Da Irunea a Porto Alegre
di Andrea Geniola

Esperienze

Irunea è la capitale storica dei Paesi Baschi e capoluogo della provincia della Nafarroa; si chiama così da prima che i romani la battezzassero Pompaelo e gli spagnoli Pamplona.
Alcuni si chiederanno chi sono i baschi, altri, più aggiornati e attenti alle questioni internazionali, si domanderanno cosa hanno a che fare i Paesi Baschi con Porto Alegre e il tema della democrazia partecipativa. Entrambe le domande sono facilmente spiegabili con il trattamento riservato dalla stampa e dalla storiografia ufficiali alla questione basca, ridotta spesso a un mero confronto militare fra gli stati spagnolo e francese e una organizzazione armata, l’ETA. In questa manichea divisione fra “buoni” e “cattivi” si perde la complessità di una società plurale che racchiude elementi di avanzata novità sul piano dell’organizzazione sociale e politica all’interno del contesto europeo e occidentale, utili alla sinistra antagonista e di base nella lotta contro la globalizzazione neoliberista.

1. Gli indiani d’Europa
Presenti su un territorio più vasto di quello odierno da prima degli indoeuropei, prima dei Celti e dei Romani, i baschi amano definirsi come “gli indiani d’Europa”. Gli storici romani, al seguito degli eserciti di conquista, ne attestano la presenza nonché la diversità culturale e linguistica, annotando ben cinque diverse popolazioni di lingua basca: gli Aquitani, i Vasconi, i Varduli, i Caristi e gli Autrigoni.
Oggi i Paesi Baschi (Euskal Herria) sono un triangolo di territorio a cavallo dei Pirenei, tra il golfo di Biscaglia (dal nome della provincia basca della Bizkaia) ed i fiumi Atturi ed Ebro, diviso da un innaturale e anacronistico confine tra gli stati spagnolo e francese. Qui vivono i baschi: un popolo di tre milioni di persone con proprie tradizioni, una propria lingua, l’euskara, assai differente dalle altre lingue d’Europa e non imparentata con alcuna di esse, una specifica e sviluppata cultura. Euskal Herria non significa nazione basca bensì “paese dove si parla il basco” e sono baschi coloro che parlano il basco, a prescindere da colore, religione e origine; in euskara esiste solo una parola per definire un basco ed è euskaldun, cioè colui che parla in basco.
Chi non conosce le feste di San Fermin e Bilbao, la cucina e la “boina” (il copricapo che chiamiamo basco), l’Athletic Bilbao e la pelota? Ma può un popolo essere solo uno svago per turisti? I baschi hanno invece una storia antica e complessa anche se troppo spesso rimossa e negata.
Tra la battaglia di Orreaga (Roncisvalle) del 778 ed il bombardamento di Gernika del 1937 c’è la storia di un popolo, della sua resistenza e della sua lotta per la libertà. Con lo smembramento del ducato di Vasconia e la conquista manu militari del Regno di Navarra da parte della corona di Castiglia nel 1512 i baschi persero quelli che possiamo definire di proto-stati baschi, poiché vi si parlava euskara. I baschi seppero comunque mantenere per secoli propri statuti di “autogoverno” chiamati “foruak”: un insieme di leggi e consuetudini non scritte attraverso le quali regolare la vita politica, amministrativa, giuridica ed economica, e che facevano dei territori baschi delle piccole entità sovrane. Mentre l’autogoverno basco non si era organizzato in stato unitario né aveva intrapreso alcuna campagna imperiale, i due potenti vicini stavano appunto costruendo i loro imperi e le loro macchine statali. Così, tra la Rivoluzione Francese e le Guerre Carliste di successione spagnola del 1833 e 1872, i baschi persero anche le ultime forme di autogoverno e videro formalizzato il confine che ancora oggi li separa; si difesero, combatterono una guerra impari, in migliaia furono perseguitati e giustiziati, in decine di migliaia fuggirono verso le Americhe, costituendo una vera e propria diaspora. Da allora il conflitto tra Paesi Baschi e gli stati spagnolo e francese non ha avuto più fine, non c’è stata generazione di baschi che abbia vissuto in pace, famiglia che non abbia avuto morti, esuli o torturati.
Questo piccolo popolo non ha mai mosso guerra ai propri vicini, non ha avuto un impero o dei domini coloniali, imperatori o grandi statisti, ma solo pescatori, allevatori, contadini, qualche pirata e generazioni di operai, ma questo non ha impedito di conservare la propria lingua e la propria cultura, di condividere un medesimo progetto di società, di essere, in altre parole, niente di più e niente di meno che un popolo. Come scrisse Victor Hugo in L’uomo che ride, “un basco non è né spagnolo né francese, è un basco”.

