Dalla parte del torto
di Cristina Tajani

Distanze - … dato che tutti gli altri posti erano già stati occupati, ci siam seduti dalla parte del torto. (Bertold Brecht)

Vorrei recedere dal terreno scivoloso dell’argomentazione violenta, torbida, “genitale” della signora Fallaci per provare ad offrire, a me stessa in primis, un orizzonte più gravido di analisi, possibilità di comprensione, spiegazioni rispetto a quello angusto che odio, rabbia e orgoglio circoscrivono. Sarà che io le palle non ce le ho (la signora Fallaci a quanto pare si…) e non me ne sono mai sentita menomata. Così, per forza di cose, dovrò fare appello ai soli altri organi deputati al ragionamento che mi rimangono.
Cercherò di proporre una breve panoramica su quelle che ritengo possano essere le basi materiali (economiche e strategiche) della guerra che è seguita (e a lungo proseguirà) ai tragici fatti dell’11 settembre. Cause materiali che, a mio avviso, potrebbero ricondursi a tre ordini di fattori: la collocazione strategica dal punto di vista geo-politico dell’Afghanistan, il controllo delle risorse energetiche (da decenni il progetto di costruzione di un gasdotto e un oleodotto che attraversino l’Afghanistan non va in porto a causa dell’instabilità politica della regione), la crisi economica che ben prima dell’11 settembre ha colpito gli USA. Insieme proverò a suggerire spunti di riflessione su quanto di ideologico (nel senso di falsa coscienza occidentale) viene utilizzato per sostenere le ragioni della guerra.
Questo perché ritengo che nessuno dotato di senno, nemmeno la signora Fallaci, possa pensare in buona fede che la posta in gioco in questo conflitto asimmetrico sia il destino ultraterreno delle nostre anime di infedeli.
Non vi rendete conto che gli Usama Bin Laden si ritengono autorizzati a uccidere voi e i vostri bambini perché bevete il vino o la birra, perché non portate la barba lunga o il chador, perché andate al teatro e al cinema, perché guardate la televisione, perché ascoltate la musica e cantate le canzonette, perché ballate nelle discoteche o a casa vostra, perché portate la minigonna, o i calzoncini corti, perché al mare o in piscina state ignudi o quasi ignudi, perché scopate quando vi pare e dove vi pare e con chi vi pare?
Così ci arringa la signora Fallaci, ma temo che la minigonna in questa guerra c’entri poco, proprio perché non si tratta di una guerra di religione, di una crociata alla rovescia mossa dall’integralismo islamico alla conquista delle nostre anime. Anche se con il nostro modello di sviluppo qualcosa probabilmente ha a che fare. E l’integralismo è benzina sulla miccia della disuguaglianza. Benzina versata da chi, gli Usama Bin Laden -appunto- non è così disuguale come gli altri. Anzi direi che è proprio uguale: così vicino al cuore dell’Occidente infedele da aver studiato nei suoi college, frequentato i suoi casinò, stretto affari con il suo establishment (le relazioni tra le due famiglie di petrolieri –i Bin Laden e i Bush- sono da tempo note). E forse non è un caso che Usama Bin Laden non sia cittadino Afgano, che non affondi le sue origini in quella terra arida e misera, oggi ancora più arida e ancora più misera. Ma sia un suddito di Rjiad, l’opulenta capitale dell’Arabia Saudita, infido alleato storico degli Stati Uniti, nonché ottimo partner commerciale: l’imponente progetto di gasdotto e oleodotto che avrebbero dovuto attraversare l’Afghanistan non era forse frutto dell’alleanza tra la compagnia petrolifera americana Unocal e la saudita Delta Oil?
