Approfondimenti -
Articolo 18 e non solo
Lo scorso 23 marzo, 3 milioni di persone si sono riversate a Roma per la più grande manifestazione di popolo della storia italiana. Un popolo intero, una sterminata e variegata moltitudine di cittadine e cittadini, italiani e immigrati, di lavoratrici e lavoratori, di precarie e precari, di disoccupate e disoccupati hanno manifestato per ore, per esprimere il proprio dissenso profondo ai tentativi del governo Berlusconi di riformare (o meglio di controriformare) il mercato del lavoro italiano.
Nemmeno la barbarie terrorista, nemmeno la morte di un uomo, Marco Biagi, professore universitario e consulente del ministero del lavoro, ispiratore dei provvedimenti governativi in materia, ha potuto fermare la determinazione di questo popolo nel difendere, attivamente, i propri ed altrui diritti, difendendo in tal modo la democrazia e costituendo, ad un tempo, la migliore e più civile risposta possibile al terrorismo.
Non era un esito scontato. L’atto criminoso di Bologna era giunto, come qualcuno ha scritto, puntuale come la morte. Già, perchè come sempre è accaduto nella storia italiana, la morte è arrivata puntuale a fronteggiare qualsiasi tentativo di cambiamento della società, e qualsiasi forma di partecipazione popolare alla politica.
Non è, purtroppo, la prima volta che ci troviamo a fare queste riflessioni: quando un uomo viene ammazzato da chi non ha il coraggio di agire politicamente a volto scoperto, ci sono varie vittime. C’è una prima vittima designata, l’uomo che si ritrova con il piombo nel suo corpo e cade nel suo sangue. Ci sono i suoi cari, quelli che gli erano vicini, e che perdono una presenza che non sarà più colmabile. Ci sono, ancora, i suoi colleghi di lavoro.
Poi, come nel caso di Biagi, ma fu così anche per D’Antona e Tarantelli, ci sono gli antagonisti delle idee della vittima. Chi fino al giorno prima poteva concedersi la libertà di criticare, contrastare, imprecare, lottare contro le idee di Marco Biagi, contro le sue proposte, assumendosi la responsabilità della scelta di forme di lotta anche dure e radicali, ma sempre a volto scoperto, estranee all’eliminazione fisica dell’avversario.
Ed a volto scoperto Roma è stata innondata il 23 marzo, un volto scoperto sul quale è stato possibile leggere, tra i tanti, un secco rifiuto al tentativo di imbavagliare il dissenso attraverso le bieche strumentalizzazioni dell’assassinio e della sua vittima, strumentalizzazioni prevedibili e, in qualche modo, anticipate dalle dichiarazioni di alcuni esponenti del governo nei mesi scorsi; un volto scoperto e consapevole che una delle vittime dell’omicidio Biagi è la libertà.
Oggi questa libertà è in pericolo; da oggi è più difficile parlare di controriforma del mercato del lavoro, di sottolinearne gli aspetti violenti legati al nuovo comando di impresa, alla nuova configurazione di potere nei luoghi di lavoro. Da oggi, dall’altra parte della lotta, dell’impegno politico e sociale e della polemica civile, non c’è più un uomo, c’è un martire, che non ha cercato il martirio, che il martirio non l’ha nè voluto nè meritato, che avrebbe voluto vivere e si ritrova morto, ucciso da un nemico.
Tuttavia occorre reagire, occorre evitare di darla vinta agli assassini. Chi legge ci scuserà se non conosciamo altro modo di reagire al terrorismo che non sia quello di continuare ad esporre pubblicamente le noste idee, ad alimentare la discussione sui temi delle proposte di Marco Biagi, e a continuare a contrastarli come facevamo quando era vivo.