2. Nodi irrisolti
I Paesi Baschi sono un paese come tanti altri, gli euskaldun un popolo, l’euskara la lingua più antica d’Europa e patrimonio dell’intera umanità; i Paesi Baschi non sono però riconosciuti come tali dagli stati che se ne dividono il territorio e dalla comunità internazionale. Le province di Behenafarroa, Lapurdi e Zuberoa si trovano sul versante francese di questo confine, non godono di alcun diritto culturale, la loro lingua non è riconosciuta, non hanno un proprio dipartimento. Si tratta di una zona ad altissimo tasso di disoccupazione, povertà ed emigrazione, dove la speculazione edilizia delle aziende turistiche francesi ha messo in vendita un intero territorio. Pur aumentando in questi ultimi anni le rivendicazioni da parte dei cittadini baschi, Parigi rimane contraria tanto alla concessione di un dipartimento autonomo quanto al rispetto dei diritti culturali e linguistici, per non parlare del diritto all’autodeterminazione.
Per quanto riguarda le quattro province che fanno parte dello stato spagnolo, ci troviamo di fronte ad una situazione più complessa e conflittuale. I territori di Araba, Bizkaia, Gipuzkoa e Nafarroa, zona altamente industrializzata con una forte classe operaia e una borghesia di idee repubblicane, combatterono fino all’ultimo contro la sollevazione militare antirepubblicana del Generale Franco e per l’indipendenza. Caduta Bilbao il futuro dittatore spagnolo proclamò “finalmente è caduto quell’incubo bolscevico chiamato Paesi Baschi” e le province basche vennero battute palmo a palmo, i “gudari” (i partigiani baschi) fucilati a migliaia, i nomi e i toponimi furono spagnolizzati e cancellati anche dai cimiteri, l’euskara e l’ikurrina (la bandiera basca) vietate. Seppur una nuova massiccia emigrazione vide migliaia di baschi lasciare il proprio paese come esuli e rifugiati, le province basche rimasero una “zona ribelle”, una delle poche in cui un movimento di massa contrastava la barbarie della dittatura franchista. In un contesto di lotte operaie, lotta contro il nazifascismo (battaglioni di gudari combatterono durante la seconda guerra mondiale), resistenza antifranchista e rivendicazioni nazionali, nasce quello che oggi è il movimento di liberazione nazionale basco, mentre l’estrema crudezza della repressione e delle condizioni di vita portò alla nascita del movimento armato ETA (Euskadi Ta Askatasuna).
Tra il ‘75 ed il ‘78, un complesso e lento processo portò alla fine della dittatura franchista ed all’instaurazione di una monarchia costituzionale che rimase però schiava delle lobby e delle oligarchie militari e religiose. Quella che oggi tutti chiamano “transizione democratica” altro non fu che un solenne imbroglio in salsa latinoamericana, un processo interamente gestito da quegli stessi militari, torturatori ed assassini che per quaranta anni avevano dominato lo stato spagnolo, la cui fede democratica risulta essere pari a quella di Pinochet e Videla. Un processo altresì subito e accettato dalla sinistra spagnola, PSOE (socialisti) e PCE (comunisti), come il “male minore”.
Gli spagnoli, e quindi anche i baschi, non furono mai chiamati a votare per decidere fra una repubblica, una monarchia costituzionale, una repubblica federale o uno stato unitario. Fu loro presentata una carta costituzionale nel 1978 e non vi fu alcuna rottura, come ad esempio accadde in Italia, fra il precedente regime dittatoriale e le nuove istituzioni democratiche, bensì un chiaro indirizzo di continuità ben rappresentato simbolicamente dall’investitura diretta a re di Spagna da parte del Generalissimo Franco del Principe Juan Carlos di Borbone. La Costituzione del ’78 fu approvata dalla maggioranza degli spagnoli ma nettamente rifiutata dai baschi con solo il 34% di sì. Come se non bastasse, infastiditi dalla nascente dialettica democratica, i militari imposero attraverso il golpe Tejero (1981) la riduzione delle già limitate autonomie che si stavano concedendo a baschi, catalani e galiziani ed una quota decisamente più alta e maggiormente discrezionale di potere per le Forze Armate del Regno di Spagna.
Come diretta conseguenza fu varata la LOAPA, una disposizione in base alla quale la Nafarroa veniva separata dalle altre tre province che andarono a costituire la CAV (Comunità autonoma basca). Paradossalmente, ma significativamente, Madrid riconosce i territori baschi come un’entità unica solo nel Piano ZEN (Zona Especial Norte) del 1983: un piano repressivo di governo e forze armate tutt’oggi in vigore che prevede la progressiva sospensione delle libertà politiche e civili ed una massiccia opera di intossicazione informativa a livello internazionale per combattere l’indipendentismo. La CAV gode del pieno riconoscimento formale della lingua basca e di autonomia amministrativa, mentre in Nafarroa l’euskara è riconosciuta solo nella zona nord.
