di fondi pubblici ma di finanziamenti privati, la questione non cambierebbe. A parità di condizioni non può bastare il denaro per risolvere i casi controversi. Non è moralmente accettabile affidare alle disponibilità individuali e ai cosiddetti mercati le scelte sanitarie in gioco nelle situazioni bioetiche.
Fra mercato e società civile chi può farsi garante della fruibilità generale di artefatti culturali per fare in modo che non rimangano proprietà esclusiva (per es. in forma di brevetti) di aziende di biotecnologia?
Se la politica si occupa di promuovere fini collettivi ed, entro tale ambito, deve attuare una redistribuzione delle ricchezze materiali e culturali, tuttavia essa non può e non deve ridurre lo spazio delle scelte individuali. Pertanto nessuna coercizione deve avvenire da parte delle istituzioni sia politiche sia religiose nelle questioni che riguardano i nostri corpi: la proprietà del corpo è inviolabile.
Nessuno oggi ammette che si uccidano persone o che si infliggano loro sofferenze per ottenere conoscenza e, si reputa illecito infliggere sofferenze agli animali, per lo stesso scopo. Si potrebbe essere tentati di sostenere che esistono principi morali incontrovertibili, universali che segnano i confini entro cui gli scienziati si devono muovere, anche quando vanno a caccia di conoscenze e non ci sono ancora applicazioni in vista. Ma non è facile dire che cosa sono i principi morali, né tantomeno è facile enumerarli. Non soltanto essi cambiano, ma spesso è la stessa ricerca scientifica a produrre il loro cambiamento.
Alla fine del XX secolo esiste una vasta legislazione sulla materia specifica della bioetica; di particolare rilievo, in quest’ambito, è la Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano rispetto all’utilizzazione della biologia e della medicina, adottata dal Consiglio D’Europa il 19 novembre 1996.
L’Italia manca ancora, a differenza di altre nazioni europee, di una legge organica che disciplini i comportamenti in relazione ai nuovi ritrovati e applicazioni in materia di ricerca scientifica e di intervento medico nella formazione del corpo umano. Nell’articolo 32 della nostra Costituzione, la salute viene definita come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Nello stesso articolo si traccia anche il confine tra obbligo e libertà in relazione al trattamento del corpo negli interventi di carattere biologico o medico: “La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.” Viene così affermato un nuovo diritto di libertà (del proprio corpo) assimilabile ai “diritti inviolabili dell’uomo”, riconosciuti dalla Costituzione Italiana.
Per quanto si possano apprezzare simili codificazioni, è necessario essere consapevoli che non ci si può avvicinare alla bioetica aspettandosi che tutte le soluzioni ai casi controversi possano essere ricavate da un’etica dei diritti.
Esemplare e autorevole affermazione di diritti è quella contenuta nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948, agli articoli dal 23 al 28, in cui si riconosce che “chiunque come membro della società ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro, ad una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a se stesso e alla sua famiglia un’esistenza conforme alla dignità umana; ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione e alle cure mediche; ogni individuo ha diritto all’istruzione, indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana e al rafforzamento del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; ogni individuo ha diritto di partecipare del progresso scientifico ed ai suoi benefici; ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciate in questa dichiarazione possano essere pienamente realizzati.”
Per quanto sia apprezzabile, quanto è generica un’affermazione come questa che non crea per nessuno doveri e obblighi? Quante società sono coinvolte, realisticamente da questi diritti?
Fare appello a diritti morali per individui autonomi e responsabili significa spesso dare per scontate autonomie e responsabilità che troppo spesso risultano in realtà astrazioni, in confronto ai molti e reali modi in cui le persone sono condizionate o determinate da condizioni di svantaggio economico. Va apprezzato certamente il fatto che dichiarazioni simili si colleghino a richieste di politiche nuove che creino le condizioni sociali ed economiche perché tutti gli esseri umani possano liberamente scegliere il modo in cui condurre il proprio stile di vita realizzando un miglioramento personale. Non bisogna perdere di vista, però, il fatto che le questioni morali si pongono sempre solo per singoli e concreti esseri umani, direttamente coinvolti in situazioni particolari.
Si sostiene che molte delle nuove pratiche rese possibili dalle scoperte in medicina e biologia relativamente a nascita, morte, cura degli esseri umani non possano essere percorse in quanto lederebbero la dignità della natura umana. Ma non si può condividere un’impostazione che in nome di una pretesa dignità assoluta della natura umana pretenda di limitare la libertà di ciascuna persona di dare senso e dignità in modo autonomo alla propria vita. La dignità della vita umana non dipende da caratteri comuni, dalla biologia comune alla specie umana, ma è legata al modo in cui ciascuno da valore e senso alla propria vita.
“Le nuove alternative di cui si occupa la bioetica, con riferimento alla nascita, morte e cura fanno emergere modi diversi e tutti in qualche modo moralmente legittimi di intendere il modo dignitoso di vivere queste situazioni così significative.” (E. Lecaldano). I problemi della bioetica portano a riesaminare radicalmente categorie e valori dell’etica tradizionale e questo vale anche per la questione di quali siano i criteri equi per risolvere la problematica della distribuzione delle risorse pubbliche per le cure e la sanità.
Non sono solo le innovazioni tecniche relative al modo di morire, di nascere e alla ingegneria genetica a spingere per una revisione della nozione di cura che può far parte di un diritto minimo alla salute pubblicamente garantito. A richiedere queste revisioni vi sono decisive trasformazioni nei modi di curarsi: un esempio è quella trasformazione della cura che vede nei trapianti di organi una soluzione vincente fondata su una cultura della donazione.
Nella fase attuale, in cui i movimenti mettono a fuoco l’idea di giustizia sociale, costituendo una moltitudine di voci e possibilità di scelte, la questione della “qualità della vita” deve essere presa in considerazione dalle istituzioni politiche: esse debbono modellare un sistema sanitario alternativo in cui non sia dato a tutti i cittadini il minimo irrinunciabile ma una larga scelta di prestazioni, la sola che risponda non solo al diritto alla salute e alla cura, ma anche alla libera scelta di noi cittadini rispetto a ciò che riguardo la nascita, la morte o la cura degli esseri umani la scienza produce.

Abbiamo tentato di introdurre tematiche che per la loro attualità riguardano tutti noi perché sono destinate ad incidere profondamente sulla nostra vita; gli scenari e le prospettive che si stanno delineando non appartengono più al mondo della fantascienza ma alla realtà.
Pertanto speriamo di aver sollecitato chi voglia decidere,agire,avere strumenti per poter scegliere in base al proprio bene, alle proprie esigenze e idee, a esprimere una propria opinione in merito, costruire uno spazio partecipato e di confronto
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maggio - agosto 2002