Ma torniamo un attimo all’interesse strategico USA per il controllo della turbolenta area asiatica. Illuminante a questo proposito è il rapporto sulla Quadriennal Defense Review, pubblicato il 30 settembre 2001 dal Pentagono, in cui si dichiara esplicitamente che gli Stati Uniti sono disposti ad usare la forza militare al fine di evitare che nell’area intorno al Caspio emergano Stati o Alleanze anche solo potenzialmente ostili rispetto agli interessi politici ed economici americani. Così il testo, citato da Manlio Dinucci, collaboratore de Il manifesto, in una bella intervista a cura di Fosco Giannini.
Anche se gli Stati Uniti non avranno di fronte nel prossimo futuro un rivale di pari forza, esiste la possibilità che potenze regionali sviluppino capacità sufficienti a minacciare la stabilità di regioni cruciali per gli interessi statunitensi. L’Asia in particolare sta gradualmente emergendo come una regione suscettibile di competizione militare su larga scala. Esiste la possibilità che emerga nella regione un rivale militare con una formidabile base di risorse.
Gli Stati Uniti continueranno a dipendere dalle risorse energetiche del Medio Oriente, una regione in cui diversi stati pongono minacce militari per negare alle forze militari USA l’accesso alla regione.
Il caso vuole che il martoriato Afganistan confini a nord con le Repubbliche ex-sovietiche del Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan e Kazakistan, rimaste collegate all’influenza russa e che sarebbe opportuno per gli interessi americani strappare definitivamente dall’ombrello di Mosca. A est ci sono i confini cinese e indiano, le due più grandi potenze emergenti che preoccupano il Governo di Washington e a ovest si apre l’area petrolifera del Caspio e del Golfo. Ed è proprio questo il cuore pulsante della “guerra dei corridoi” che ha portato dapprincipio all’alleanza con i sauditi della Delta Oil, poi alla rottura di quell’accordo proprio a causa dell’inaffidabilità del controllo talebano sulla regione che avrebbe dovuto ospitare gli oleodotti. Proprio l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti erano stati i principali finanziatori dei talebani di Bin Laden in funzione anti-sovietica. Particolare questo che la signora Fallaci non può ignorare dal momento che fa esplicito riferimento nel suo articolo a quest’altra crociata del passato. Crociata in cui i sovietici rappresentavano il Male Assoluto mentre i fedeli talebani erano le vittime da appoggiare e foraggiare di armi. Si vede che le gerarchie celesti non devono essere così stabili dal momento che i “buoni” di ieri si sono trasformati così repentinamente nel Demonio di oggi. Né gli USA si opposero allora, come ci ricorda Giulietto Chiesa, alla trasformazione delle madrassas, le scuole coraniche, in centri di formazione polivalente, vere e proprie fabbriche per il controllo sociale, in un area in cui l’estrema miseria è humus per il fanatismo religioso, soprattutto quando Allah si procura di mandarti abiti e cibo per mano dei suoi emissari terreni. Gli americani si illusero allora di potersi servire, al fine di stabilizzare l’area, del fanatismo religioso talebano. Evidentemente così non è stato, e sulla leva del fanatismo hanno agito non gli ultimi della terra, i pastori afgani analfabeti e perennemente affamati, ma pezzi delle oligarchie economiche del mondo arabo, gli Usama Bin Laden, i secondi della terra, come li definisce in un interessante saggio Marco Revelli (in ‘La seconda Globalizzazione’, Carta, 7 Febbraio 2002). Infatti non c’è alcun automatismo che porti dalla miseria al terrorismo, tantomeno c’è n’è uno che porti dall’Islam al terrorismo, come invece sembra credere la signora Fallaci. Questa non è la vendetta degli ultimi contro i primi, e io non sono nella schiera di chi ha esultato alla vista terribile delle Twin Towers rase al suolo. Il terrorismo nasce da un disegno politico-ideologico ben preciso, che oggi è impossibile localizzare geograficamente in uno stato o in un’alleanza politico-militare, ma che si estende reticolarmente in più aree geografiche. Ed è questo uno dei motivi per cui la guerra al terrorismo non può essere combattuta radendo al suolo uno stato e poi un altro ancora: oggi l’Afghanistan, domani la Somalia (guarda caso un’altra area strategica per il controllo dei corridoi energetici in cui è già stata combattuta un’altra “guerra umanitaria”, la gloriosa missione Restor Hope di cui parecchi somali si ricordano per le torture, le violenze e gli stupri subiti anche ad opera del contingente italiano!).