Imposta con la forza e contro la volontà popolare, è facile capire perché l’attuale democrazia rappresentativa spagnola manchi di piena legittimità democratica nei Paesi Baschi. Negli anni ’80 la questione era lontana dall’essere risolta, sicché l’ETA prese la decisione di continuare sulla strada della lotta armata fino all’indipendenza e lo stato spagnolo proseguì nell’opera repressiva antindipendentista portata avanti dalla dittatura franchista.
La questione più scottante che mette di fronte i Paesi Baschi agli stati spagnolo e francese è quella della sovranità. Quando si parla di Paesi Baschi non si può parlare solo dell’ETA, senza conoscere e prendere in considerazione le radici politiche di un conflitto ormai secolare, e senza sapere che le strade basche sono popolate settimanalmente da pacifiche mobilitazioni popolari di massa improntate alle forme della disobbedienza civile con cortei, blocchi stradali, scioperi della fame, iniziative simboliche, raccolte di firme. Con l’Accordo di Lizarra i partiti, i sindacati, i movimenti sociali di base, i cattolici democratici, la maggioranza della società civile basca ha chiesto negoziazione, pace e rispetto della volontà popolare, ma quell’autodeterminazione, garantita almeno formalmente dall’ONU a qualsiasi popolo attraverso un’articolata serie di Carte, Patti e Dichiarazioni, ai baschi viene negata. La mancanza di sovranità impedisce ai baschi di decidere in merito alle politiche economiche, sociali e linguistiche. Così i baschi hanno subito la chiusura e lo smantellamento di importanti settori del proprio tessuto produttivo ed economico, che lo stato spagnolo non ha esitato a svendere per rientrare nei parametri di Maastricht, con il risultato di una delle percentuali più alte di disoccupazione d’Europa: il 20% in media, il 24% fra le donne e addirittura il 45% fra i giovani. Ancora, i cittadini baschi devono subire le politiche scioviniste ed aggressive di Madrid e Parigi nei confronti della loro lingua e cultura, che rischiano di scomparire e che si autosostengono solo grazie alla continua mobilitazione popolare.
I diversi governi succedutisi a Madrid, tanto quelli socialisti del PSOE (Partito Socialista Operaio Spagnolo) quanto quelli neofranchisti del PP (Partito Popolare), hanno conservato in Euskal Herria tutto l’apparato poliziesco e militare dispiegato dalla dittatura franchista; Guardia Civile e Ministero degli Interni negli ultimi venti anni hanno trafficato in armi e droga, promosso e finanziato gruppi terroristici paramilitari (GAL, BVE, ecc.), commissionato attentati, omicidi e sequestri di persona, con il denaro pubblico e l’appoggio di Parigi, ma soprattutto con una impunità degna delle più solide dittature. I dati sui casi di tortura e maltrattamenti degli ultimi anni parlano da soli: 131 nel ’92, 83 nel ’93, 112 nel ’94, 98 nel ’95, 123 nel ’96, 121 nel ’97, 97 nel ’98, 48 nel ’99, 77 nel 2000 e 69 a metà del 2001. Inoltre da mesi cadono sotto i colpi dell’Audiencia Nacional del magistrato Garzon (un vero e proprio tribunale speciale) intere organizzazioni di base, scuole popolari, movimenti per i diritti civili ed umani, sindacati e partiti, sciolti con l’assurda accusa di sostenere l’ETA o addirittura di esserne parte integrante; i loro dirigenti, militanti, parlamentari, delegati, vengono arrestati e tenuti in carcere senza processo per mesi.
Riteniamo che la questione basca vada valutata nel suo complesso. Qui come in Palestina, dove il grado di violenza è decisamente maggiore, è chiaro che l’origine dello scontro risiede nella negazione del diritto all’autodeterminazione del popolo, nella mancanza di sovranità. Tutti sono consapevoli del fatto che rimosse le cause politiche e sociali il conflitto cesserà. Accadrebbe anche nei Paesi Baschi, e parole e proposte concrete di dialogo e pace non mancano; proprio a Porto Alegre è stato allestito un tavolo sul tema “Un piano di pace per i Paesi Baschi” nel quale diversi gruppi, sindacati e partiti baschi hanno esposto le proprie proposte. Ci sembra democraticamente corretta e politicamente intelligente una soluzione che veda sostituite le forme violente del conflitto, che hanno stancato e stremato una intera società e lasciato alle spalle dolori e sofferenze, con il rispetto del diritto all’autodeterminazione da praticarsi attraverso un referendum popolare in tutte le sette province basche, con cui i cittadini baschi possano finalmente decidere liberamente tra l’indipendenza, la confederazione con Francia o Spagna o l’attuale stato di cose.