Sottolineamo che di controriforma si tratta, in quanto appare evidente come, nei documenti del governo (nel cosiddetto Libro Bianco e ancora di più nel disegno di legge delega di riforma del mercato del lavoro) ci sia, dietro la retorica della modernizzazione, quel ritorno alle forme più crude dello sfruttamento e dell’arbitrio padronale che furono tipici degli albori della rivoluzione industriale, prima che l’azione sindacale delle organizzazioni dei lavoratori, e l’azione politica dei partiti operai, riuscissero a sviluppare una serie di tutele e garanzie contro quegli arbitrii.
Il tema della manifestazione è stato la difesa dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, ossia la difesa delle tutele contro i licenziamenti ingiustificati.
Con questo articolo, abbiamo scelto di affrontare il dibattito in materia di lavoro e di diritti dei lavoratori, parlando di “Articolo 18 ma non solo”.
Le ragioni di tale scelta risiedono in una duplice constatazione. La prima ci porta ad affermare che l’attacco compiuto dal governo e dalla confindustria sull’articolo 18 non costituisce l’intero spettro dell’offensiva in atto in materia di diritti dei lavoratori. Al contrario, il dibattito in corso e le mosse degli attori in campo sembrerebbero mostrare che, nelle intenzioni del governo, l’attacco all’articolo 18 possa costituire (se il tentativo di “sfondare” il sindacato non dovesse passare) una sorta di “specchietto per le allodole”, un tentativo di “sparare in alto” per poi mostrare la propria volontà di dialogo rinunciando al provvedimento per far passare altre parti della riforma non meno pericolose.
La seconda constatazione è che, qualunque siano le reali intenzioni del governo, la portata dell’offensiva contro l’articolo 18 riguarda solo marginalmente la tematica della flessibilità del mercato del lavoro. A ben vedere, con la sospensione dell’obbligo di reintegra del lavoratore in caso di licenziamento ingiustificato, si punta a colpire non solo la tutela reale contro tali licenziamenti, ma anche tutto lo spettro dei diritti dei lavoratori in azienda (a cominciare dal diritto di sciopero) che resterebbero sotto la spada di Damocle di un licenziamento illegittimo, non sufficientemente sanzionato. Colpendo le tutele contro i licenziamenti si colpiscono dunque, in maniera simbolica ma anche in maniera drammaticamente concreta, tutti i diritti dei lavoratori. È questa la reale portata del provvedimento, che si configura come una brutale questione di potere sui luoghi di lavoro.
Di questo quindi vogliamo ora occuparci: di come siano intimamente legati, nell’azione del governo in materia di lavoro, l’articolo 18, le altre varie controriforme contenute nella legge delega e in altri provvedimenti legislativi, con il progetto di strutturare una nuova (ma per certi versi arcaica) configurazione del potere all’interno delle aziende.
Proviamo ora a descrivere brevemente la portata di alcuni di questi provvedimenti:
1) Arbitrato ( articolo 12 del disegno di legge delega, d’ora in poi ddl, n. 848). Emergenza del sistema di tutele del diritto del lavoro è, indubbiamente, l’impressionante carico giudiziario, la cui incombenza risulta da tempo, per i giudici e per le stesse strutture della Magistratura del lavoro, impossibile da affrontare ed evadere, sì da frustrare ogni potenziale diritto, qualsivoglia espressione di tutela, esponendo innanzitutto il lavoratore (generalmente parte sociale debole nel rapporto di lavoro), ma certamente anche la stessa parte datoriale, all’imprevisto e all’incertezza di giudizi che si protraggono indefinitamente. Il ddl, quale soluzione, anziché implementare gli scarni organici della Magistratura e le strutture dipendenti, propone un ambiguo arbitrato irrituale volontario (cioè per opzione diretta del lavoratore e del datore congiuntamente, ovvero ad opera delle associazioni sindacali cui eventualmente sono iscritte le parti) e, sopratutto, secondo equità: difatti, pur nella perplessità in ordine alla costituzionalità di norma di Legge la quale dovrebbe prevedere la obbligatorietà dell’arbitrato già solo in quanto iscritto ad associazione sindacale o di categoria - in un sistema di garanzia del diritto ad agire giudizialmente a tutela dei propri interessi - mirabile è la prescritta elusione del divieto di compromettibilità delle controversie individuali aventi ad oggetto disposizioni inderogabili di Legge o della contrattazione collettiva.
