Democrazia imperiale e partecipazione della moltitudine
di Alberto Altamura

Sia nei singoli stati che a livello internazionale, la limitata sfera della “democrazia” imperiale si configura come popolo (una particolarità organizzata che difende determinati privilegi e proprietà) piuttosto che come moltitudine (l’universalità delle libere pratiche produttive).

La moltitudine sarà chiamata a inventare nuove forme di democrazia e un nuovo potere costituente che, un giorno, ci condurrà, attraverso l’Impero, fino al suo superamento.
Michael Hardt - Antonio Negri, Impero (2000)

1. Democrazia e partecipazione
L’invito rivolto da questa rivista, nel numero del dicembre 2001, ad assumere il tema della “democrazia partecipata” come terreno di riflessione per un confronto politico con i lettori, può essere accolto e soddisfacentemente corrisposto solo tenendo conto della dimensione equivoca di termini come democrazia e partecipazione.
La loro combinazione non rinvia soltanto alla complessa questione giuridico-politica del rapporto tra democrazia-indiretta-rappresentativa e democrazia-diretta-partecipativa. Infatti, chi non ha trovato appagamento nella individuazione di un “corpo centrale” della teoria della democrazia(1), resta impressionato soprattutto dai molteplici usi del termine “democrazia”. Non si definivano forse democrazie-popolari gli assetti politici dell’Europa dell’Est comunista? A cosa rinviano espressioni come democrazia-liberale, democrazia-totalitaria, social-democrazia, democrazia-cristiana, democrazia-proletaria, democrazia-industriale, democrazia-capitalista, democrazia-plebiscitaria, ecc. ecc.? In cosa risiede, ad esempio, la differenza fra la democrazia-senza popolo e la democrazia-con il popolo, di cui il sociologo e costituzionalista francese Duverger parlava alla vigilia del Maggio ’68, guardando alla Francia e all’Italia?(2)
La questione viene resa più intricata dal richiamo alla “partecipazione”. Proprio Giovanni Sartori, che ci piace richiamare, al di là delle sue competenze, per il grande credito di cui gode presso tanti esponenti del centrosinistra, parlando di “democrazia partecipativa” o “partecipatoria” punta l’indice contro quelli che chiama i “partecipazionisti degli anni Sessanta”, portatori di un “elitismo di tipo leninista”, che attraverso l’assemblearismo aspiravano a presentarsi come le avanguardie in grado di mobilitare le masse inerti.
Riteniamo utile concentrarci su quella che egli definisce “l’esasperazione attivistica del partecipare”, lasciando a quella parte dei dirigenti del centrosinistra che in quell’assemblearismo si è formata, specialmente alla componente diessina, il masochistico piacere di fare autocritica alla luce del sarcasmo di Sartori (“L’ironia della vicenda è che quei gruppuscoli denunziavano – e in questo il loro successo è stato durevole – l’elitismo altrui”(3)). Abbandonato il contesto storico degli anni Sessanta, Sartori afferma che: “L’appello a “più partecipare” è meritorio; ma gonfiato a dismisura, quasi come se tutta la democrazia fosse risolvibile nella partecipazione, è una ricaduta infantile. Ed è anche una ricaduta pericolosa, ché ci propone un cittadino che vive per servire la democrazia (in luogo della democrazia che esiste per servire il cittadino)”(4).
La conclusione di questo ragionamento fa emergere uno dei luoghi comuni oggi più condivisi: il partecipazionista è colui che spiana la strada all’estremista.
Nate sul terreno del pensiero liberale, analisi come quelle di Sartori sono state, nell’ultimo ventennio, sciaguratamente assunte da larghi settori della cultura politica della sinistra per realizzare una transizione modernizzatrice di impronta lib-lab, non accorgendosi che esse risultavano poco efficaci per discutere il nesso democrazia/partecipazione nell’epoca della globalizzazione, quando cioè la legittimazione democratica delle decisioni politiche si costruisce al di fuori dei confini dello Stato nazionale e delle sue articolazioni politiche, rappresentate tradizionalmente dall’opinione pubblica, dai parlamenti e dal sistema dei partiti.
Ma ciò che è più grave è che l’assunzione di quelle analisi è coincisa con la rinuncia ad approfondire la riflessione sulla democrazia attraverso gli strumenti della concezione materialistica della politica. 
Ripartiamo, allora, dai rapporti materiali(5).

2. L’illusione politicista della sinistra: la democratizzazione
Ripartire dai rapporti materiali significa preliminarmente riconoscere che il sistema capitalistico “produttore di merci” per potersi completamente dispiegare ha dovuto nel corso del tempo lottare su due fronti: da un lato, ha dovuto mettere fuori gioco la forza dei localismi per creare uno spazio economico nazionale, e, dall’altro, ha dovuto superare le vecchie divisioni in ceti, tipiche delle società premoderne.
Per combattere e vincere sul primo fronte si è avvalso dell’apporto della destra, portatrice di rivendicazioni connesse alla costruzione delle identità nazionali. Il secondo fronte è stato, invece, sfondato grazie alle istanze democratiche e socialiste.
Quello che sul piano politico si è andato definendo come l’antagonismo radicale destra/sinistra, è stato dal punto di vista del capitale il duplice modo di articolarsi di un’unica strategia di costruzione della “società della merce”.
Robert Kurz ha efficacemente dimostrato come la politica si sia proposta quale istanza regolativa in grado di consentire all’economia della merce di connettere i vari “soggetti di mercato”: “[…] la “politica” era il modo di penetrazione del sistema produttore di merci contro le resistenze e le arretratezze premoderne”(6).
Nell’universo politicistico, la sinistra ha dedicato buona parte dei suoi sforzi a consolidare il terreno della democrazia e dello Stato sociale, finendo col farsi portatrice di quella “enfasi della democratizzazione” che, nata dalla mescolanza del pathos della rivoluzione borghese con le istanze della questione sociale, è servita a sostenere proprio la produzione di massa di inizio Novecento.
Il fordismo, infatti, ha trovato nella “democrazia politica di massa” l’involucro politico utile a favorire il “consumo di massa” delle merci prodotte.
A queste considerazioni si lega una affermazione di Kurz che per la sua durezza potrà risultare difficilmente digeribile: “I feticisti della democrazia se ne scandalizzeranno, ma di questa “democratizzazione”, e quindi politicizzazione, delle masse facevano parte anche i regimi fascisti, nazionalsocialisti e stalinisti, in quanto hanno promosso la mobilitazione tecnica, ideologica e “de-tradizionalizzante” delle masse, che è il presupposto della forma-merce totale e quindi della democrazia dispiegata”(7).
Questa affermazione non ci consente di eludere una riflessione sulla “democratizzazione” come modalità di quella che Kurz chiama “la sottomissione totale alla logica senza soggetto del denaro”. Non eluderla può servire, forse, a capire perché l’enfasi politicistica sia venuta meno (de-politicizzazione, de-ideologizzazione), dopo gli anni Sessanta, ma soprattutto può aiutarci a interpretare l’attuale riduzione della politica a “politica economica”.