Ma il premier spagnolo Aznar ha più volte dichiarato che “l’autodeterminazione non è un diritto democratico” e lo stesso ha fatto l’opposizione socialista, mentre il primo ministro francese Jospin ha recentemente affermato che il suo governo non ha alcuna intenzione di concedere ai baschi né un dipartimento, né l’ufficialità dell’euskara, né alcun diritto all’autodeterminazione. A nulla servì la tregua unilaterale dichiarata da ETA nel settembre ’98 e durata 14 mesi, durante la quale Madrid “bruciava” la mediazione del vescovo di Donostia e faceva arrestare i negoziatori dell’ETA, mentre i paramilitari sequestravano ed assassinavano il militante di ETA Geresta. Tutto questo proprio nel momento in cui il governo britannico approfittava della tregua dell’IRA per negoziare una soluzione definitiva della questione nord-irlandese e come atti di reciprocità dichiarava lo status di prigionieri politici per i combattenti repubblicani, ne iniziava la scarcerazione e parlava chiaramente di autodeterminazione.
Il ritiro di quella tregua fu un errore, un gran regalo al nazionalismo spagnolista: il Premio Nobel per la Pace Perez Equivel ha recentemente sottolineato come Aznar “non ha mostrato e non mostra alcuna intenzione di negoziare”.
Perché due Stati della Comunità Europea, due illustri membri della comunità internazionale, due paesi che sono andati a bombardare la Jugoslavia “per l’autodeterminazione dei kosovari”, hanno paura dell’esercizio completo della democrazia da parte dei baschi? La questione basca è presente, palpabile, testimone del fatto che anche nella civile Europa la democrazia occidentale è un paravento di formalità e non qualcosa di sostanziale.

3. La sinistra abertzale
è un errore pensare che la questione nazionale esaurisce la complessità della realtà basca; per i due potenti stati europei che se ne spartiscono il territorio i baschi rappresentano un modello di società che non accetta i dogmi del “pensiero unico”.
In questo contesto si muove infatti una forte rete associativa e solidale, che discende direttamente dalla tradizione popolare dell’auzolan: una consuetudine che consisteva, fino a tempi recentissimi, nel reciproco sostegno e nel comune usufrutto delle risorse locali del paese o del villaggio. In questa si innestava la presenza di un più alto organo di autogoverno comunitario basato sulla partecipazione: il batzarre. Queste forme differiscono notevolmente dai foruak che erano più organismi “formali” utili a far valere i propri diritti di fronte agli invasori stranieri. Su queste si sono inserite, dall’800 ad oggi, le forme organizzative popolari proprie della modernità e della presenza della classe operaia: partiti, sindacati, società di mutuo soccorso. La storia della sinistra nella penisola iberica nasce nelle miniere e nelle industrie siderurgiche dei Paesi Baschi, l’Euzko Alderdi Jeltzailea (il Partito nazionalista basco) nato nel 1895, è tra i primi partiti cristiano-sociali d’Europa; il Partito socialista vi era già arrivato nel 1886; l’Eusko Langileen Alkartasuna, tutt’oggi il sindacato maggioritario, venne fondato nel 1911; il Partito comunista nel 1921. In questo contesto si inserirono, man mano che vi arrivavano da tutto lo stato spagnolo, gli immigrati che andavano a lavorare nelle fabbriche. La massiccia immigrazione degli anni ’50 e ‘60, voluta fortemente dal Generale Franco, rispondeva a due esigenze fondamentali del regime: la richiesta di manodopera proveniente dall’area cantieristico-siderurgica di Bilbao ed il progetto di “colonizzare etnicamente” la zona, creando un conflitto tra baschi autoctoni e spagnoli immigrati. Certamente vi furono incomprensioni iniziali, ma l’elemento dell’immigrazione si inserì nelle forme preesistenti di organizzazione sociale e non fece altro che arricchire la società basca, rendendola più plurale e aperta. Il risultato di tutto ciò è che i figli degli immigrati che, secondo il progetto franchista, avrebbero dovuto rappresentare i soldati di una guerra etnica, oggi si definiscono baschi, parlano euskara e spesso sono tra i più convinti indipendentisti.