Infatti la previsione del Governo dovrebbe consentire di esporre alla transazione in equità anche i diritti di Legge o di contratto collettivi del lavoratore subordinato ancorchè ritenuti inderogabili, in quanto espressione di tutele reputate fondamentali ed irrinunciabili dall’ordinamento. E, nel contempo, si espunge ogni possibilità di controllo di merito della Magistratura sul contenuto del provvedimento arbitrale, cui sarebbe possibile ricorrere, invece, per soli, meri, vizi procedimentali.
Pur nella incertezza in ordine all’impatto concreto della norma, la cui portata sembra comunque esigua, anche alla luce della diseconomicità del procedimento arbitrale, è circostanza paradigmatica lo spirito, la cultura della riforma del ddl: si ritiene di risolvere le frizioni del mercato del lavoro, la paralisi del sistema giudiziario, semplicemente cancellando le tutele, negando il diritto costituzionale di azione.
Infine, a confermare l’intreccio tra le varie parti della riforma, si prevede espressamente che l’arbitro possa derogare dall’obbligo di reintegrazione del lavoratore licenziato ingiustamente previsto dall’art.18 dello statuto dei lavoratori.
2) Servizi per l’impiego, intermediazione ed interposizione privata nella somministrazione di lavoro (articolo 1 ddl 848). Si tratta della completa privatizzazione del collocamento e dell’intermediazione del mercato del lavoro. E’ il completamento di un percorso intrapreso dal governo Prodi e dal ministro del lavoro Treu, portato alle conseguenze più estreme. La somministrazione di lavoratori da parte di aziende private diverrebbe possibile anche per il lavoro indeterminato. Anche qui la posta in gioco è enorme. Come se non bastasse il tentativo di liquidare ogni tutela in materia di licenziamento, questo provvedimento renderebbe la stessa espressione “lavoro a tempo indeterminato” una formula vuota, priva di qualsiasi significato e di qualsiasi tipo di garanzia concreta per il lavoratore. Infatti, all’impresa utilizzatrice sarebbe sempre possibile interrompere il contratto di somministrazione con l’impresa fornitrice, la quale, a quel punto, potrebbe agevolmente licenziare il lavoratore dal momento che l’interruzione di tale contratto di somministrazione costituirebbe la “giusta causa” di tale licenziamento.
Ma questi non sono gli unici aspetti sconcertanti previsti da questa parte della delega. Infatti, l’articolo 1 ddl 848, prevede una “strana coerenza” tra i decreti legislativi con i quali si vorrebbe “ migliorare la capacità d’inserimento professionale dei disoccupati e chi è in cerca di prima occupazione” (strano se letto in parallelo col tenore del libro bianco), e le competenze affidate alle regioni in materia di tutela e di sicurezza del lavoro dalla legge costituzionale n. 3/2001 (la cosiddetta riforma federalista). Se le regioni, che scalpitano per ottenere sempre più autonomia, non dovessero circoscrivere quest’ultima, in riferimento alla materia della tutela e della sicurezza del lavoro, al versante esclusivamente amministrativo (che è, d’altronde, l’unica strada percorribile secondo il dettato previsto dalla Legge costituzionale n. 3/2001), si correrebbe il rischio, auspicato da confindustria, di regionalizzare il diritto del lavoro, ovvero si finirebbe per avere un diritto del lavoro diverso a seconda delle regioni (quasi fosse un prodotto tipico regionale). L’intento nascosto di tale progetto consiste nel costringere regioni a competere tra loro, a colpi di flessibilità, nel perseguimento della piena occupazione, il tutto a danno di una disciplina unitaria dei rapporti di lavoro, con la conseguente nascita della tanto agognata contrattazione regionale che si sostituirebbe a quella nazionale e con la conseguente tanto agognata legalizzazione dele gabbie salariali che, già di fatto esistenti , si possono ancora definire fuori legge.