Questa riduzione purtroppo è all’opera sia nelle analisi della destra che della sinistra, allorché concordano sulla centralità e indiscutibilità dell’“economia di mercato” (si veda la politica della Terza Via proposta da Jospin con lo slogan “Sì all’economia di mercato, no alla società del mercato”), mentre si dividono soltanto quando si tratta di decidere se la crescita possa essere favorita da neoliberali strategie monetariste, che vogliono lo Stato come attento garante di quella stabilità monetaria di cui ha bisogno il mercato per agire, o da neokeynesiane forme di intervento statale.
La “democratizzazione”/“politicizzazione” del capitalismo perseguita dalla sinistra, oltre ad essere stata funzionale alle strategie pervasive dello stesso capitalismo, ha avuto come effetto perverso quello di diffondere l’idea di un possibile “comando politico-statale dell’economia”, che poteva essere “imperialistico”, ma anche “riformista” e addirittura “rivoluzionario”. La diffusione di questa idea, che è l’idea dell’“autonomia della politica”, non ha consentito disgraziatamente una autentica critica del modo di produzione capitalistico.
Oggi questa idea è messa in crisi, secondo Kurz, dal problema della “finanziabilità” della politica: “Tutto ciò che fa lo Stato tramite la politica, lo deve fare con il mezzo del mercato, cioè nella forma-denaro. Infatti, ogni misura e ogni istituzione debbono essere “finanziate””(8).
La questione della “finanziabilità della politica”, che è una vecchia questione, oggi assume connotati nuovi nel contesto della internazionalizzazione e della globalizzazione dei mercati finanziari e dei mercati del lavoro. In questo contesto la politica, secondo l’efficace espressione di Kurz, viene sempre più “strangolata monetariamente” sul terreno dell’agire statale: “Lo Stato diventa ostaggio delle decisioni sugli insediamenti produttivi e dei movimenti internazionali delle finanze e della speculazione”(9).
La politica sopravvive a questa prova di forza assecondando le nuove dinamiche del capitalismo, procedendo cioè alla marginalizzazione di settori della popolazione, riducendo o liquidando lo Stato sociale, privatizzando settori infrastrutturali statali. Anche chi aveva coltivato l’illusione politicistica della “democratizzazione” si sposta ora verso le posizioni liberiste: “la posizione liberista penetra più o meno in tutte le ideologie e in tutti i partiti, di sinistra come di destra”(10). 
Che cosa significa, quindi, porre il problema della democrazia nella fase attuale dello sviluppo capitalistico?
Il crollo del cielo della politica, secondo l’analisi condotta da Kurz, ci costringe a ritenere più importante dell’opposizione a presunte nuove forme di totalitarismo, quella volta a contrastare la barbarie rappresentata dall’“economia del saccheggio”, che è il volto attuale del libero mercato: “All’ordine del giorno non c’è l’antifascismo, ma la critica radicale della democrazia da economia di mercato”.
Kurz, che sviluppava queste argomentazioni nel 1994, all’indomani dell’insediamento del primo governo Berlusconi, non si faceva sfuggire una considerazione sulla situazione politica italiana: “Berlusconi non è (come non lo sono Reagan, Collor de Mello o Tapie) il precursore o addirittura il portatore di una nuova offensiva totalitaria, ma un fenomeno “postpolitico” […]”(11).
Da questo punto di vista sembrerebbe oggi suffragata la tesi di chi, come D’Alema, non vede nel secondo governo Berlusconi l’instaurazione di un “regime”. Questa considerazione, tuttavia, ci costringe a riconoscere che un fenomeno “postpolitico” non può essere, in generale, contrastato sul terreno politicistico, e meno che mai sul terreno della “democrazia di mercato”, che è quello scelto dal centro-sinistra italiano ed europeo.

3. La democrazia imperiale
L’equivocità dell’espressione “democrazia di mercato”, del resto, diviene straordinaria nell’attuale fase di globalizzazione della produzione, soprattutto rispetto al potere sovrano che amministra gli scambi mondiali e che, con Hardt e Negri, definiamo Impero.
Una riflessione sulla democrazia, oggi, deve diventare una riflessione sulla “democrazia imperiale” e deve fondarsi, innanzitutto, sul riconoscimento delle trasformazioni che hanno investito i processi produttivi.
Queste trasformazioni si manifestano in modo evidente nella riduzione del lavoro industriale di fabbrica e nell’ampia affermazione, all’interno dei processi produttivi, del lavoro basato sulla comunicazione, sulla cooperazione e sull’affettività.
Il tramonto del sistema di produzione fordista, impegnato in una offerta di massa di merci standardizzate che poteva contare su una domanda adeguata, ha lasciato spazio ad un modello produttivo, in generale definito postfordista, che connette comunicativamente la pianificazione produttiva con le richieste dei mercati. In pratica, se la fabbrica fordista stoccava le merci prodotte, la fabbrica postfordista avvia la produzione solo sulla base della richiesta/acquisto del consumatore: “l’azione strumentale e quella comunicativa sono, pertanto, diventate strettamente interdipendenti nei processi industriali informatizzati”(12).
Lo stretto nesso comunicazione/produzione è chiaramente visibile nei cosiddetti “settori dei servizi” e nella loro produzione di beni immateriali, cioè di prodotti culturali, conoscenze e comunicazione(13). La diffusione dei servizi, strettamente connessa alla crescente informatizzazione dell’ambito produttivo, ha permesso al capitale di svincolarsi dalla concentrazione produttiva territoriale e, soprattutto, di indebolire il potere contrattuale dei soggetti: “Il capitale può ritirarsi dalla contrattazione con una determinata forza lavoro spostando i propri insediamenti in un altro punto della rete globale – oppure, si serve di questa possibilità come arma di ricatto per gestire la contrattazione”(14).
Dato il giusto peso, cioè nessuno, ai cantori della “nuova democrazia” e della “nuova eguaglianza sociale” modello internet, siamo costretti a riconoscere che al modello orizzontale della rete, che ha condotto molti animi esaltati a scorgere forme di democrazia nelle tendenze centrifughe della produzione, si va coniugando una crescente centralizzazione del comando. Questa inclinazione centripeta del controllo è testimoniata dalla localizzazione della gestione finanziaria delle reti globali della produzione (New York, Londra e Tokio), dalla priorità riconosciuta dall’amministrazione USA alla costruzione di una infrastruttura globale dell’informazione, e soprattutto dalla tendenza alla fusione di multinazionali come Microsoft, Hollywood, IBM, AT&T, in vista della costruzione di un monopolio della nuova infrastruttura dell’informazione(15).
Accanto alla centralizzazione del comando è la costruzione dell’ordine sociale l’altro versante a cui volgersi per comprendere la situazione attuale.