La società civile basca di oggi e la sua cultura nascono proprio dall’incontro tra baschi “vecchi” e baschi “nuovi”, tra organizzazione sociale tradizionale-comunitaria e moderna-operaia. Una società civile impegnata, partecipe, autorganizzata, ricca di movimenti sociali ed organismi popolari un po’ in tutti i settori. Questo complesso insieme sociale prende il nome di sinistra abertzale (in euskara “patriottica”), la sinistra indipendentista basca.
Riguardo i movimenti sociali la Fondazione Joxemi Zumalabe ha operato un intenso lavoro di catalogazione e ricerca, raccolto in un vero e proprio libro-almanacco. Cercherò di elencare brevemente gli esempi più considerevoli ed interessanti di un fenomeno ampio e complesso che va ben oltre qualsiasi dialettica elettoralistica.
Il movimento più diffuso e più numeroso è sicuramente quello in favore dell’euskara. È costituito da un complesso di associazioni di vario tipo, come Euskal Herrian Euskaraz che si occupa della difesa della lingua dal punto di vista politico e l’Alfabetatze Euskalduntze Koordinakundea che si occupa dell’insegnamento agli adulti che non hanno avuto la possibilità di apprenderla. Il fenomeno più di rilievo è quello delle ikastolak, una rete di scuole popolari che nacque nella clandestinità durante il franchismo e che ha scelto di rimanere indipendente attraverso una federazione propria. Questa indipendenza si riflette in una scelta formativa e didattica alternativa che la rende assolutamente slegata dai programmi di stato imposti dalle autorità. Le ikastolak, assieme alle scuole per adulti, agli studenti e professori delle università, hanno creato un movimento per l’istituzione di un sistema scolastico su tutto il territorio che copra anche l’insegnamento universitario.
Secoli di perenne conflitto hanno creato una profonda coscienza della solidarietà nei confronti di coloro che vengono arrestati o incarcerati per le idee politiche o che sono costretti ad andare in esilio. Ogni settimana le strade di paesi e quartieri si popolano di capannelli di gente che esibisce cartelli con le foto di detenuti ed esiliati politici: sono le “enkarteladak” di Etxerat, l’organismo costituito da amici e famigliari dei detenuti baschi; organizzano periodicamente raccolte di fondi per i propri cari e lunghi viaggi per attraversare la Spagna ed andare a far visita agli oltre 600 prigionieri politici (quanti ve ne erano alla fine del franchismo). Oltre questa organizzazione vi è Askatasuna (recentemente messa fuorilegge dalla magistratura spagnola) che fa un lavoro più specifico di denuncia delle torture e dei maltrattamenti subiti da coloro che vengono arrestati in base alla Legge Antiterrorismo.
Due movimenti che hanno caratterizzato la società basca negli ultimi anni lasciandovi profondi segni sono quello ecologista e quello antimilitarista. La Spagna ha un atteggiamento nei confronti dei Paesi Baschi che rientra nei canoni della vera e propria occupazione militare. Questo fa delle province basche la zona più militarizzata d’Europa assieme all’Irlanda del Nord. Il rifiuto della militarizzazione del territorio si è manifestato in tutti questi anni attraverso numerose iniziative contro l’installazione di poligoni di addestramento e nuove caserme, concretizzandosi poi nella campagna “Alde hemendik”, che chiede l’abbandono totale e definitivo del territorio basco da parte di polizia e forze armate spagnole.
La militarizzazione è usata da Madrid non solo per combattere le aspirazioni indipendentiste, essa serve anche a garantire il libero utilizzo e sfruttamento del suolo e del territorio basco e delle sue risorse, in barba alle esigenze ambientali e alla qualità della vita. Proprio su questo terreno infatti si è svolta una delle più grandi battaglie di massa degli ultimi venti anni, quella contro la costruzione della centrale nucleare a Lemoiz nei pressi di Gernika, un vecchio progetto franchista sopravvissuto al Generalissimo e portato avanti anche dalle istituzioni della transizione, in pieno dibattito post-Chernobyl. Mentre la centrale era in costruzione anche contro il volere delle istituzioni municipali, migliaia di persone manifestavano con cortei, petizioni, azioni dirette, occupazioni, campeggi, scioperi, il loro rifiuto a tale progetto. Dopo una lunga battaglia, durata più di quindici anni, nel 1994 i comitati antinucleari baschi ottennero l’interruzione definitiva della costruzione della centrale e oggi la zona fa parte di un parco naturale. Numerose sono le battaglie tutt’oggi in corso, come quella contro la diga di Itoiz, la cui costruzione provocherebbe irreversibili danni all’ecosistema della zona e il trasferimento forzato della popolazione locale.