3) Riforma degli ammortizzatori sociali (articolo 3 ddl 848). Nelle dichiarazioni del governo, tale riforma è finalizzata ad affiancare l’aumento della flessibilità del mercato del lavoro, coniugando flessibilità e sicurezza (la flexsecurity della terza via di Blair). Ciò che rende tali dichiarazioni quanto meno grottesche, sta nel fatto che tutto ciò dovrebbe avvenire, senza oneri per le casse pubbliche!
A ciò si aggiunga il previsto irrigidimento poderoso delle condizioni per il percepimento delle prestazioni del Welfare: tali prestazioni sarebbero condizionate ad un comportamento “proattivo” del lavoratore disoccupato, intendendosi con ciò, l’obbligo di accettare qualunque offerta di lavoro, anche eventualmente non corrispondente alla propria professionalità, pena la perdita del diritto alle prestazioni. Con ciò, il governo ribalta il principio per cui il lavoratore, in ragione della propria sotto-protezione sociale, gode di una maggiore libertà rispetto al suo datore di lavoro nell’interrompere il rapporto. Se tali riforme passassero, ci troveremmo di fronte alla libera (o per lo meno, comoda) recedibilità del datore, e viceversa al ricatto per il lavoratore che dovrebbe accettare qualsiasi offerta per non venire sanzionato con la perdita dei cosiddetti ammortizzatori sociali.
4) Contratti a contenuto formativo (art. 5 ddl 848). Questo provvedimento costituisce un ulteriore passaggio strategico del progetto governativo di subordinare l’istruzione pubblica alle esigenze delle imprese, piuttosto che a quelle degli studenti, le quali sono legate al conseguimento di un apprendimento che li rafforzi nel mercato del lavoro come nella società, piuttosto che all’acquisizione di competenze immediatamente spendibili nelle imprese, ma, proprio per questo, ad altissimo rischio di rapida obsolescenza ed inutilità.
5) Part-time (articolo 7 ddl 848 ). Si assiste in questo caso ad una accentuata destutturazione dei diritti dei lavoratori part-timers, per natura già destrutturati, che verrebbero privati del, seppur labile, garantismo offerto dalla disciplina vigente che, non va sottaciuto, rivela la sua propensione ad essere utilizzata come un vero e proprio trampolino di lancio per le attuali scelte governativo-confindustriali. Quest’ultime prevedono una estensione del diritto potestativo del datore di lavoro di applicare anche ai lavoratori part-timers a tempo determinato sia le “clausole elastiche”, ovvero il diritto di variare unilateralmente la collocazione temporale della prestazione lavorativa rispetto a quella originariamente concordata, sia il lavoro supplementare, consentendo al datore di poter richiedere discrezionalmente lo svolgimentro di prestazioni supplementari rispetto a quelle stabilite nel contratto, con il fine aberrante di “spremere” il lavoratore fin quando c’è e costringerlo, sotto la mannaia del mancato rinnovo del contratto, alle “umorali” volontà datoriali. Con ciò, si scippa il lavoratore della possibilità di sapere in anticipo quale sarà il suo tempo di lavoro, gli si sottrae la possibilità di programmare una esistenza più libera e dignitosa per sè e la propria famiglia (come recita l’art.36 di una Costituzione sempre più bastone tra le ruote dell’attuale classe dirigente) magari curando la propria crescita professionale, e grazie a quest’ultima trovare un lavoro più stabile e meno frustrante. Ma forse l’obiettivo eversivo del governo è proprio quello di impedire il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese.
