Voci - In queste ore è in corso il più feroce atto di guerra nei confronti del popolo palestinese e dalla sua leadership ad opera del governo israeliano di Sharon.
Dopo l’ulteriore atto disperato di un palestinese che, facendosi saltare per aria nella notte del 23 marzo, ha provocato 21 vittime civili nelle città di Netanya, Sharon ha dichiarato di non poter far conto ulteriormente su Arafat, per via della sua complicità con i “terroristi”, ed ha stabilito che ogni azione futura di lotta al terrorismo avverrà per mano israeliana. Contemporaneamente si discuteva al vertice della Lega Araba a Beirut sulle sorti della questione palestinese senza il presidente Arafat, confinato a Ramallah dai carri armati di Sharon. Le riflessioni che seguono sono parziali ed incomplete, ma esprimono le stesse cose che il popolo palestinese chiede da cinquant’anni: pace, terra e libertà.
Terre negate.
Siamo di fronte ad uno snodo cruciale nello scacchiere medio orientale. Mai come in questo frangente le scelte possibili sono due, nettamente distinte e contrapposte: o la Palestina diventa Stato, agognato da un popolo e sventolato da alcuni come vessillo giustificatorio di azioni insensate, o la Palestina non è e non sarà mai più. Perdono di significato parole come mediazione, dialogo e trattativa, ma non per indomabili quanto controproducenti sentimenti “massimalisti”, bensì perché i fatti, le vittime ed i sentimenti di un popolo conducono alle sole due possibilità enunciate. Falchi e colombe sono avvinti dall’abbraccio mortale della sicurezza, divenuta asfissiante anche per gli israeliani, che non permette a donne e uomini palestinesi, a bambini e bambine palestinesi, di vivere la propria vita, di giocare, di lavorare, di tornare a casa, di mettere alla luce i propri figli e figlie, di essere soccorsi. Il check-point diventa il confine implacabile in casa propria e la disobbedienza agli “alt” intimati può costare la vita. E’ paradossale, ma dopo il secolo dell’abbattimento del muro, segue il secolo in cui i muri eretti non si contano più e, per fare otto chilometri di strada in linea d’area, bisogna percorrerne sessanta per evitare i posti di blocco.
Diritti negati: terra, acqua, lavoro.
Ogni situazione di conflitto pone urgenze sociali prima che militari. La Palestina non fa eccezione, anzi le urgenze si moltiplicano ed acuiscono con il perdurare delle azioni di guerra. Acqua, lavoro, casa e terra sono le principali negazioni ed è proprio attraverso queste che si vuole annichilire l’esistenza di un popolo; è sempre su queste che Israele fa leva per stringere il capestro attorno al sempre più esile corpo della Palestina. Si pensi alle azioni di guerra israeliane, giornalisticamente definite rappresaglie: se un manipolo di disperati si fa saltare in aria, Israele risponde devastando i campi di ulivo, che costituiscono l’unica fonte di ricchezza agricola di un paese simile al nostro Mezzogiorno, radendo al suolo le infrastrutture “complici del terrorismo” (strade, aeroporti, presidi di polizia palestinesi), ma soprattutto distruggendo le case. Soprattutto la casa, perché questa è ormai l’unico luogo rimasto ai palestinesi liberato dalla guerra, è un pezzo di quello stato che tentano invano, da oltre mezzo secolo, di costruire. Ora, più che mai, lo stato palestinese è immaginabile solo come la sommatoria di quartieri, isolati, piccole cittadine e pezzi di terra che resistono alla costante sottrazione israeliana. E’ chiaro, dunque, che una prima necessaria discussione in direzione della pace non può prescindere dalla definizione e dal conseguente rispetto dei diritti inviolabili. E’ noto, infatti, che sulla negazione di questi proliferano i germi di una svolta, disperata e guerrafondaia, ed è dalla tenaglia di disperazione sociale-terrorismo che la Palestina ed il suo popolo non possono ulteriormente essere stretti.
Palestina libera: ora o mai più!
E’ sempre più difficile entrare nel merito delle proposte poiché la costante rinegoziazione di zone e territori sembra voglia giungere alla risoluzione del conflitto con lo sfinimento della parte palestinese. Nelle preziose occasioni in cui mi è capitato di discutere con componenti delle comunità palestinesi nella nostra terra ho notato la volontà della pace a tutti i costi, pur con negoziazioni al ribasso. E’ infatti per loro vitale avere un riconoscimento reale del proprio territorio e da questo eventualmente negoziare il resto con lo stato d’Israele.
La storia del conflitto è ancora una volta il risultato di feroci politiche di conquista coloniale che, alla fine delle dominazioni, hanno lasciato una lunga lista di questioni irrisolte. Alla fine del secondo conflitto mondiale con la bipolarizzazione del mondo politico e militare, il Medio Oriente è stato, con il Sud America e l’Estremo Oriente (Corea e Vietnam), il luogo delle maggiori frizioni della guerra fredda. In questa zona tuttavia le forze in campo dovevano tenere conto tanto delle continue schermaglie tra paesi arabi, quanto dell’influenza del potere religioso in essi presente. Come ogni conflitto che si rispetti, il movente religioso è divenuto via via più totalizzante, sostituendosi definitivamente alla “prospettiva socialista”, peraltro minoritaria, quando questa è definitivamente crollata nell’Europa Orientale.