Spesso protagoniste di queste battaglie “nuove”, le realtà giovanili basche conservano caratteristiche proprie e specifici ambiti di intervento e organizzazione sul terreno dell’antifascismo e dell’antirazzismo, della lotta allo spaccio e al traffico di droghe, contro le agenzie di lavoro interinali, per le 32 ore lavorative, per il salario sociale, per gli spazi sociali, attraverso le Gazte Asanbladak (assemblee giovanili di quartiere) e i Gaztetxeak (una specie di centri sociali), mentre una menzione a parte va al Kakitzak, il movimento degli obiettori totali al servizio militare. Tra tanti organismi settoriali aggregati attorno a singole battaglie, non mancano realtà organizzate che tentano di dare un respiro generale e un’organizzazione nazionale ai movimenti giovanili; è il caso di Segi, organizzazione giovanile della sinistra abertzale, che ha pagato questa sua progettualità con la messa fuori legge.
Il movimento sindacale ha una lunga storia, una forte e radicata tradizione e rappresenta la punta più avanzata a livello europeo nella lotta per il miglioramento delle condizioni sociali. È stato proprio il movimento sindacale basco (ELA, LAB, ESK, STEE-EILAS, EHNE, ecc.) a convocare e svolgere con successo nel maggio ’99 uno sciopero generale per le 35 ore e il salario sociale, il primo in Europa. All’interno di questo movimento sindacale spicca il Langile Abertzaleen Batzordeak, un vero e proprio sindacato di base autorganizzato, di orientamento indipendentista, che è diventato, dalle lotte contro i licenziamenti ai cantieri navali Euskalduna ad oggi, il secondo sindacato del paese, dopo il già citato ELA.
L’immigrazione extracomunitaria, proveniente soprattutto dall’Africa e dal Maghreb, è un fatto nuovo nelle province basche e ha posto la questione dell’integrazione, dell’accoglienza, dei diritti dei migranti. Un esempio concreto del lavoro svolto in favore degli immigrati è rappresentato dal quartiere bilbaino di San Francisco; una ex zona mineraria diventata a causa di disoccupazione ed emarginazione il quartiere più “difficile“ e degradato della città. Gli abitanti, soprattutto ex-operai, immigrati e gitani, hanno cominciato alcuni anni fa un percorso di “ricostruzione” del quartiere attraverso l’autorganizzazione, l’integrazione e la solidarietà.
Un singolare esempio di autorganizzazione si verifica sul terreno dei mezzi di comunicazione. Vi sono nei Paesi Baschi 19 emittenti radio indipendenti locali e, fino alla sua chiusura manu militari da parte delle autorità spagnole, una nazionale, Egin Irratia. Decine sono anche le testate alternative fra le quali spiccano i quotidiani Gara ed Egunkaria e il mensile Kale Gorria, che rappresentano uniche e invidiabili esperienze di editoria indipendente. Il primo è nato dalle ceneri di Egin, anch’esso chiuso da Madrid e anch’esso basato unicamente sull’azionariato popolare, è un quotidiano unico nel suo genere, scritto in tre lingue (euskara, spagnolo e francese) con una copertura che va dallo sport agli esteri, passando per l’attualità basca, nell’arco di sessanta pagine, più rubriche ed inserti, rappresenta le posizioni della sinistra abertzale e ospita firme come Eduardo Galeano e Noam Chomsky. Egunkaria è l’unico quotidiano scritto interamente in euskara ed è giudicato come imparziale e di alta qualità giornalistica. Kale Gorria è una rivista basata sulle inchieste giornalistiche e la controinformazione, particolarmente inviso alle autorità tanto per le sue posizioni indipendentiste quanto per il coraggio di far emergere e denunciare le trame nere del potere politico ed economico-finanziario, le sue collusioni nazionali ed internazionali con il traffico di armi e droga ed il riciclaggio del denaro sporco. Tra gli ultimi scoop, la scoperta che il magistrato Garzon, “paladino” della lotta anti-ETA, presiede una ONG che finanzia una milizia antiguerrigliera colombiana.
In questi anni, oltre a rivendicare il diritto all’autodeterminazione questi movimenti sociali e la sinistra abertzale hanno anche creato una vera e propria società altra, dotata perfino di istituzioni proprie, con lo scopo di cominciare a costruire gli strumenti della liberazione nazionale senza aspettare concessioni. In questa prospettiva sono nate prima delle comunità di municipi ribelli come EUDIMA, che riunisce i comuni che si rifiutano di iscrivere i propri giovani nelle liste di leva e di ospitare le caserme della Guardia Civile, e UEMA, che raggruppa invece i municipi che rifiutano di emettere ed accettare documentazione in spagnolo o francese. Lo stesso accade sul terreno della cultura e dello sport, dove ad esempio la ESAIT raduna le federazioni sportive basche che chiedono di presentare proprie selezioni nazionali in tutte le competizioni internazionali. I ciclisti, surfisti e pelotari baschi si rifiutano di portare le insegne spagnole o francesi; altre volte, vinta una medaglia, portano sul palco l’ikurrina in segno di protesta, mentre ogni anno le nazionali di calcio e rugby giocano partite amichevoli che riempiono gli stadi.