6) Varie tipologie di lavoro flessibile (articolo 8 ddl 848). Il governo prevede la razionalizzazione o l’introduzione di nuove tipologie di lavoro precario, andando dal lavoro “a chiamata” ( i c.d. lavoratori “squillo”) al lavoro a prestazioni ripartire ( per cui due lavoratori si obbligano ad eseguire una unica prestazione di lavoro), dal lavoro temporaneo alle famigerate collaborazioni coordinate e continuative, per giungere infine alle prestazioni di carattere occasionale ed accessorio.
L’ art. 8 rappresenta una ulteriore conferma della vocazione controriformista dell’attuale governo che da buon piazzista tenta di presentare, soprattutto sulle bancarelle mass-mediatiche, un prodotto paleoindustriale marcio e avariato, come genuino e salvifico: prendiamo, tra i tanti prodotti , il lavoro “a chiamata” che altro non è se non la versione taroccata di un semplice lavoro part-time, dal datore di lavoro usufruibile appunto “a chiamata”, con il lavoratore ipocritamente libero di rispondere alla stessa, perché, in caso di rifiuto, perderebbe l’indennita prevista ( una sorta di indennità di reperibilità),
L’art. 8 però non contiene soltanto minaccie, ma anche l’apologia di un enorme danno gia verificatosi: la liberalizzazione dei contratti a tempo determinato ex d. lgs. n. 368/2001, fortemente voluto dai poteri forti, foraggiati improvvidamente dai precedenti governi, liberalizzazione che ha di fatto innescato l’agonia della subordinazione a tempo indeterminato.
La suddetta neo-disciplina, attuazione di una direttiva comunitaria, frutto di un accordo a livello europeo tra le parti sociali, che confermava come il rapporto di lavoro a tempo indeterminato vada inteso come la forma comune dei rapporti di lavoro che contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori, è il frutto di una contingenza storica sfruttata dal governo per introdurre una normativa meno rigida di quella contenuta dalla precedente legge n. 230/62. Il d. lgs. n. 368/2001 prevede la possibilità di apporre un termine al contratto di lavoro in presenza di blande, fumose e a dir poco generiche “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo”, creando rapporti del tutto potestativizzati quali quelli instaurati con le aziende che esercitano il commercio (import-export e all’ingrosso) di prodotti ortofrutticoli.
7) Certificazione preventiva dei rapporti di lavoro (articolo 9 ddl 848). Nella necessità di ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei rapporti di lavoro, il ddl prevede l’innovativo e sperimentale istituto della certificazione preventiva del rapporto di lavoro, attraverso enti bilaterali costituiti ad iniziativa di associazioni dei datori e dei prestatori, i quali, con l’esclusione dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle PP.AA., dovrebbero, appunto, procedere alla precedente e precostuita qualificazione giuridica del rapporto di lavoro.
Ma principio fondante dell’ordinamento giuslavoristico è la prevalenza della dimensione concreta e fattuale del rapporto di lavoro rispetto a quanto previsto nella lettera del contratto di lavoro; la materialità, cioè, della prestazione di fatto non necessariamente vincolata alla fonte contrattuale: pertanto, deve ritenersi, che l’istituto della certificazione preventiva possa avere la mera finalità di dissuadere vertenze di qualificazione del rapporto introducendo, infatti, una precostituita presunzione qualificatoria – già superabile, deve ritenersi, con prova contraria - ma che, indubbiamente, è, nella generalità delle circostanze, a carico e gravame ulteriore del lavoratore che rivendichi una diversa e più veritiera qualificazione del rapporto di lavoro quale concretamente svolto. Sotto il vestito ingannevole di una riforma di contenuto esclusivamente tecnico, quindi, si nasconde ( lo stesso dicasi per l’art. 12 ddl n. 848) un’ulteriore stravolgimento dei principi consolidati del diritto del lavoro italiano e di tutti i paesi dell’Europa continentale: la prevalenza data al rapporto di lavoro, per come si manifesta nella sua dimensione concreta , rispetto a quanto è previsto dalla lettera astratta del contratto di lavoro, ovvero la prevalenza dei fatti costituiti dal rapporto di lavoro sulle parole costituite dal contratto quando tra tali fatti e tali parole vi è discordanza. Prevedendo un’improbabile certificazione preventiva, cioè una certificazione operante quando la relazione di lavoro non si è ancora instaurata, e quindi quando i fatti non esistono ancora, il governo ribalta questo principio elementare della nostra civiltà giuslavorostica, rendendo i lavoratori ancora più succubi dell’arbitrio padronale.