La democrazia nell’età del liberismo, in un sistema produttivo e sociale imperniato sull’informazione, costruisce, infatti, l’ordine sociale attraverso forme di partecipazione che nulla hanno a che fare con la creatività dei soggetti. In ciò essa riproduce perfettamente quanto avviene nel sistema produttivo, ad esempio, a multinazionali come la IBM e la AT&T, che hanno dovuto abbandonare una strutturazione fortemente gerarchizzata o burocratizzata per poter resistere alla concorrenza di società di dimensioni più piccole, ma organizzate in forme meno verticistiche, più orizzontali, o, come scrive Fukuyama, “maggiormente partecipative”.
E’ proprio il teorico della “fine della storia” a consentirci di comprendere in modo disincantato il senso del potenziamento dell’individualità nel modo contemporaneo di produzione. In un suo recente lavoro, nel quale viene ribadito il principio a lui caro di un futuro nel quale non ci possono essere alternative alla società liberale e all’economia liberista, Fukuyama afferma: “Mastodontiche e rigide burocrazie che cercavano di controllare tutto ciò che rientrava nel loro campo con norme, regole e imposizioni sono state indebolite dallo spostamento verso un’economia basata sul sapere che “conferisce potere” agli individui, dando libero accesso alle informazioni”(16).
Superata una fase dello sviluppo industriale di tipo fordista in cui l’ordine sociale veniva prodotto in modo gerarchico, i modelli informatizzati di produzione mirano ad organizzare/controllare i soggetti attraverso procedure di autoattivazione: “In una società dell’informazione, i governi e le grandi aziende […] decentralizzano e delegano il potere, facendo affidamento sul fatto che le persone su cui esercitano un’autorità nominale sappiano gestirsi autonomamente”(17). Questo richiamo all’autonomia, che animi semplici o in malafede sono portati a celebrare come un segno della liberazione, nasconde ben altro: “Condizione indispensabile di questo tipo di organizzazione autonoma –continua Fukuyama- è l’assimilazione di regole e norme di comportamento da parte degli individui”(18).
La partecipazione degli individui e la loro presunta acquisizione di potere si presentano, quindi, come forme della strategia del potere imperiale e delle sue istanze di controllo.
Nel superamento dell’ordine burocratico, strutturato dall’alto, cominciamo a cogliere, più che una prospettiva di autonomia, il dispiegamento di quell’ordine spontaneo teorizzato in economia, sul modello del funzionamento dei mercati, dalla cultura liberista oggi cara alle destre di governo, pensiamo a von Hayek, allorché descrive l’insieme di norme e valori che strutturano la collaborazione dei soggetti nella società capitalistica in assenza delle istituzioni burocratizzate degli stati-nazione(19).
In questa prospettiva diventa importante, senza perdere di vista la costituzione del capitale materiale e umano, spostare l’attenzione sul “capitale sociale”, cioè su quell’insieme di valori culturali comuni su cui la “società civile” costruisce le proprie connessioni e che si rivelano decisivi per il buon funzionamento delle forme del potere imperiale.
Fukuyama, con il rigore di una analisi spregiudicata, afferma: “Virtù sociali quali l’onestà, la reciprocità e il rispetto degli impegni assunti non sono soltanto scelte giuste dal punto di vista etico, possiedono anche un valore monetario tangibile e aiutano i gruppi che le praticano a raggiungere gli scopi comuni”(20).
Questa attenzione per il “capitale sociale”, collocata all’interno dell’analisi sviluppata da Hardt e Negri, ci consente di comprendere che l’arsenale della forza legittima per gli interventi imperiali non è solo costituito da sofisticati apparati militari, ma anche da una serie di “ordigni morali”.
Gli interventi morali si collocano proprio alla base della struttura imperiale. Per descriverne la funzione, soprattutto in vista del chiarimento dei caratteri della “democrazia partecipativa” nell’attuale fase imperiale, occorre soffermarsi brevemente sul sistema costituzionale dell’Impero.
La forza delle multinazionali, infatti, sebbene potenziatasi, grazie alla struttura di rete del nuovo modello produttivo, rispetto alla tradizionale autorità costituzionale dello stato-nazione, non ha in generale prodotto il declino dei meccanismi di controllo politicistico.
La “costituzione” dell’Impero, infatti, altro non è che il livello sopranazionale a cui si sono dislocate le funzioni tradizionali dei sistemi costituzionali.
La costituzione del potere globale assume, nell’analisi di Hardt e Negri, una configurazione piramidale, composta da tre piani, strutturati a loro volta in vari livelli.
Il primo piano è quello del “comando unificato globale”. Esso è articolato in un vertice rappresentato dagli USA, superpotenza in grado di esercitare l’egemonia sull’uso globale della forza, in un secondo livello, costituito da quel gruppo ristretto di stati-nazione che controllano i principali strumenti monetari globali, stati che attraverso istituzioni come il G8 dominano gli scambi internazionali, e, quindi, in un terzo livello occupato dalle associazioni, afferenti alle stesse potenze miliari e finanziarie, che cercano di costruire un dominio culturale di portata globale.
Il secondo piano, quello del “comando distribuito”, è essenzialmente composto da due livelli. Il primo è strutturato dalle reti delle corporation capitalistiche transnazionali, che sul mercato mondiale gestiscono flussi di capitale, di tecnologie e di popolazioni. Il secondo è costituito dal complesso degli stati-nazione, che come organizzazioni territorializzate hanno compiti di mediazione politica con i poteri globali egemoni, di negoziazione con le multinazionali, di regolamentazione dell’articolazione del comando globale, di filtraggio dei flussi di ricchezza, di disciplinamento delle popolazioni.
Il terzo piano, cioè la base della piramide, è “abitato da organismi che rappresentano gli interessi popolari nell’organizzazione del potere globale”(21).
E’ su questo ultimo livello del potere globale che occorre soffermarsi per poter impostare in modo efficace una riflessione sulla “democrazia partecipata” o “partecipativa”.
Non potendo essere direttamente inglobati nelle strutture del potere globale, gli interessi popolari vengono filtrati mediante i dispositivi rappresentativi messi in atto dagli stati-nazione, o attraverso quella varietà di organizzazioni che si legittimano come rappresentanti del popolo globale: “Queste organizzazioni vengono spesso intese come organismi rappresentativi di una società civile globale e si ritiene che siano in grado di canalizzare i bisogni e i desideri della moltitudine entro una serie di forme che possono trovare rappresentanza nel funzionamento stesso delle strutture globali di potere”(22).
Per comprendere il ruolo sostenuto da queste organizzazioni della società civile contemporanea possiamo soffermarci sulle ONG.