Nello specifico, la dominazione ottomana prima (1571-1917) e la colonizzazione inglese, conclusasi nel 1947 hanno lasciato l’area traballante e precaria, soprattutto dopo la creazione di uno stato israeliano, agognato dal movimento sionista (sorto nel 1882). La nascita di uno stato israeliano ma non di uno stato palestinese ha fatto sì che si rafforzasse questa legittima richiesta di popolo, fino a sfociare nella costituzione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (1964). L’evento saliente, che riecheggia nelle odierne trattative e nel piano di pace del principe saudita proposto nella sessione della Lega Araba, riparte proprio dal momento più drammatico di conflitto del Medio Oriente ovvero la Guerra dei Sei Giorni (giugno 1967). Quell’evento, che poteva essere un punto di non ritorno dopo la sconfitta degli eserciti egiziano, siriano e giordano, segnò invece la nascita di un’unità territoriale palestinese e rafforzò la resistenza palestinese all’invasione. Nel 1982 viene scritta la più vergognosa delle pagine della storia del conflitto: Sabra e Chatila, campi profughi palestinesi, vengono assaliti dalla Militia Christi, fiancheggiatrice dell’esercito israeliano, lasciando una scia di centinaia di morti.
Il momento più alto della lotta popolare si è raggiunto nel 1987 con l’inizio della prima Intifada, la rivolta delle pietre: ragazzini armati di fionde contro carri armati; l’Intifada è ripresa nel 2000 e continua ancora oggi, a seguito della provocazione di Sharon che passeggiò sulla Spianata delle Moschee e riuscì a far fallire i pur miseri accordi presi da Barak ed Arafat a Wye River nel 1998.
Ora si chiede il rientro di Israele nei confini del 1967, in cambio del riconoscimento degli stati arabi e del reciproco riconoscimento degli stati israeliano e palestinese. Di qui si può e si deve ripartire, nonostante il comportamento barcollante e destabilizzante degli USA ed il nanismo politico dell’Unione Europea, unita nella moneta e divisa inesorabilmente sulla politica estera.
Arafat: un presidente in esilio.
L’esilio non è purtroppo una novità per la massima autorità riconosciuta del popolo palestinese. La sua figura, nonostante la martellante informazione distorta circa la sua connivenza con i gruppi più intransigenti, e la pressione ininterrotta che esercitano questi nei suoi confronti, resiste ed è il punto di riferimento interlocutorio ultimo per la Palestina. Da più mesi vive a Ramallah, lontano dal suo popolo con il quale comunica sporadicamente attraverso la radio o la televisione. L’obiettivo di Sharon si esprime in tutta la sua terribile chiarezza proprio nel tenere sotto tiro il presidente Arafat, cercando di allontanarlo dal suo popolo, minandone la leadership, cercando nuovi interlocutori che conoscano solo il linguaggio delle armi. Se dovesse realizzarsi il proposito del premier israeliano inizierebbe una “lunga notte” non solo per la Palestina ma per il mondo tutto. In queste ore hanno sfondato i muri di cinta del quartier generale dall’ANP, vogliono distruggere politicamente e fisicamente Arafat, vogliono cancellare ogni ricordo della resistenza palestinese, vogliono uccidere la terra promessa di cui anche loro sono stati privati per lungo tempo. Quando tornerà a splendere il sole su questi territori?
La Palestina per noi.
Centinaia di pacifisti provenienti da tutto il mondo hanno trascorso la settimana santa in Palestina, cercando di mitigare le azioni militari israeliane: sono divenuti scudi umani negli ospedali, hanno disobbedito ai check-point per far passare le ambulanze della Mezza Luna Rossa, hanno portato cibo, acqua e batterie per il cellulare ad Arafat, sono stati bersaglio di colpi d’arma da fuoco sparati dai tank israeliani, sono stati arrestati ed espulsi. Nonostante la loro presenza e la presenza di diplomatici riconosciuti da Israele, il governo e l’esercito non si sono fermati, hanno inesorabilmente continuato a fare da macellai.
Il movimento pacifista mondiale continuerà ad informare e contro-informare, senza tregua, sulla situazione in Palestina. Il popolo della pace è sceso in piazza a Roma il 9 marzo ed ha dimostrato pieno sostegno alla causa del popolo palestinese. La risoluzione del conflitto medio orientale deve avvenire per via pacifica ed è importante che ciò si verifichi, altrimenti ogni voce contraria sarà zittita con le armi, con la prevaricazione, con la forza, senza spazio per il confronto con le ragioni altre. La lotta di un popolo non può essere cancellata con colpi di mortaio: Palestina libera, ora!