Certo, se non servirà ad abbattere il terrorismo qualche frutto questo conflitto l’ha già offerto. Ne sanno qualcosa i palestinesi che hanno visto inasprirsi l’attacco di Sharon, che sotto il cappello della guerra al terrorismo, ha approfittato per mettere a tacere Arafat e tutta l’ANP, azzerando in un sol colpo decenni di tentativi di dialogo. Ne sanno qualcosa tutte le minoranze etniche e religiose che anche nell’avanzato Occidente si vedono ridurre le garanzie democratiche che i nostri regimi costituzionali e parlamentari prevedono. Ma la signora Fallaci forse non si è accorta che quasi tutti i parlamenti (dagli Stati Uniti di Bush all’Inghilterra di Blair) hanno votato misure restrittive delle libertà personali: sicurezza contro libertà, sicurezza contro diritti. Questa l’essenza dello scambio in corso. Ma chisseneimporta dal momento che l’America non è mai stata così forte, come ha tuonato Bush lo scorso gennaio durante il suo discorso all’Unione. La guerra ha fornito all’amministrazione Bush anche l’occasione di uscire dalle secche della crisi economica e dello scandalo Enron. Mettendo da parte il dogma liberista meno Stato più mercato, la Casa Bianca ha stanziato un pacchetto assai consistente di fondi pubblici a favore dell’industria bellica, gonfiando così la domanda interna, ormai in caduta libera a causa dell’aumento sensibile della disoccupazione e della perdita di fiducia dei consumatori. La Lockheed Martin riceverà dal Pentagono oltre 200 miliardi di dollari per costruire 3.000 caccia Joint Strike, cui si dovrebbero aggiungere altri 200 miliardi come prevendite a paesi alleati e contratti di manutenzione. E poco importa se misure di questo tipo non creano ricchezza sociale in un paese, come gli USA, che vede crescere le disuguaglianze al suo interno, fino al punto che il 35% degli occupati negli States, secondo dati ONU, vive sotto la soglia di sussistenza!
Ma in nome di quale modello politico, sociale ed economico l’Occidente, USA in testa, si è impegnato in questa Crociata infinita? (Mai aggettivazione fu più appropriata dal momento che questa guerra, contrariamente a quanto è stato per tutti i conflitti novecenteschi, non individua nessun confine spazio-temporale entro cui circoscriversi. Nemmeno riconosce come tali i suoi prigionieri di guerra, alla faccia di tutti i nostri avanzati Trattati e Convenzioni internazionali!)
Per la signora Fallaci, come per molti altri, la presunta superiorità dell’Occidente riposerebbe nei valori universali di libertà e uguaglianza (non a caso la giornalista cita in proposito la Dichiarazione d’Indipendenza Americana), nel suo modello di sviluppo con la scienza, la tecnologia, il benessere, la radio, la televisione, l’automobile per (quasi) tutti.
E in effetti la signora Fallaci sembra avere in mente, citando ancora lo sbarco in Normandia, la promessa universalistica di libertà per tutti i popoli, giustizia sociale, rifiuto del razzismo di cui i vincitori del secondo conflitto mondiale si fecero portatori. Ma oggi possiamo ancora propugnare l’universalismo del nostro modello sociale ed economico? O forse non dovremmo prendere atto del suo esclusivismo, dell’impossibilità per tutto il globo di raggiungere il nostro standard di vita senza che questo significhi la distruzione dell’intero pianeta? Il mondo ai tempi della globalizzazione neoliberista è un mondo che va polarizzandosi sempre di più. I dati sono noti ed eloquenti: nel Rapporto UNDP 2000, edito da un’agenzia delle Nazioni Unite, si legge che le 3 persone più ricche del mondo hanno un reddito superiore a quello dei 48 paesi più poveri messi insieme. Le 15 persone più ricche un reddito che supera il PIL dell’intera Africa Subshariana.