Ulrich Beck ha chiarito in modo efficace le strategie che le ONG hanno mutuato dai grandi gruppi industriali per ampliare il proprio potere. Come le grandi multinazionali, le ONG, infatti, tessono reti transcontinentali, che consentono la gestione di un potere plurilocalizzato di negoziazione con i governanti e le burocrazie di governo del mondo intero. Beck insiste con forza sul potere che questa forma di “sottopolitica transnazionale”, rappresentata dalle ONG, può esercitare sui governi nazionali, quando questi sono costretti ad avvalersene perché sempre più in difficoltà ad ottemperare agli obblighi di cooperazione internazionale. Egli invita, pertanto, gli attori della società civile ad approfittare di questa chance di influenza che viene loro concessa dalle contraddizioni che investono attualmente la politica nazionalstatale(23).
La prospettiva di Beck, tuttavia, non chiarisce fino a che punto le ONG riescano a mantenersi indipendenti rispetto al potere economico transnazionale.
Senza voler chiudere in una valutazione unitaria la complessità di un mondo associativo che ha avuto agli inizi degli anni Novanta un vero e proprio boom, appare opportuno cogliere il sostegno che le ONG, nel momento in cui si oppongono ai poteri statali, offrono al progetto neoliberale del capitale globale, di cui finiscono col rappresentare il “volto comunitario”.
Gli stretti rapporti stabiliti fra importanti multinazionali e alcune organizzazioni umanitarie sono discussi in un recente intervento di Luigi Spinola attraverso alcuni significativi episodi di collaborazione: la consulenza offerta in Cina alla Nike da parte della World Vision, che è la più autorevole organizzazione umanitaria cristiana degli USA; la donazione di 100 mila sterline fatta dalla Nestlè nel 1997 al Consiglio delle Chiese di York dopo che il sinodo inglese si era pronunciato contro il boicottaggio; la collaborazione avviata nel 1998 fra la ong britannica Living Earth e la Shell in Nigeria, teatro nel 1995 della repressione della popolazione Ogoni, oppostasi alla realizzazione degli insediamenti petroliferi voluti proprio dalla Shell nel delta del Niger, culminata nella condanna a morte di Ken Saro-Wiwa(24).
Al di là di questi riferimenti specifici, le ONG possono essere considerate importanti tasselli dell’attuale ordine mondiale.
Organizzazioni per la difesa dei diritti umani, come Amnesty International e Americas Watch, gruppi pacifisti, come Witness of Peace e Shanti Sena, organizzazioni sanitarie, come Médicine sans frontières e Oxfam, improntando la loro azione politica ad una istanza morale universale, rischiano di diventare, secondo Hardt e Negri, una delle più potenti “armi pacifiche del nuovo ordine mondiale”. Il loro intervento morale, in termini militari, può essere definito come “la prima linea dell’intervento imperiale”, come una prefigurazione dell’ordine mondiale: “L’intervento morale spesso serve quale primo atto preparatorio della scena per il successivo intervento militare. In questi casi, il dispiegamento della forza militare viene presentato come una azione di polizia autorizzata a livello internazionale”(25).
Le organizzazioni che si sono votate ad una opposizione allo stato delle cose si rivelano, al di là delle intenzioni degli individui che le compongono, funzionali all’organizzazione del dominio.
Occorre, quindi, prendere atto che, nella fase del dominio imperiale gli atti integralmente civili possono rivelarsi premessa di azioni militari, l’energia disseminativa nemica di ogni centralizzazione può diventare una importante risorsa strategica del modello produttivo postfordista, il fare gratuito e l’operare solidale, diretti alla riproduzione di legame sociale e di relazioni umane, anziché essere forme di azione estranee ad ogni logica utilitaria, possono assumere un preciso valore monetario, come “capitale sociale”.
Preso atto di ciò, occorre chiedersi in che modo l’azione civile, l’energia disseminativa, l’operare solidale e tutto il sistema delle virtù sociali, che connotano la figura del Volontario, costituiscano un efficace momento di ribellione e solidarietà, e soprattutto di partecipazione.

4. Il Volontario, il Militante, la Multitudine
L’immagine del Volontario ha ricevuto uno straordinario riconoscimento storico-teorico nella recente opera di Marco Revelli Oltre il Novecento, che si chiude individuando proprio nel fare gratuito, solidale e cooperativo il terreno della trasformazione dei rapporti sociali: “Se un’inversione di rotta è possibile immaginare […], essa non potrà venire né dalla mano invisibile delle derive impersonali dell’economia, né da quella visibile di una qualche avanguardia dotata di un’adeguata tecnologia del potere, bensì dalla scelta consapevole di un numero ampio d’individui liberamente cooperanti nel compito impervio di vivere qui e ora – non di “progettare”, né tantomeno di “costruire”, ma di praticare – rapporti sociali radicalmente diversi”(26).
Nella sua pratica, il Volontario mette fondamentalmente in discussione la scissione tra ragione e passione che ha connotato la storia delle organizzazioni novecentesche del movimento operaio.
Il Volontario, secondo Revelli, non accetta il sacrificio delle passioni, a cui si era piegato il Militante, ingessato nei grandi apparati dell’organizzazione di massa e convinto della pianificabilità dell’azione politica.Tuttavia, pur condividendo, proprio nella prospettiva de Le passioni di sinistra, il senso delle critiche mosse alle forme della militanza novecentesca, che ha spesso confuso la pratica della solidarietà con la mistica del potere e che ha spesso rovesciato l’autonomia del soggetto nella volontaria sottomissione alla disciplina di partito, non riteniamo che possano essere vantati come vantaggi per l’azione del Volontario il “non possedere una dottrina. Un sapere organico e predittivo, su cui definire il proprio Che fare?”(27) e l’impossibilità di “individuare un punto archimedico su cui poggiare la leva della ri-costruzione del mondo”(28).
Questi due presunti vantaggi, riconosciuti da Revelli, si trasformano in limiti allorché il Volontario, che non intende sacrificare la sfera dei sentimenti e delle interrelazioni emotive, e che, al contrario, riconosce che “relazionalità, creatività, passionalità ed emotività sono parte integrante del “capitale sociale” che ognuno si porta dentro (mezzo di produzione immateriale ma non per questo meno indispensabile) e che è chiamato di volta in volta a “investire” per sopravvivere”(29), non si accorge che proprio su quel “capitale sociale” l’attuale sistema produttivo fa leva per perpetuarsi.
E, del resto, a cosa varrebbe una pratica di resistenza come quella proposta dal Volontario, se si traducesse solo in una costruzione collettiva e non anche nell’esercizio di un contropotere capace di destrutturate il potere capitalistico e di contrapporgli un programma alternativo di governo?
Ci sorprende che l’elogio del Volontario venga svolto in questi termini proprio da chi, come Revelli, ha aiutato tutti noi, nell’ultimo decennio, a comprendere lo spirito del postfordismo, anche perché nelle pagine di Oltre il Novecento viene chiaramente riconosciuto che la figura del Volontario subentra a quella del Militante legata al modello fordista di produzione, nel momento in cui questo è entrato in crisi.
Chi ci garantisce, infatti, che il Volontario potrà diventare l’elemento fondamentale di critica del modello postfordista di produzione dal cui avvento è stato prodotto, e non ne diverrà invece il motore interno, dal momento che ne condivide la logica della “disseminazione, della multiattività e della messa in rete dell’eterogeneità”(30)?