8) Relazioni sindacali. E’, quest’ultimo, un tema che si sviluppa in maniera trasversale in tutta la delega. Non esiste una parte del ddl 848 consacrata esplicitamente a questo tema, quanto piuttosto un disegno che si materializza in una serie di passaggi impliciti e nascosti, ma non per questo meno dirompenti.
In tutto l’articolato di legge, compare ripetutamente, un’espressione nuova nel linguaggio giuslavoristico: “associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente rappresentativi”. La differenza rispetto al passato è, in apparenza, minima, legata ad una parolina (“più”) che è misteriosamente scomparsa. Eppure, quella parolina di sole tre lettere, che precedeva la parola “rappresentativi”, consentiva ai lavoratori di non essere vincolati da accordi fatti da sindacatini, spesso “di comodo” e senza un reale peso rappresentativo.
Peraltro, è lo stesso metodo che il governo sta attuando nell’attuazione del proprio progetto di riforma, che manifesta palesemente la volontà di sfondamento sociale e di liquidazione del fatto sindacale in quanto tale.
Andiamo ad alcune considerazioni conclusive. Innanzitutto vogliamo rilevare che, se da un lato bene ha fatto la CGIL a cogliere l’effetto dirompente di una rottura della tutela contro i licenziamenti, e a costituire una “linea del Piave” a difesa di questo elemento minimo di civiltà giuslavoristica, al tempo stesso sarebbe estremamente pericoloso limitarsi a fronteggiare questo attacco, perchè nascosto nella delega richiesta dal Governo, esiste un disegno di rottura delle tutele dei lavoratori e dell’azione del sindacato ben più gravi di quelle riguardanti l’articolo 18.
Oltre a ciò, occorre che l’azione del sindacato, così come quella del movimento che si oppone alla globalizzazione capitalistica, si facciano carico della configurazione del sistema produttivo italiano, dei modi del produrre, e dell’eterogeneità spinta delle forme di mobilitazione della forza lavoro da parte delle imprese. Per come si è configurato il nostro sistema produttivo negli ultimi decenni, con la presenza così pesante del lavoro autonomo, e soprattutto del lavoro solo formalmente autonomo ma in sostanza dipendente economicamente o gerarchicamente da un’impresa committente, è necessario lanciare una discussione sul come tenere insieme istanze così diverse ma non per questo necessariamente in contrapposizione.
Riteniamo che sia necessario cominciare ad indagare l’esistenza di un unico sistema di dominio che coinvolge le varie forme di lavoro stabile (sempre meno), precario (sempre più) e gran parte del lavoro autonomo. Riteniamo che sia altresì necessario cominciare ad immaginare le forme di una vertenzialità comune ed unificante per queste, diversissime, figure.
Ma per far ciò, occorre che movimento e sindacato abbraccino pienamente l’importanza di un lavoro quasi investigativo da svolgere su quelle realtà produttive che, spesso si manifestano come impalpabili e inaccessibili, tentando di dare concretezza, anche statistica, a quella percezione che vede la forza lavoro marxianamente ridotta a fattore della produzione, come lo sono i macchinari, i beni immobili;
Si perderebbe una occasione storica se non si intendesse l’attacco generalizzato al mondo del lavoro sferrato dall’attuale governo come frutto di quella flessibilità disumana e selvaggia, da tempo sperimentata nel Mezzogiorno e in altre realtà produttive, da quella parte datoriale spregiudicata, che ora è ai vertici di Confindustria.
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maggio - agosto 2002 |