Marco Revelli e Giovanni De Luna4 propongono stime altrettanto feroci: un americano medio consuma ogni anno circa una tonnellata di cereali, mentre nei paesi sottosviluppati si arriva a stento ai 180 chili. Un bambino medio americano rappresenta, per la quantità di consumo calcolato nell’arco della sua vita, un danno ambientale triplo rispetto ad uno italiano, tredici volte superiore ad uno brasiliano e 280 volte rispetto ad un bambino del Ciad o di Haiti. Ancora un americano medio consuma oggi 1.870 metri cubi di acqua all’anno, 16.665 Kilowattora di energia ed emette 20,8 tonnellate di anidride carbonica; un europeo all’incirca la metà, mentre un indiano consuma un terzo dell’acqua, un ventesimo dell’energia ed emette appena una tonnellata di anidride carbonica; un nigeriano ancor meno.
La promessa universalistica di sviluppo, democrazia, libertà e diritti per tutti i popoli non è stata mantenuta. Le disuguaglianze tra i nord e i sud del mondo, nonostante i migliori auspici del Novecento, vanno aumentando pericolosamente. Il modello di sviluppo, che si è preteso vincente su scala globale, ha generato i mostri di una modernizzazione senza modernità e di una deculturazione coatta in molte delle periferie del globo. Forse non è un caso (ma in questo non c’è alcun automatismo) che la minaccia del terrorismo di matrice islamica sia andata emergendo man mano che appariva evidente il fallimento della rincorsa dei Paesi in via di Sviluppo al Primo Mondo. Gli ultimi decenni del secolo scorso si sono svolti all’insegna di questa rincorsa, dell’industrializzazione affannosa dei secondi e dei terzi nella speranza di raggiungere o di avvicinarsi agli standard dei primi. Secondo le statistiche mondiali solo pochi ce l’hanno fatta (Taiwan, Corea, Giappone, Hong Kong), gli altri sono ripiombati ai livelli di reddito da cui avevano cercato di innalzarsi (tanti paesi musulmani travolti dalla bolla speculativa del 1997, per non parlare del recente caso argentino).
Un sociologo attento come Franco Cassano, in tempi non sospetti, ammoniva rispetto ai pericoli insiti in quello che lui definisce l’integralismo della corsa, l’integralismo, cioè, del Pensiero Unico occidentale che fa della merce e del profitto il suo orizzonte (Franco Cassano, Il pensiero meridiano, ed. Laterza, 1996). Laddove la modernizzazione forzata fallisce, l’imitazione di un modello altro da sé si rivela impossibile e dannosa, è facile che emergano spinte identitarie e fanatiche verso il ritorno e l’esaltazione delle proprie origini. L’erodianesimo cede il passo allo zelotismo. Nessuna istanza di liberazione o giustizia sociale per i popoli, oppressi dalla miseria e da regimi violenti e spesso corrotti, riposa però in questo ritorno. Non siamo di fronte alla vendetta degli ultimi contro i primi, ma, per quanto ci è dato di vedere oggi, ad un disegno in cui gli ultimi continueranno ad essere ultimi e, se possibile, ancora più oppressi. Non di rado, infatti, sono proprio le oligarchie economiche, militari e politiche dei paesi secondi e terzi che si fanno portatrici di queste spinte ideologico-identitarie. Quelle stesse oligarchie (gli Usama Bin Laden?) che più vicine degli altri sono state al cuore del Primo Mondo.

maggio - agosto 2002