Dall’analisi del modello postfordista di produzione, tuttavia, è possibile trarre indicazioni diverse, rispetto a quelle fornite da Revelli, per quanto attiene alla partecipazione dei soggetti.
Il postfordismo, facendo della comunicazione il centro della produzione ha reso il lavoratore una straordinaria macchina. Negri usa per definire questa nuova forma di soggettività il termine Moltitudine: “La moltitudine postmoderna è un insieme di singolarità il cui utensile di vita è il cervello e la cui forza produttiva consiste nella cooperazione”(31).
Sostenere che il cervello è l’unico utensile della produzione postmoderna significa insistere sul carattere intellettuale e immateriale del lavoro, significa sottolineare che i mezzi di produzione sono sempre più integrati nelle menti e nei corpi della Moltitudine, ma significa anche impegnarsi ad individuare il modo in cui la Moltitudine può diventare un soggetto politico.
In questa prospettiva, non si tratta di celebrare la figura del Volontario come una alternativa alla militanza, di cui si vuole dannare la memoria nella forma della militanza comunista novecentesca (si veda la lunga riflessione sull’opera di Koestler Buio a mezzogiorno con la quale Revelli apre il capitolo I peccati della politica e il futuro dell’uomo solidale), ma si tratta invece di cogliere le variazioni che la militanza, che è la “militanza del lavoro”, ha avuto rispetto alla storia della ridefinizione dei rapporti sociali.
Si tratta cioè di capire come, prima dell’affermazione dei modelli fordisti, il lavoratore altamente qualificato e organizzato gerarchicamente nella produzione industriale, quello che Hardt e Negri definiscono “l’operaio professionale”, abbia sviluppato la sua militanza in “un progetto in cui veniva esaltata la figura singolare del potere produttivo operaio”(32), favorendo la nascita del sindacato moderno e la costruzione del partito come avanguardia. Di conseguenza, si tratta di cogliere nella fase fordista, caratterizzata dalla figura dell’“operaio massa”, la tendenza della militanza al dominio dei dispositivi della riproduzione sociale, realizzato attraverso il Welfare State e il riformismo socialdemocratico. Per quanto riguarda l’oggi, dominato dalla produzione informatizzata di stampo postfordista, si tratta soprattutto di riconoscere l’obiettivo della militanza, che continua ad essere “militanza operaia” nella forma dell’“operaio sociale”, nella riappropriazione dell’intelligenza produttiva attraverso la cooperazione.
In un contesto socio-economico in cui la produzione rinvia alla costruzione di forme di cooperazione e comunanza comunicativa, caratterizzato dalla circolazione crescente di servizi e relazioni prodotte dalla cooperazione, piuttosto che dal dominio della produzione fordista di beni materiali destinati al consumo, la militanza mira a creare dispositivi cooperativi di produzione e comunità.
Il libero lavoro cooperativo, che va costruito anche dove il lavoro classico sopravvive, nell’organizzazione politica e sindacale, nelle associazioni di volontariato e di movimento, nelle imprese politiche volte alla trattazione di temi specifici, ha l’obiettivo di erogare “una attività che si sottrae al dominio diretto o indiretto del capitale […] trasformando in senso cooperativo ed egualitario i rapporti sociali nei quali e sui quali si trova ad agire”(33).
In questo senso il Militante esprime la vita della Moltitudine e costruisce il progetto di un potere costituente: “La militanza politica rivoluzionaria deve riscoprire quella che è sempre stata la sua forma originaria: un’attività costituente e non rappresentativa”(34). 
E’ evidente che la critica della rappresentanza non rinvia a un elogio della democrazia diretta. Manifestatasi concretamente nelle forme di “democrazia corporativa” prodotte dal fascismo (integrazione dei gruppi sociali nello Stato etico) e dal keynesismo (assoggettamento della concertazione di big-business, di big-labor e di big government alla misura dello sviluppo imperialista(35)), la democrazia diretta non è l’obiettivo della Moltitudine.
Insistere sul potere costituente della moltitudine significa oltrepassare la vecchia questione della “democrazia diretta/corporativa”, significa proiettarsi verso quella che Hardt e Negri definiscono una “democrazia assoluta in azione”: “Nella matrice produttiva contemporanea, il potere costituente del lavoro si esprime nell’autovalorizzazione dell’umano (l’uguale diritto di cittadinanza per tutti sull’intera sfera del mercato mondiale); nella cooperazione (il diritto di comunicare, di costruire linguaggi e di controllare le reti comunicative) e nel potere politico, inteso come costituzione di una società in cui le basi del potere siano definite dall’espressione dei bisogni di tutti”(36).

5. La Moltitudine, il Movimento, il Partito della Rifondazione Comunista.
A Porto Alegre, proprio Michael Hardt, vede all’opera, nel Movimento, le pratiche dell’intelligenza cooperativa riconosciute in Impero alla Moltitudine: “il movimento di critica alla globalizzazione non ha un centro, si diffonde, ripiega, poi riprende ad espandersi, mettendo uomini e donne in relazione tra loro”. Questa disponibilità a costruire legami orizzontali, che coincide con la capacità di vivere la ricchezza della diversità, costituisce la premessa indispensabile per contrastare il dominio imperiale(37). 
La tessitura di convergenze tra individui e gruppi, a scapito della elaborazione di una linea politica unitaria in grado di dettare una omogeneità di comportamenti, inaugura con il Movimento una forma della politica che trova il suo senso più profondo nella pratica della condivisione, mentre spiazza l’idea della rappresentanza intesa nei modi tradizionali.
In un interessante confronto con il movimento del ’68, Franco Piperno coglie la radicalità di questa posizione in quello che definisce un “atto di esodo”, cioè in quell’essere “pesantemente dentro la tecnologia della società dell’informazione e irrimediabilmente altrove rispetto alla sua rappresentazione politica tanto a livello nazionale quanto sopranazionale”(38). 
Puntando direttamente ad entrare nel processo di formazione delle decisioni politiche, il Movimento rappresenta la forma più efficace di democrazia partecipativa con la quale sono oggi chiamati a fare i conti i partiti, soprattutto riconoscendo, come sostiene Alfonso Gianni della direzione nazionale del PRC, che “non si tratta di sovrapporre o di giustapporre una rappresentanza politica al crescente movimento dei movimenti, ma di comprendere che ci troviamo di fronte ad una possibile e potente innovazione nel e del sistema democratico e, nello stesso tempo, della teoria e della pratica del rapporto tra il partito politico e i movimenti”(39).
Nelle tesi approvate dalla maggioranza del Comitato Politico Nazionale del PRC, in vista del quinto congresso nazionale (4-7 aprile 2002), la nascita dei “popoli di Seattle”, del “movimento dei movimenti”, viene riconosciuto come l’evento decisivo di questi anni, non solo perché è “il primo movimento dopo la lunga fase della sconfitta e indica la possibile nascita di un nuovo movimento operaio”, ma perché è il luogo di denuncia degli “organismi internazionali a-democratici che guidano il processo di globalizzazione capitalistico” (tesi 22).