Il 18 settembre 1999 nasce a Bilbao, alla presenza di 1.778 tra sindaci e consiglieri, Udalbiltza, l’assemblea degli eletti baschi, a tutt’oggi l’unica istituzione che rappresenta in qualche modo i Paesi Baschi nella loro interezza. Si tratta di un particolare e singolare esempio di democrazia diretta e di base, che articola la rivendicazione del diritto alla nazionalità basca e all’autodeterminazione sulla base del diritto internazionale e della disobbedienza civile attiva. Compito di Udalbiltza è affermare l’esistenza di Euskal Herria come nazione nell’ambito delle istituzioni sovranazionali ma soprattutto quello di funzionare da organismo di autogoverno in ambiti quali la lingua, la cultura, lo sport, l’ambiente, l’ordinamento del territorio, lo sviluppo economico, il benessere sociale, rappresentando così un elemento fondamentale e centrale nel processo di costruzione nazionale basca. Come contributo a questo processo Udalbiltza ha creato uffici in tutti i Paesi Baschi ma anche presso le Nazioni Unite e l’OSCE, ha costituito un Osservatorio dei Diritti Linguistici, un Centro di Statistica ed un Osservatorio sui Diritti Umani, ha emesso l’EHNA (il documento di identità basco) e stretto relazioni con la diaspora basca. Ha inoltre avviato il “Piano Zuberoa 2010”, con l’obiettivo di mobilitare tutto il paese nell’opera di solidarietà e sostegno economico alla provincia di Zuberoa, quella più depressa e povera del paese. Udalbiltza ha anche elaborato un piano di pace e negoziazione politica, sempre basato sul diritto all’autodeterminazione.
La centralità dei movimenti e di queste istituzioni alternative non significa che la sinistra abertzale sia priva di organismi politici rappresentativi o di una progettualità propria. Batasuna, l’organizzazione della sinistra abertzale, non è un partito in senso classico, bensì un’organizzazione anti-partito, un movimento che raccoglie ciò che proviene dai movimenti sociali e di base e cerca di dargli voce e visibilità politica; una “unità popolare” che raggruppa lavoratori, disoccupati, precari, “lavoratori immateriali”, terzo settore, piccoli artigiani, cooperative. La “linea politica” di Batasuna altro non è che la sintesi di quello che emerge nei movimenti sociali all’interno delle rivendicazioni indipendentiste. Questo dato emerge chiaramente nei comuni nei quali governa, dove cerca di favorire e creare canali di partecipazione popolare diretta, con particolare attenzione alle questioni sociali (disoccupazione, emarginazione, rapporti con le comunità immigrate e gitane, servizi sociali, spazi giovanili, ecc.). L’esperienza di comuni come Arrasate, Oiartzun, Ondarroa, Hernani o Tolosa (solo per citare alcuni dei più di sessanta governati da Batasuna), rappresenta quella che la sinistra indipendentista chiama “democrazia partecipativa” e che si articola non in una dialettica fra amministrazioni e “cittadini”, ma in una vera e propria partecipazione da parte delle organizzazioni della società civile alle decisioni e alle commissioni di governo sui più svariati temi, utilizzando spesso lo strumento della consulta e del referendum popolare anche per questioni strategiche come i piani regolatori. La partecipazione popolare genera una serie di scelte politico-amministrative incentrate sulla re-distribuzione della ricchezza, come la concessione di spazi sociali aggregativi o l’affitto a prezzi “politici” degli stabili comunali a giovani e disoccupati.
Quello che emerge è un progetto politico “in progress” assolutamente originale di basismo radicale di sinistra che, lontano e opposto a quello del costituzionalismo spagnolista rappresentato dalla inedita alleanza unionista tra neo-franchisti del PP e socialisti del PSOE (che insieme non arrivano al 45%), si dimostra alternativo rispetto tanto agli orientamenti classici di Izquierda Unida (assolutamente minoritari e testimoniali tra i baschi) quanto alle posture dei partiti maggioritari tradizionali espressione della borghesia basca, il centrista PNV-EAJ ed il socialdemocratico Eusko Alkartasuna. Infatti, anche se la coalizione che governa nella CAV tra PNV-EAJ, Eusko Alkartasuna ed Ezker Batua (la piccola sezione basca di Izquierda Unida) adotta misure poco gradite tanto alla destra del PP del presidente spagnolo Aznar quanto all’opposizione dei socialisti del PSOE in fatto di immigrazione, riduzione dell’orario di lavoro nel pubblico impiego, previdenza e protezione sociale, politiche culturali, ecc., essa non riesce, non può o non sa mettere in essere quelle misure che la società basca richiede nelle piazze come nei sondaggi.