E’ proprio sul terreno della democrazia che il PRC individua lo straordinario valore del Movimento, che, riproponendo “in termini inediti la questione della democrazia e della partecipazione”, ha concentrato l’attenzione sui temi “del controllo popolare dal basso, della costruzione di spazi pubblici che siano al contempo forme di partecipazione e luoghi di pratiche economico-sociali alternative” (tesi 23).
Anche quando, facendo i conti con la propria storia politica, riconosce nella difesa dei diritti fondamentali e delle garanzie individuali l’elemento fondante di “una battaglia strategica per la democrazia e connesso alla costruzione di una identità comunista rinnovata” (tesi 47), secondo una visione che non dimentica che “il comunismo è anche un’idea radicale di democrazia” (tesi 55), il PRC sottolinea con forza che la difesa e l’innovazione della democrazia, di fronte alla sua crisi, risiedono nella costruzione di “organismi che esaltino, a partire dal livello locale, la diretta partecipazione dei cittadini” e, a questo proposito, propone di valorizzare esperienze come quelle del “bilancio partecipato” della municipalità di Porto Alegre (tesi 47).

6. Porto Alegre: democrazia partecipativa e bilancio partecipativo
O orçamento partecipativo, il bilancio partecipativo, consiste nel concreto coinvolgimento popolare nel processo di definizione dell’utilizzo di fondi pubblici: gli abitanti dei vari quartieri decidono democraticamente l’uso dei fondi comunali, individuando le infrastrutture da creare o migliorare, e seguendo costantemente l’evoluzione dei lavori e i percorsi degli stanziamenti, in modo tale che gli investimenti corrispondano esattamente alle loro richieste.
Porto Alegre è il luogo simbolo di questa sperimentazione amministrativa.
Capitale dello Stato del Rio Grande do Sul, uno degli stati più ricchi del Brasile, confinante con l’Argentina e l’Uruguay, Porto Alegre è una città di più di un milione di abitanti che ha usato le proprie rilevanti risorse finanziarie, non solo per dotarsi di un avanzato sistema di infrastrutture e di servizi sociali, ma anche per adottare politiche sociali in grado di creare le condizioni per l’inclusione di un maggior numero di persone nei processi decisionali.
Il “bilancio partecipativo”, infatti, si fonda su un metodo che concorre a far crescere la coscienza collettiva e a rafforzare la partecipazione democratica ad un livello che va ben oltre i confini della città o dello stato.
La prima tappa di questo metodo si basa sull’informazione dei cittadini sui temi oggetto di decisione. Nelle 22 regioni in cui è diviso il Rio Grande do Sul, si formano assemblee aperte a tutti (nelle scuole o in centri sociali popolari), in cui gli incaricati del governo indicano le linee direttrici del bilancio per orientare il dibattito. A quel punto la popolazione inizia la discussione e decide sulla tematica dei servizi sociali e dello sviluppo statale. Si eleggono dei delegati, prima nei quartieri per un’assemblea municipale e poi in queste ultime per le 22 assemblee regionali. In un secondo momento, i consigli di delegati definiscono delle linee di azione, emerse da quanto discusso con la popolazione nella fase precedente, che divengono poi parte integrante del Piano di Investimenti e Servizi dello Stato. Quest’ultimo, infine, insieme alla proposta finale sul bilancio dello Stato, viene sottoposto dal governo statale all’assemblea legislativa, che è poi chiamata a legiferare(40).
Tutti concentrati sui lavori del Forum sociale mondiale (FSM) in pochi hanno prestato la dovuta attenzione al “Forum de autoritades locais pela inclusão social” o all’incontro promosso, qualche giorno prima di Porto Alegre, a Bobigny, città dell’hinterland parigino in cui viene praticata l’esperienza del “bilancio partecipativo”, dal movimento francese “Democratiser radicalement la democratie” sul tema “Costruzione di politiche pubbliche e di bilanci partecipativi”.
A Bobigny, in un confronto fra realtà politiche municipali o regionali di diversi continenti, sono state discusse alcune esperienze europee di bilancio partecipativo, che si prestano a dar sostanza a quella democrazia partecipativa che altrimenti rischia di rimanere una vuota forma politicista.In Germania, ad esempio, a partire da alcune città del Land Nordrhein-Westfalen, l’esperimento di bilancio partecipativo è stato esteso ad un gruppo di sei città-pilota, che vanno dai 21.000 ai 181.000 abitanti, unite dalla costruzione del processo chiamato “Il Budget dei cittadini”. Questa pratica amministrativa ha consentito di contrastare efficacemente tutte le politiche finanziarie locali concentrate sulle entrate, ma indifferenti agli obiettivi di medio-lungo termine e ai vincoli che ogni scelta determina sui bilanci successivi [ad esempio i tassi di interesse, la manutenzione di quanto realizzato in termini di opere e personale, ecc.]. Attraverso il “bilancio partecipativo” i cittadini hanno conquistato il senso della temporalità tipico della gradualità dei progetti amministrativi, opponendosi all’idea dell’intervento pubblico come “pura gestione del presente”(41).
Se, come sostiene Harald Plamper, economista esperto di bilanci partecipativi tedeschi ed ex-vicesindaco di Norimberga, queste esperienze di apertura democratica consentono di recuperare gran parte del voto di protesta o del non-voto, se a Porto Alegre il Partito dei lavoratori del Brasile (PT) raggiunge il 63% dei consensi, se a Bobigny, dove solo il 23% di cittadini vota alle elezioni, il referendum sulla Proposta di Bilancio porta alle urne il 45% degli abitanti, allora è opportuno prendere atto che la “ridemocratizzazione della democrazia” passa attraverso la democratizzazione delle politiche municipali o regionali.

7. Terre Libere
Più di dieci anni fa, a Molfetta, la democratizzazione del potere municipale in vista della riattivazione di tendenze partecipative veniva posta con forza dal movimento “Insieme per la città”.
Nel novembre del 1990, di fronte alla crisi progressiva che stava investendo il sistema dei partiti, più di un anno prima dell’esplosione di “Tangentopoli”, “Insieme per la città” si presentava come “uno spazio di confronto […] fuori dalle strutture politiche ufficiali (i partiti), un osservatorio della società civile, uno strumento di partecipazione”(42).
Il comitato promotore di quel movimento, in una “Lettera aperta per una nuova politica a Molfetta”, dopo aver ribadito di essere costituito da “cittadini impegnati nella società civile molfettese” e interessati alla costruzione “non di un nuovo partito ma di un movimento che nasca dalla società civile”, manifestava così la propria convinta adesione alle pratiche della democrazia partecipativa: “è necessario ripensare valori, contenuti, linguaggi, tempi e regole della politica, per riscoprire le possibilità e il gusto del partecipare in prima persona: è una questione di autenticità, se non proprio di sopravvivenza, della politica”(43).
A dieci anni di distanza riteniamo si debba ritornare sui motivi ispiratori di quel progetto, soprattutto perché la costituzione dell’Impero ha finalmente svuotato di significato la coppia oppositiva società civile/società politica, spiazzando tutti coloro che della critica del sistema dei partiti avevano fatto in quegli anni un obiettivo strategico, piuttosto che un passaggio tattico nella costruzione di un contropotere in grado di contrastare programmaticamente il potere capitalistico.
Con la costituzione dell’Impero, infatti, categorie fondamentali della moderna teoria politica come “popolo” e “società civile” sono messe irrimediabilmente fuori gioco.
Le nuove tecniche del controllo hanno ormai da tempo assunto come proprio referente, assai più che una grandezza omogenea quale quella rappresentata dal “popolo”, una moltitudine di singolarità cooperanti, che si tratta di amministrare, segmentare e organizzare esaltandone l’eterogeneità(44).
E per quanto riguarda la società civile, occorre riconoscere che lo spazio di mediazione a cui questa categoria fa riferimento è stato totalmente riassunto e riarticolato dalle logiche del dominio, a meno che non si voglia, come ha fatto a Porto Alegre lo spagnolo Joseph Maria Autentas del “Movimento della resistenza globale”, usare l’espressione “società civile” nell’accezione messicana, e zapatista, della “rete di associazioni, sindacati e gruppi di base che puntano a costruire un “contropotere” che eroda il potere della borghesia”/45).
Caduta ogni illusione nel potere taumaturgico della “società civile”, possiamo oggi tornare a riflettere sul ruolo strategico che la città assumeva in quel progetto.
Sulla base del “Manifesto programmatico del Coordinamento nazionale dei Movimenti Politici Cittadini”, la città veniva riconosciuta come luogo di sperimentazione di “itinerari di impegno e di cambiamento” e di realizzazione di “percorsi di integrazione e collaborazione tra i molteplici frammenti sociali”: “La città è la dimensione ottimale per rompere i condizionamenti della “vecchia politica” che ha coniugato cultura ideologica e affarismo, rappresentanza istituzionale e lottizzazione del potere. La dimensione-città come spazio vitale per affrontare i bisogni primari della gente”(46).
Questi temi confluirono in modo decisivo, nel maggio nel 1994, nel programma, elaborato dal Comitato promotore per l’elezione di Guglielmo Minervini Sindaco di Molfetta, Restituire la città ai cittadini, che si apriva proprio con l’invito politico a Ritornare alla città e si chiudeva con una serie di proposte Per favorire la democrazia e la partecipazione.
C’era una importante intuizione in quel progetto, una intuizione che oggi, a Porto Alegre, il “Forum de autoritades locais pela inclusão social”, o più sinteticamente il “Forum delle città”, esplicita nella formula “globalizzazione dal basso”, cioè nella costruzione di un senso collettivo che, nella elaborazione dei progetti di città, passa attraverso “la lotta alla privatizzazione degli spazi e dei servizi pubblici locali, a favore della democrazia partecipata, delle politiche di solidarietà, della negazione della competitività tra aree geografiche a favore della cooperazione e contro la logica bellicistica propria della globalizzazione neoliberista”(47).
Quella intuizione deve essere ripresa! Quella del riformismo elisabettiano deve rimanere solo una parentesi amministrativa! Ci sarà pure da qualche parte un duca di Leicester disposto ad appagare fregole. Anche per ridar vita a quella intuizione nasce “TERRE LIBERE”.
“TERRE LIBERE”. “TERRE LIBERE A MAGGIO”. Dietro queste parole vi è la consapevolezza che la resistenza e la ribellione al mondo costruito dalla globalizzazione capitalistica si muovono a livello tellurico, si costruiscono, come sostiene Revelli, “dentro le pieghe del territorio”, nascono dal basso.
“TERRE LIBERE”, con queste parole si condivide un “far politica” che è resistere e ribellarsi nel modo di un “andarsene dal dominio, dal potere dello Stato”, ma anche dalle illusioni che si annidano nei miti politici ed economici totalizzanti, un andarsene che mira a “produrre nuove temporalità e nuovi spazi comuni, cooperativi”(48).
“TERRE LIBERE”, non è solo una questione di spazi, è anche questione di tempi. La moltitudine può costruire il suo fine comune solo decide di “andarsene dalla rappresentanza e da tutte le istituzioni rappresentative, per insediarsi in nuove temporalità comuni”(49).
Andarsene costituendo, nel senso della già chiarita differenza fra attività costituente e rappresentativa, significa rileggere con Negri la chiusura del Manifesto del partito comunista: “”Proletari di tutto il mondo unitevi” significa oggi: mescolate le razze e le culture, costituite l’Orfeo multicolore che genera, dall’umano, il comune”(50).

1) Cfr. G. SARTORI, Democrazia. Cos'è, Rizzoli, Milano 1993. L'individuazione di un “corpo centrale” della teoria della democrazia consente a Sartori di sostenere che le teorie “alternative” della democrazia, o sono dei falsi, come la “mai esistita democrazia comunista”, o sono delle manifestazioni parziali, delle “sottospecie” di quel tutto rappresentato proprio dalla teoria unitaria della democrazia.
2) Cfr. M. DUVERGER, La Démocratie sans peuple, Éditions du Seuil, Paris 1967.
3) G. SARTORI, op. cit., p. 79.
4) Ivi, p. 81.
5) Per quanto attiene alla riflessione sulla democrazia condotta con gli strumenti della concezione materialistica marxiana rinviamo all'opera di A. CERVETTO, L'involucro politico, edizioni Lotta Comunista, Milano 1994, part. i primi due capitoli pp. 19-96 (si tratta di interventi risalenti al periodo 1977-1989).
6) R. KURZ, Das Ende der Politik, in “Krisis”, n. 14, 1994; trad. it. La fine della politica e l'apoteosi del denaro, manifestolibri, Roma 1997, p. 26.
7) Ivi, p. 33.
8) Ivi, p. 42.
9) Ivi, p. 59.
10) Ivi, p. 49.
11) Ivi, p. 68.
12) Cfr. M. HARDT – A. NEGRI, Empire, Harvard 2000; trad. it. di A. Pandolfi, Impero, Rizzoli, Milano 2002, p. 272.
13) Non ci soffermiamo sulle altre forme di lavoro immateriale descritte da Negri e Hardt, come quella ripetitiva e seriale, nell'ambito della produzione informatizzata, del “controllo dei dati in entrata” o del “word processing”, o come quella del “lavoro affettivo”, connessa ai “servizi sanitari”, ai “servizi alla persona”, o alla manipolazione e produzione di affetti prodotta dall'industria dell'intrattenimento. Rinviamo per un approfondimento di queste tematiche al paragrafo di Impero intitolato La sociologia del lavoro immateriale (pp.271-275).