4. Si scrive autodeterminazione, si legge autogoverno
Possiamo affermare la particolarità della realtà basca nell’ambito dei movimenti di liberazione nazionale odierni, come quelli irlandese, kurdo e palestinese. Sorprende l’ampiezza degli elementi di liberazione sociale e la loro fusione totale in quelli della liberazione nazionale, soprattutto in rapporto ad altri movimenti.
È importante sottolineare come nel concetto di popolo che emerge dall’analisi della situazione basca vi sia qualcosa di più di una comunità con una propria storia, lingua e cultura; il valore aggiunto del movimento di liberazione basco è avere un progetto alternativo di futura convivenza comune basato sui valori della solidarietà, dell’autogoverno e dell’accettazione dell’altro, ben lontano dai rigurgiti xenofobi che si presentano oggi in tutta Europa, Spagna compresa. Per intenderci, in un’ipotesi fantapolitica verosimile i Paesi Baschi indipendenti sarebbero governati da una coalizione tra cristiano-sociali (EAJ), socialdemocratici (Eusko Alkartasuna), sinistra radicale (Batasuna) e Izquierda Unida basca; una maggioranza plurale, ma decisamente sbilanciata a sinistra!
Inoltre il processo di globalizzazione cui stiamo assistendo in questi anni porta con sé una serie incredibile di conseguenze per i popoli senza stato come baschi, palestinesi o kurdi. Se la nascita dell’Unione Europea, del Mercato Comune del Sud-Est Asiatico o del Mercosur risponde alle esigenze di creare macro aree economiche capaci di reggere il confronto con le potenze economiche di dimensioni continentali come USA, India e Cina, ciò presuppone una riduzione del potere dei governi e della stessa sovranità degli stati-nazione, che si vedono ridotti a meri gestori di macchine statali sempre più “leggere” atte solo a garantite interessi economici, sicurezza, ordine. Di fronte a questa situazione i popoli senza stato, vittime di conquiste e colonialismi, che qualcuno ipocritamente chiama “minoranze”, vivono una condizione di doppia globalizzazione. Lo storico basco Inaki Egana, nella sua relazione al seminario su globalizzazione e questione basca svoltosi recentemente presso l’Università di Bari, sottolineava appunto come “… noi baschi ci troviamo di fronte a un processo di globalizzazione bicefalo: quello nordamericano, per intenderci, e quello franco-spagnolo. L’uno e l’altro utilizzano le proprie vie di penetrazione e imposizione.” Non solo, ma baschi, palestinesi o kurdi paradossalmente vedono negoziati il proprio futuro e la propria stessa esistenza da quegli stessi stati-nazione che ne perseguono, seppur attraverso differenti politiche, l’annullamento.
La stessa collocazione geopolitica dei Paesi Baschi deve farci riflettere circa l’importanza di quanto accade oggi in quel triangolo di terra. Un polo vitale dell’occidente post-moderno, un pezzo d’Europa, che produce un’infinità di movimenti sociali di base e che possiede tutte le potenzialità, le intenzioni e i progetti per rappresentare un interessante esperimento di autogoverno e autogestione, dovrebbe trovare nella sinistra europea un interlocutore più attento.
La questione basca è esempio del modo in cui un movimento di liberazione nazionale possa esserlo anche di cambiamento ed emancipazione sociale; di come una questione nazionale possa prendere una strada differente da quella della chiusura, della xenofobia, del razzismo, dell’odio. Un “modello basco” insomma contro lo status quo dell’Unione Europea dei capitali e delle polizie, contro e oltre il neoliberismo alla spagnola, orfano del franchismo, e lo sciovinismo francese, sedotto da Le Pen. Questo probabilmente temono Madrid e Parigi, ma anche Bruxelles e Washington. Questo ci auguriamo noi, sulla strada della decostruzione del potere delle multinazionali e degli stati che le sorreggono, per una democrazia diretta e partecipativa che sia strumento reale di autogoverno. Quella basca è una proposta interna al movimento no-global, una voce da ascoltare. La battaglia per decidere tutti direttamente del proprio futuro parla mille lingue, anche l’euskara, e Irunea e Porto Alegre non sono poi così lontane.

maggio - agosto 2002