14) Ivi, p. 278.
15) I testi sui quali Hardt e Negri costruiscono questo passaggio della loro analisi meritano di essere citati: H. SCHILLER, Information Inequality: The Deepening Social Crisis in America (Routledge, New York 1996) e W. WRESCH, Disconnected: Haves and Haves-Nots in the Information Age (Rutgers Univerity Press, New Brunswick, N. J., 1996).
16) F. FUKUYAMA, La grande distruzione, Baldini&Castoldi, Milano 1999, p. 18.
17) Ivi, pp. 21-22.
18) Ivi, p. 22.
19) Cfr. F. A. HAYEK, Fatal Conceit: The Errors of Socialism, University of Chicago Press, Chicago 1988; trad. it. Presunzione fatale. Gli errori del socialismo, Rusconi, Milano 1997.
20) F. FUKUYAMA, op. cit., p. 31.
21) M. HARDT – A. NEGRI, Impero, cit., p. 291.
22) Ivi, pp. 291-292 (corsivo nostro).
23) U. BECK, Il lavoro nell'epoca della fine del lavoro. Tramonto delle sicurezze e nuovo impegno civile, Einaudi, Torino 2000, part. pp. 188-191.
24) Cfr. L. SPINOLA, I collaborazionisti: quando ong e business scoprono di amarsi, in “limes. Rivista italiana di geopolitica”, n.3, 2001, pp. 181-195; in queste pagine vengono offerti utili riferimenti ai siti web di ONG e multinazionali.
25) M. HARDT – A. NEGRI, op. cit., p. 50.
26) M. REVELLI, Oltre il Novecento, Einaudi, Torino 2000, p. 281.
27) Ivi, p. 283.
28) Ivi, p. 278.
29) Ivi, p. 284.
30) Ivi, p. 285. Revelli ha introdotto in Italia l'importante opera di T. OHNO, Lo spirito Toyota, Einaudi, Torino 1993.
31) A. NEGRI, Kairòs, Alma Venus, Multitudo, manifestolibri, Roma 2000, p125.
32) M. HARDT – A. NEGRI, Impero, cit., p. 378.
33) Cfr. M. PORCARO, Per l'alleanza del libero lavoro sociale, si tratta di un paragrafo di una ampia riflessione sul “movimento di Genova” pubblicata con il titolo Primi appunti sul movimento, in “Alternative/i”, n. 3, dic. 2001, pp. 43-60. In questa prospettiva, meriterebbe di essere discussa la teoria del “lavoro d'impegno civile” sviluppata da Beck nel volume Il lavoro nell'epoca della fine del lavoro, cit. part. pp. 179-214.
34) M. HARDT – A. NEGRI, Impero, cit., p. 381. Sul tema del potere costituente della moltitudine cfr. A. NEGRI, Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, manifestolibri, Roma 2002, part. Multitudo et potentia, p. 373 e sgg..
35) A. NEGRI, Kairòs, Alma Venus, Multitudo, cit., p. 128.
36) M. HARDT – A. NEGRI, Impero, cit., p. 378 (corsivi nostri).
37) M. HARDT, Vis-à-vis con l'Impero, intervista rilasciata a B. Vecchi, in “il manifesto”, 5.02.2002, p.14. Cfr. anche L. CASTELLINA – M. SERAFINI, Cose dell'altro mondo, in “la rivista del manifesto”, n. 26, marzo 2002, p. 3.
38) F. PIPERNO, Imparare a far da soli, in “ALIAS”- “il manifesto”, a. 4, n. 50, p. 4.
39) A. GIANNI, Il movimento ci salverà, “il manifesto”, 10.02.2002, p. 18. In questa prospettiva risulta di straordinario interesse l'esperienza francese di Attac che, il 19.11.2001, attraverso un centinaio di deputati francesi, suoi membri o simpatizzanti, riuniti nel “Coordinamento dei deputati membri di Attac”, riesce a far adottare all'Assemblea Nazionale, in un emendamento alla legge finanziaria, il principio della Tobin Tax, ma che, nonostante i suoi 27mila membri regolarmente iscritti alla fine del 2001 e i suoi 230 comitati locali, difende il suo statuto di movimento di educazione popolare e dunque la sua indipendenza nei confronti dei partiti, tanto che non presenterà, né sosterrà alcun candidato alle elezioni presidenziali (cfr. G. LUNEAU, A Porto Alegre, per una globalizzazione diversa, “Le Monde Diplomatique – il manifesto” gennaio 2002, p. 17).
40) Per una dettagliata descrizione del funzionamento del “bilancio partecipativo”, cfr. a cura di S. FORNABAIO, “Un altro mondo è possibile”: Porto Alegre, in Da Seattle a Porto Alegre. Si, se puede!, Quaderni di “Liberazione”, n. 5, febbraio 2001, pp. 127-128.
41) Cfr. G. ALLEGRETTI, C'è una nuova democrazia in città. Ad esempio in Germania, Francia, India…, in “Carta”, a. IV, n. 5, pp. 26-27. Su “Carta” sono state presentate anche varie esperienze italiane di “bilancio partecipativo”, si vedano gli interventi di A. PIZZO, Noialtri al Forum sociale mondiale, in “Carta”, a. IV, n. 6, pp.48-54 e P. CACCIARI, Lezioni di partecipazione nel sud del mondo. Sindaci italiani nella favela, in “Carta”, a. IV, n. 5, p. 25.
42) Insieme per la città. Movimento per una nuova politica, n. 0, febbraio 1991, p. 5.
43) Lettera aperta per una nuova politica a Molfetta, in Insieme per la città. Movimento per una nuova politica, cit. p. 1. I contenuti di questa lettera aperta venivano assunti, nel gennaio del 1992, come Premessa dello Statuto di Insieme per la città.
44) Cfr. S. MEZZADRA, L'Impero è sovrano, in “il manifesto”, 26.01.2002, p. 12.
45) Il 3 febbraio 2002, nella conferenza del Forum Sociale Mondiale dedicata a “Prospettive del movimento globale della società civile” è stata sviluppata una efficace analisi della vacuità della categoria “società civile” nell'attuale fase del dominio capitalista. Di questo dibattito è offerta una interessante cronaca da B. VECCHI, Un movimento a misura di società, “il manifesto”, 5.02.2002, p. 6.
46) Dal manifesto programmatico del Coordinamento nazionale dei movimenti politici cittadini, cit. in Insieme per la città, cit., p. 4.
47) P. CACCIARI, Lo sanno i sindaci italiani che cosa hanno firmato?, in “Carta”, a. IV, n. 5, p. 9. La Carta finale approvata dal “forum delle città” è reperibile su www.portoalegre.rs.gov.br.
48) A. NEGRI, Kairòs, Alma Venus, Multitudo, cit., pp.170-171.49 Ivi, p. 171.
50) Ivi, p. 172.

maggio - agosto 2002